domenica 13 luglio 2025

Emancipazione - Racconto

 




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EMANCIPAZIONE

 

 Spengo il motore del fuoristrada in uno slargo della Carrara.

A sinistra, oltre il muretto a secco, l’appezzamento delle melanzane. La macchina raccoglitrice, simile a un uccello con le ali spiegate, avanza adagio, per permettere ai raccoglitori di sistemare gli ortaggi sui due nastri trasportatori. Saranno una decina, fra uomini e donne, italiani e di colore. Hanno tutti la pelle scura, tanto che certe volte nemmeno li distingui. Immagino i commenti dei maschi giovani sul mio didietro, li fanno sempre, e non perché siano razzisti o sessisti, ma semplicemente perché sono giovani e maschi.

La carrara, nei miei ricordi, è sempre stata così: stretta, delimitata dai due muretti di pietre mezzo crollati, e col fondo di pietrischetto bianco. Mio nonno, da piccola, mi raccontava di quando ci passavano i carri, appunto, e le ruote di legno col cerchio in ferro avevano scavato per secoli e secoli due solchi profondi. A quel tempo l’azienda Bio che mi dà da mangiare era una masseria, le donne e i ragazzini raccoglievano a mano, riempivano i cesti che uomini portavano a spalla per andarli a versare sui carri. Adesso le macchine fanno tutto o quasi, come il bestione che mi viene incontro dall’appezzamento sul lato opposto della carrara.  Il mezzo è una vera bellezza, azzurro, con le ruote più alte di una persona e la cabina che avvicinandosi sembra sempre più un grattacielo guardato dalla strada. Si ferma a pochi metri, sussulta leggermente col motore al minimo; sembra un gigante buono impaziente di tornare a rendersi utile.

Mesciu Tore salta giù dal gradino più basso della scaletta. Lo ricordo da sempre così, con la pelle color cuoio e i solchi che dagli occhi scendono fino al mento.

«Non hai sentito il gallo, signorina?» scherza.

«Mio nonno ha avuto una colica, il dottore è andato via adesso.»

«Ah, mi dispiace. Ero alto due palmi quando mi diceva Ieni piccinnu mia… vieni bambino mio, e mi portava sul trattore da alba a tramonto, col sole e la pioggia… e allora i mezzi non erano come questa bellezza…»

«Che ne dici, comincio?» lo interrompo, prima che si metta a raccontare com’erano i trattori ai tempi suoi, che poi… sai quanti ne vedo e ne ho visti per le campagne qui attorno!?

Ci resta un po’ male, gli piace raccontare, come a tutti quelli di qui. Ma è solo un momento, torna a sorridere e mi fa, indicando la scaletta: «Va’ vagnona,» che significa: Vai, ragazzina.

Fra loro parlano dialetto stretto, anche gli stranieri trapiantati; con me, tutti, un misto che si approssima all’italiano. Forse perché, per gli studi, sono partita carosa e tornata rande… partita giovane e tornata grande.

Agita la mano quando si è già voltato: «Ciao Nuzza».

Posso ricostruire come da Giulia si sia arrivati al diminutivo vezzeggiativo Nuzza. Partendo da Giulianuzza, e da qui all’ulteriore vezzeggiativo Nuzzuzza. Altrove sarebbe inaccettabile, invece qui dentro mi hanno sempre chiamata così e sono convinta che molti lo considerino il mio nome vero. Ci ho fatto l’abitudine.

Mi arrampico sul bestione in attesa.

Ho seguito un corso del costruttore, per guidare il mezzo. Appena mi siedo e chiudo la portiera, il getto dell’aria condizionata mi crea quasi uno shock termico: la spengo. Il motore mi trasmette la sua impazienza attraverso il sedile. Spingo pedali e manovro leve, e si avvia. Ruoto il volante. Davanti a me l’appezzamento va incontro all’orizzonte piatto, separato dalla linea perfetta che demarca la parte arata da quella da lavorare. Affondo i vomeri nella terra e rilascio la frizione. La macchina ha un attimo di stallo, poi si avvia. Davanti a me, da adesso in poi, a sinistra il marrone scuro della terra rigirata, di qua la distesa gialla delle stoppie di grano appena mietuto. Il mezzo brontola in sottofondo e tira dritto. Potrei lasciare sterzo e pedali e lui andrebbe avanti senza ripensamenti, all’infinito. Su questo territorio piatto come una tavola piallata è come in barca, vai verso l’orizzonte e lo vedi allontanarsi: irraggiungibile. Eppure sai che in fondo c’è sempre qualcosa, sia pure un nuovo percorso, magari tortuoso, rispetto a quello diritto che avevi seguito finora. Qualcosa c’è, diverso da ciò che hai lasciato. E questa è l’unica certezza.

Le case vedono passare le vite di chi le abita. La facciata di quella dei nonni è malridotta. Era bianca e bella, nei miei ricordi; attaccata, come se l’abbracciasse e non se ne volesse staccare, al palazzetto dei massari di allora, don Cosimo e donna Agatina, che ho conosciuto solo nei racconti dei vecchi di qua. Mio padre, prima che io partissi per l’università, aveva imbiancato il soggiorno. Adesso, dopo sei anni, è ancora pulito. Ti accorgi che non è più candido solo se sposti i quadri. Per queste contrade il bianco veste qualsiasi edificio, tranne le chiese, che sono grigie come la pietra locale invecchiata, e le case in stile liberty dei signorotti del posto, che sono di un bel rosa acceso. La cucina dei nonni, che papà ha sempre rinviato, ha le pareti scurite dalla fuliggine dell’antica cucina a legna, ormai dismessa, e della stufa a carbone, che ancora funziona per i pochi mesi invernali…

 

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Camperino - Racconto




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CAMPERINO

«Un camper è libertà, due sono una folla.»

Lui, linguista purista mi guarda arricciando il naso: «Folla si riferisce agli esseri umani, il camper ha un motore meccanico».

L’ucciderei, quando fa così. Che poi, fosse un professore di lettere… ingegnere è, laureatosi tre anni dopo di me. E non per l’età, che adesso ne ha trentadue e io trenta, ma per cattiva condotta.

«Francesco non cambiare discorso!»

«Il discorso è sempre lo stesso,» fa lui, «che sempre devi fare la Bastian contrario.»

«La è femminile, Bastian è neutro e contrario è maschile,» gli rendo la pariglia.

Lui sbuffa. Va a prendersi un bicchiere d’acqua dal frigorifero, se lo porta dietro la penisola e si piazza sullo sgabello.

La televisione trasmette il TG della sera. Le finestre sono spalancate per far circolare un po’ d’aria dopo il tramonto e il traffico copre le notizie. Vado al divano e mi ci butto. Condizionatore è una parola che il salutista disconosce. Caldo, ci vuole, d’estate! Natura, per le vacanze!

E io, sempre remissiva. La compagna che si adatta: per amore, per indole, per… Va bene, lasciamo correre.

E adesso, tre giorni a luglio, lui se ne esce con l’invito del nuovo assunto con cui condivide l’ufficio: Vacanze assieme, ma indipendenti, due camper… libertà e comunità!

Sembra l’inno di un partito politico.

«Che poi, chi è questo collega?» gli chiedo.

Gonfia le guance, alza le spalle, noncuranza allo stato solido.

«Un collega.»

«Collega come?»

«Bof,» scuote la testa, «giovane, biondo…»

«Voglio dire… amico, conoscente, Ciao e via, o cosa?»

«Beh, insomma, amico…» rotola la testa, «ci conosciamo, c’è confidenza.»

«Tutto qui?»

Lui tace, io aspetto, lui dice: «Sua moglie…»

Sospensione da Dico o non dico?

Non dice, così io: «Ha una moglie, dunque».

«Certo.»

«Perché certo, io e te non siamo mica sposati!»

«Va bene, lasciami dire.»

Annuncia, ma poi non dice.

«Sua moglie?»

Su su bambino, lo incito mentalmente.

«Sua moglie è un’estroversa!» se ne esce tutto d’un fiato.

Mi si attorcigliano le budella, sul divano, con la televisione a volume ottanta che non si sente, mentre lui, seduto a cosce larghe sullo sgabello della penisola, si scola un altro bicchiere d’acqua depurata.

Dico io: Uno tiene la moglie che non sa stare zitta e io me la devo portare in vacanza!?

 

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La ragazza sul balcone - Racconto


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LA RAGAZZA SUL BALCONE

Capelli neri, lunghi fino alle spalle, la vedevo ogni giorno fra le 13 e le 14. Non distinguevo bene i lineamenti, ma brutta non era; e posso assicurare che le gambe avrebbero compensato qualunque difetto. Per chi sa quale gioco urbanistico, per quale studiato incastro di volumi, il mio palazzo fronteggiava il suo. Io mi trovavo al primo piano, lei al quarto e trascorrevamo quell’ora del dopopranzo a scambiarci occhiate da balcone a balcone, o meglio, io la guardavo… e mi sembrava che lo facesse anche lei.

Ero un fuorisede, un leccese trapiantato nella magniloquente caotica Roma; il mio universo si riduceva a un pendolo oscillante tra la Facoltà di Architettura alla Sapienza e uno studio di progettazione dalle parti di Piramide. A giorni alterni frequentavo i corsi inseguendo la laurea, negli altri mi seppellivo nello studio, dove svolgevo calcoli di stabilità per ingegneri che avevano molta fretta e poca pazienza. Ormai la mia esistenza era un diagramma di forze, un computo di tensioni e compressioni, e, in tutto questo rincorrere, tempo per lo svago e le ragazze ne rimaneva ben poco… anzi, a essere onesti, direi niente. Lo studio si trovava a una sola fermata di metropolitana dal monolocale in affitto, così potevo sfuggire al triste rito del panino al bar assieme ai colleghi. Dalla facoltà riuscivo a rientrare più o meno nello stesso tempo. Mi scaldavo un boccone di pasta avanzata e uscivo sul balcone.

Era maggio. Le giornate a quell’ora avevano il tepore della natura al risveglio; il prato tra il mio palazzo e quello della ragazza bruna profumava di erba fresca e di margherite appena sbocciate; il rumore del traffico, in quella periferia di città, era solo un mormorio distante. Mi sedevo sulla mia sdraio con in mano un libro che non avrei letto e guardavo in su, con cautela, senza farmene accorgere. Lei era sempre lì, sul suo balcone. A volte usava una bottiglia per annaffiare i vasi, altre riordinava qualcosa, si spostava, si affacciava, si ritirava; l’incarnato rosa delle sue gambe mi ammiccava dall’ombra della gonna, mentre si voltava. Io speravo di sorprendere il colore delle mutandine, che immagino nere, oppure color carne, e mi ritrovavo a fantasticare che forse non le indossava affatto. Altre volte, anche lei sulla sdraio, leggeva un libro o una rivista, forse si appisolava, per qualche minuto. Sedeva sempre con le gambe rivolte verso di me, facendomi sognare.

Per tutto il periodo antecedente al fatto che sto per raccontarvi, non le avevo mai fatto un cenno. Oh, non per timidezza...

Il seguito di questo racconto è in FRAMMENTI DI ADESSO, la raccolta di racconti in prevendita a €.1,99 utilizzando questo Link: 

 

domenica 29 giugno 2025

FRAMMENTI DI ADESSO - Presentazione





Sirio, dopo dodici libri e numerose indagini, doveva riposarsi e io rinnovarmi… la fantasia ha fatto il resto. Le storie che compongono la raccolta FRAMMENTI DI ADESSO, come usano fare con l’autore, hanno cercato spazio, preteso attenzione. Venivano avanti vivide, attuali, parlavano di cose d’oggi; i personaggi mi si mostravano schietti, si muovevano in “tempo reale”, agivano davanti a me sinceramente, senza pudori.

Ho dovuto ascoltarli.

Ecco dunque che l’autore di thriller e polizieschi ha dovuto fare un passo di lato e lasciare spazio a ogni loro singola voce.

La ricerca di un nuovo pseudonimo, in tutto questo, è stata un passaggio naturale, fisiologico: Romano Greco si fa da parte e lascia spazio a Marcello Melis.

La raccolta, al momento, è disponibile solo in formato E-book, tramite pre-ordine su Amazon, al prezzo di lancio di €.1,99. 

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martedì 24 giugno 2025

Il sorriso del candidato - Racconto

 



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IL SORRISO DEL CANDIDATO

Io non ce l’avevo affatto contro quel candidato, e se qualcuno ha voluto asserire il contrario… ebbene, ha mentito.

Il fatto vero è che il candidato mi aveva, non esattamente perseguitato, ma ossessionato sì.

Per capire che intendo, amici miei, immaginate strade, immaginate quartieri e rioni, immaginate Roma intera tappezzata da un susseguirsi continuo e ininterrotto di cartelloni inneggianti al candidato.

Ciascuno traboccante della sua immagine cubitale, intendo.

E adesso, immaginato che avete questo, con un ulteriore impiego di fantasia immaginate ancora che quel candidato, in queste sue fotoriproduzioni in primissimo piano, sorrideva a tutto campo.

Oh, si badi bene, era un bell’uomo il candidato; e il sorriso che offriva agli elettori faceva proprio un bel vedere. Quindi non c’era motivo per avercela con lui, non mi aveva fatto nulla e nemmeno mi era antipatico.

E allora, Giangi, direte voi, perché l’hai fatto?

Si è detto anche questo: a causa dell’ossessione.

Io di mestiere faccio il tipografo.

Ecco, vedo che cominciate a capire, o perlomeno a intuire.

Lavoravo proprio nella grande tipografia a cui erano stati commissionati i cartelloni per la campagna elettorale del candidato. Erano così grandi, questi cartelloni, che venivano stampati in quindici riquadri, che, dall’alto verso il basso, in file da tre, così lo ritraevano:

 

capelli, calvizie, capelli

tempia, fronte, tempia

occhio, naso, occhio

guancia, bocca, guancia

spalla, cravatta, spalla.

 

Ebbene io, costretto a controllare le rotative, me le vedevo sfilare davanti al naso tutto il santo giorno queste porzioni anatomiche del candidato: capelli calvizie capelli, tempia fronte tempia, occhio naso occhio… tanto in ordine composto quanto in ordine sparso: guancia occhio naso… cravatta bocca occhio… E dopo le dovevo riunire e dopo ancora accatastare, impacchettare, imballare, riordinare, spostare, caricare, scaricare, trasportare, trasbordare, immagazzinare, ricaricare, riscaricare e ritrasportare per tutto il tempo che mi imponeva il contratto di lavoro. Ma non finiva lì, perché poi, a sera, quando uscivo dai capannoni della tipografia, l’immagine del candidato, ricomposta ora nella sua magnifica grandezza, seguitava a osservarmi dall’alto dei cartelloni lungo i bordi delle strade.

Beh, direte voi, giunto a casa, poi basta!

Ma, no… macché!

Io abito in due stanzette a primo piano e tutte le finestre affacciano su una piazza vasta che, trovandosi alla periferia estrema, si va a perdere nei campi. C’è da credere che qualcuno, per nascondere agli occhi dei cittadini lo spettacolo di quella campagna così desolata, abbia voluto contornare la piazza di cartelloni pubblicitari: tutti abbigliati sul davanti, ma forse anche nella parte verso i prati, con l’immagine sorridente del candidato.

Per me non c’era pace. Non avevo bisogno di affacciarmi per essere tormentato dallo sguardo benevolo del candidato: quei cartelloni si trovavano giusto alla mia altezza.

Beh, gli ultimi fra voi obietteranno che, giunta infine l'oscurità della notte, allora basta.

Macché, ma no!

Un cartellone alto due piani rivestiva il fianco del palazzo davanti al mio letto; il quale palazzo, da questo lato, non ha le finestre. L’intonaco, poi, è così malandato e brutto che per non turbare la vista del vicinato si era deciso di nasconderlo con quel viso bonario e sorridente. Potenti fari, inoltre, sistemati con grande studio, illuminavano a spolvero quel cartellone di quasi un ettaro. Ebbene, il sorriso del candidato stava in linea proprio col mio cuscino.

Ma chiudi le persiane! Abbassa le tapparelle! Tira le tende! Concluderete voi, persone senza problemi e dalla soluzione facile.

Beh, facile a dirsi, per voi e per chiunque altro! Non per le mie fobie multiple: che posso farci? ho paura del buio e temo i luoghi chiusi!

Ma nel sonno, dirai tu, ultimo obiettore, avrai pur trovato sollievo… nel sonno dico, dal sorriso di quel candidato che tanto ti ossessionava.

Il guaio è che soffro d’insonnia.

A questo punto, chi fra voi ha mai provato un’ossessione – di qualsiasi genere, intendiamoci – sa per certo che sconvolge l’ordine naturale dei valori, l’obbiettività dei giudizi, l’equità dei pareri; che offusca ogni altro aspetto della vita. Sa bene, costui, che l’oggetto ossessionante assurge al primo posto nei suoi pensieri, spingendo a calci e gomitate tutti gli altri sotto di lui.

Così, dopo giorni di campagna elettorale, avevo un solo desiderio: non rivedere mai più il candidato; il che, fra tanti altri desideri che mi sarebbero stati facilmente consentiti, mi era invece precluso fermamente. In tipografia distoglievo lo sguardo, mi distraevo, mi giravo altrove; per la via mi osservavo i piedi; in casa camminavo come di lato i gamberi, con le spalle alle finestre; la notte stavo a occhi chiusi o voltato verso il muro; ma inutilmente, perché alla minima distrazione, al breve sollevarsi delle ciglia, il sorriso cubitale del candidato incombeva su di me.

Basta!

Si è trattato di una scintilla, di un lampo, di un moto fulmineo di ribellione, di un volersi infine riscattare e difendere.

Imposizione per imposizione, mi sono detto.

E ho agito.



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Una collina sospesa - Racconto



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UNA COLLINA SOSPESA

Avevamo viaggiato tutta la notte ed eravamo arrivati col buio. Impazienti c’eravamo amati per ore. Poi, al mattino, appena ho spinto le persiane, il giorno è dilagato nella stanza.

«Finalmente il giorno,» ho detto a Nanni, che stava ancora a letto.

L’azzurro del mare ammiccava guizzi di luce lontana, riflessi bianchi di luce fra gli infiniti toni di azzurro. Più prossime, sotto la finestra dell’albergo, le cime spinose dei pini oscillavano sopra i tetti in declivio. Fili di nubi stazionavano fra terra e cielo, sospese come un’attesa. Rondini si rincorrevano giocando con l’aria e precipitando tra i vicoli.

«Che meraviglia, Nanni, vieni a vedere.»

Lui mi fissava con quell’ammirazione che rende una donna felice.

«Torna qui,» ha toccato il lenzuolo accanto a sé.

Sono andata a sdraiarmi vicino a lui. Mi ha passato il braccio dietro il collo e mi ha baciata sulla fronte. Sulle pareti e il soffitto l’ombra chiara dei pini e riflessi di vetri chi sa quanto distanti producevano movimenti incostanti di un chiarore impalpabile. Siamo rimasti supini a fissare oltre il soffitto, con le teste che si toccavano, i capelli confusi. Da fuori veniva una nostalgia di fisarmonica e la risacca del mare, e richiami offuscati di ragazzini lontani.

Ho sospirato.

«Si potesse restare così per sempre, io e te da soli, in un guscio tutto nostro. A lui non voglio male, e non vorrei mai fargli del male, perché non se lo merita, ma con te è un amore diverso».

Accanto a me, Nanni ha avuto come un fremito immobile, quella ribellione nascosta che percepisci.

«Non ci pensare,» ha detto, «non lasciargli spazio fra noi. Conta solo che stiamo insieme.»

È rimasto in silenzio qualche secondo poi si è riscosso. Lui era fatto così, questo mi piaceva di lui. Si è sollevato sul gomito e mi ha fissata con quell’intensità che mi dava le vertigini.

«Voglio una giornata memorabile, oggi, per noi.»

Gli ho sorriso: «Okay… e allora dimmi, che vuoi fare?»

«È quasi mezzogiorno. Subito abbondante colazione in compagnia della donna che amo, poi… visto che proprio devi, tu violino…»

«Siamo qui per questo, no? Tu, invece?»

«Io? tela e pennelli.»

«Dove?» gli ho chiesto.

«Forse qui. Soggetto, una musicista bellissima che suona il suo violino. O forse fuori. Non so ancora.»

«Fuori è un incanto, devi vedere. Ieri, col buio, chi l’immaginava.»

Gli ho appoggiato la testa sul petto, ho assaporato il profumo della sua pelle. Da quanto sognavo di stare così con lui. All’improvviso ho pensato che fino ad allora, senza saperlo, avevo vissuto unicamente in funzione di quel momento.

Nanni si è girato per baciarmi. E mentre mi baciava, donne hanno preso a cantare, con voce acuta in un dialetto gutturale, sulle note della fisarmonica. Qualcuno le accompagnava battendo le mani e qualcun altro rideva.

Mi è venuto da ridere nella sua bocca e lui si è staccato.

Mi fissava stordito.

«Scusa,» gli ho detto, «deformazione professionale, ascoltavo l’armonico disaccordo del concertino là fuori.»

«Beh,» ha detto lui, alzandosi, «devo fare la solita telefonata di routine, il mio piccolo dovere coniugale...




Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social,  intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.

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domenica 22 giugno 2025

Tele vattelapesca - Racconto




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TELE VATTELAPESCA

«Qualcosina,» fa Eleonora Goridiani, guardando in basso a sinistra.

Si sta irritando, si vede da un miglio.

«Camera Tre,» dico nel microfono, «resta in campo lungo… tre secondi. Due, primo piano su Isabella.»

Nei monitor l’inquadratura cambia e Isabella entra nel rettangolo.

“Non esagerare,” le invio il messaggio sul gobbo.

Lei sorride all’attrice: «Del tipo?»

L’attrice è scontenta, lo vedo attraverso lo specchio di regia; ha uno scatto della testa, impercettibile, ma c’è.

«Camera Uno, zuma avanti su Eleonora.»

La Uno riprende l’attrice appassita da dietro. La nuca si avvicina, sui monitor, i capelli si agitano, mentre la donna muove la testa. Sta per parlare e non posso non inquadrarla.

Vedo dal cristallo che sorride. È convincente quanto basta.

«Due,» mi accosto al microfono, «primo piano su Eleonora, subito.»

Prima che Isabella la mandi fuori di testa completamente, penso. Ma non sono cose che un regista può dire in diretta, nemmeno nella cuffia discreta di un cameraman.

«Un po’ le labbra, qualcosina alle rughine degli occhi…»

Eleonora agita la mano, scuote la testa briosa. È convincente, in fin dei conti è un’attrice; non la Magnani ma nemmeno una teatrante.

“Isabella, hai cinque secondi. Una domandina e poi annuncia la pubblicità”.

Lei lancia un’occhiata veloce al display del gobbo e spero tanto che mi ascolti.

Invece: «E i seni? Non dirmi che stan su così…»

Scuote la testa, sbarra gli occhi grigi, quelli che attraverso le tivucolor fanno innamorare gli spettatori; e non solo!

Nel decolté l’attrice nasconde almeno tre chili di silicone, lo capiscono anche i marziani, se ci stanno guardando; ma non è modo di sbandierarlo. Come al solito Isabella esagera, e io, dal mio punto di vista, l’avrei mandata alla rubrica sull’ecologia già da un pezzo. Ma sta nella manica di Ferruzzini, e quindi sta’ zitto Gabriele.

«Due, campo americano sull’ospite, viso e seni, non di più,» impartisco affannato.

Il petto sodo puntato in avanti, il solco profondo che sporge dalla scollatura dell’abito di Valentino diventano il punto focale degli occhi di tutti. Nessun telespettatore, voglio sperare, coglie il disappunto che attraversa fulmineo gli occhi della diva sfocata.

Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social,  intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.

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venerdì 20 giugno 2025

Cosa non avvenne quel sabato notte - Racconto

 

 

 


 

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COSA NON AVVENNE QUEL SABATO NOTTE

 

Sapete quelle giornate in cui tutto è andato storto e ti ritrovi a sera con la voglia o di assassinare qualcuno o di buttarti a far notte per non pensarci? Era una di quelle!

Alle cinque mi aveva svegliato Sorcione, il capo reparto del forno quattro; alle cinque di mattina, dico, di sabato!

Sorcione si chiama Alessandro Spannaretti, nome troppo lungo, per cominciare; ha i denti sporgenti e il muso allungato in avanti come i topi… come un sorcio, dicono qui a Roma.

Insomma mi sveglia stamattina alle cinque e mi fa, lindo lindo: «Erma’ il forno quattro si è spento».

Avevo ancora gli occhi chiusi: «Come spento!?»

«Spento smorzato morto kaput!»

Ho cominciato a capire: «E i tecnici del pronto intervento?»

«Venuti. Sono davanti alla bocca a grattarsi la testa, non ci capiscono niente!»

La Bocca è l’apertura per alimentarlo. Siccome funziona ad energia elettrica ho chiesto:

«E gli elettricisti?»

«Hanno guardato quadri, circuiti, cablaggi. Tutto! Adesso stanno a grattarsi la testa assieme agli altri.»

Ero quasi sveglio: «E il funzionario reperibile?»

«All’ospedale, appendicite. È stata l’attrippata di trippa di ieri sera, così ha detto la moglie. A quest’ora sarà in sala operatoria… non penso che viene qui.»

Scherzava lui, io ero nel panico.

Infatti…

«Ho una chiamata di Santoricco, in attesa, lo sento e ti richiamo.»

Santoricco è il responsabile della produzione, quello che conta i centesimi. Gli tagliano la testa se gli utili calano. E, se dio non voglia la produzione si ferma e gli utili calano, la testa che cade prima della sua è attaccata al mio collo.

Chiaro, no? Ecco perché sudavo freddo.

Commuto sulla chiamata in arrivo col pollice che trema.

«Sei già uscito? Ci vediamo lì,» fa lui, e chiude.

Ho infilato i calzoni sopra al pigiama e ho dimenticato di lavarmi la faccia.

Percorro la Pontina a centoventi e all’inferno gli autovelox. Nel parcheggio aziendale la sua macchina non c’è e questo mi dà qualche momento di respiro.

Raggiungo Sorcione davanti alla bocca del forno. È al centro del gruppo e sbraita contro tutti. Anche la sua testa è instabile, se non risolviamo alla svelta.

«Che si fa?» dice lui.

In macchina mi son fatto un piano d’azione, potremmo discuterne, io, lui e i due del pronto intervento tecnico, se avessimo cinque minuti. Ma non li abbiamo. La BMW di Santoricco inchioda davanti al portone, lui entra come un carrarmato. È un bisonte alto un metro e novanta per centoventi chili di peso. Con quattro falcate che fanno tremare il capannone ci raggiunge. Io, Spannaretti e gli altri, tutti muti.

«Ancora spento?» l’eruzione del terribile Sakurajima fa meno rimbombo.

Sorcione balbetta qualcosa, gli altri si agitano, ma lui guarda me.

«Sono appena arrivato. Ci mettiamo subito al lavoro. Entro un’ora risolviamo.»

«Ti do mezz’ora,» fa lui, puntandomi contro l’indice.

Per fortuna se ne va verso la palazzina degli uffici. Provo subito un senso di sollievo, appena esce, come se ci fosse più spazio, più aria respirabile.

Raduno l’élite dei tecnici e ci chiudiamo nello stanzino che serve a Sorcione per compilare i moduli della burocrazia aziendale.

Loro mi fissano, tocca a me.

«Dunque,» dico, «è capitato un caso analogo dove lavoravo prima, su a Milano. Ho chiamato un amico di lì. Pare che sia un difetto dei forni della generazione del nostro, se si forma una microfessura nel mantello, e con gli anni può succedere, la temperatura sale nelle asole di raffreddamento e si attiva un sistema di sicurezza che blocca tutto.»

«Ma sul manuale di manutenzione, c’è? Io non l’ho visto mai,» obietta Pangrilli, il capotecnico del pronto intervento.

«Forse il manuale è vecchio, forse non è spiegato bene e forse non c’è. Inutile rimuginarci sopra. Quelli di Milano, a suo tempo, risolvettero il problema coinvolgendo gli impiantisti della casa costruttrice. Il mio amico mi ha passato il numero e li ho chiamati. In aereo, entro tre ore, sono qui.»

«È già un’ora che è spento,» dice Arnisano, l’elettricista capo.

«E Santoricco ti ha dato mezz’ora,» rincara Spannaretti.

«Mezz’ora per trovare la soluzione,» faccio io, «poi i tempi di lavorazione sono quelli che sono.»

«E le spese?» storce il naso Sorcione.

«Problema suo,» faccio la voce dura, «noi siamo la squadra tecnica.»

Loro alzano le spalle.

«Che facciamo?» chiede Arnisano, mentre gli altri mi fissano in attesa.

«Rimanete nei paraggi, è chiaro. E verificate il magazzino, se quelli di Milano avessero bisogno di pezzi di ricambio, meglio averli a portata di mano.»

Mi avvio verso gli uffici, meno sicuro di come ho dato a vedere.

«Allora?» ruggisce Santoricco.

È dietro la scrivania e figurati se si alza.

Ripeto anche a lui tutta la filastrocca sulla squadra di Milano. Lui continua a fare di no con la testa.

«Costi?» grugnisce.

Prendo aria.

Qui ci vuole diplomazia, se vuoi conservare la testa sulle spalle e il posto di lavoro – che poi al momento è la stessa cosa. Questo considero.

«Oh, l’alternativa sarebbe un forno nuovo.»

«Non se ne parla nemmeno,» si batte un gran pugno sulla coscia.

«Ecco, appunto, quello che pensavo pure io,» dico, come se l’idea fosse sua.

Lui scuote la testa, amareggiato, facendo oscillare la pelle sotto il mento.

«È una decisone che devo condividere,» indica il soffitto.

Dio? Ma no, qualche gradino più giù, ma nemmeno troppi!

 

 

Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social,  intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.

😁 

 

 

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