sabato 8 febbraio 2025

La vita nuova - Romanzo

 



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1.

Nell'atrio delle partenze internazionali del Leonardo da Vinci, volti sconosciuti attraversavano lo spazio con il passo deciso di chi sa esattamente dove andare e cosa lo aspetta. Mancavano ancora due ore, e il mio volo non era comparso sul tabellone. Mi sono fermato a fissarlo a lungo, quasi che quell’assenza fosse un presagio della nuova vita che mi attendeva, poi ho trascinato il mio piccolo trolley fino al banco del check-in. La mia decisione da vecchio pazzo era così radicale che avevo scelto di portare solo il minimo indispensabile per i primi giorni. Un taglio netto, insomma, con tutto ciò che era stato il mio passato.

L’addetta al banco ha controllato i miei documenti di viaggio.

«Solo bagaglio a mano?» ha chiesto, sollevando lo sguardo.

«Solo questo,» ho risposto, indicando il trolley.

Lei mi ha restituito biglietto e passaporto e mi ha spiegato che avrei dovuto dirigermi verso il gate assegnato, ma che era ancora presto per l’imbarco.

La sala d’attesa era piuttosto ampia, con una parete completamente vetrata che dava sulle piste. Vi si scorgevano degli aerei, in lontananza, e dei carrelli carichi di valigie. Sembravano i trenini dei parchi giochi, ma tristi e silenziosi. Una coppia di anziani guardava fuori e mi sono chiesto se fossero diretti a Lisbona per il mio stesso motivo. Le agenzie di viaggio facevano sponsorizzazioni accattivanti, non potevo essere l’unico ad aver creduto alle loro promesse.

Ma forse no, erano ben vestiti, avevano accanto valigie griffate. Dopotutto chi sta bene non cambia. Forse volevano soltanto trascorre le festività imminenti in una località diversa. Avrebbero soggiornato in un bell’albergo, visitato la città, trascorso qualche serata in un ristorante dal profumo esotico e sarebbero rientrati. Oppure andavano semplicemente a trovare i figli e a coccolarsi i nipotini, a passare qualche giorno fuori dall’ordinario, per poi tornarsene alla solita vita. 

Un viaggio definitivo è un’altra cosa. È una speranza, solo chi non ha altra scelta decide di andare via.

Di fronte a me sedevano due genitori con la figlia di una decina d’anni. La bambina faceva domande, il padre le rispondeva, era immerso nel suo ruolo di genitore-educatore, si vedeva. La moglie fingeva di essere presa dalla lettura della sua rivista, la tradiva il linguaggio del corpo, la rigidezza, il sollevare in alto gli occhi, ogni tanto, quando non si trovava d’accordo con le risposte del marito. È un meccanismo che conosco, per averlo sperimentato. A me è costato il matrimonio ma non è una regola, forse per loro sarebbe stato diverso.

Con l’approssimarsi della partenza la sala si andava riempiendo. È entrato un gruppo di suore, parlavano portoghese, sottovoce, sono andate a prendere posto in fondo. Sono entrate due coppie di ragazzi tatuati, creando un po’ di scompiglio mentre si liberavano degli zaini, si sono seduti scomposti, parlavano a voce alta. Gli anziani vicino alla vetrata gli lanciavano occhiate infastidite, la mamma insoddisfatta scuoteva la testa. È entrata la comitiva di un viaggio organizzato, in testa una signora magrissima che subito ha ammainato la bandierina di una qualche associazione cattolica. Ho immaginato fossero diretti a Fatima.

Da quando mi è balenata quest’idea di andarmene, mi sono un po’ documentato sul Portogallo, prima ne conoscevo a malapena il nome. Quarant’anni a piallare tavole in una falegnameria di Fiumicino per otto ore al giorno, più quattro di viaggio, non ti lasciano molto tempo per altro. Molte volte mi sono ritrovato a pensare che se non avessi abitato nella casa lasciatami da mia madre, dove non pagavamo l’affitto, ci saremmo trasferiti, io, Giulia e la bambina, e tutto sarebbe andato in maniera diversa. Poi mi dicevo che diversa non vuol dire migliore. Se ti ripari dalla pioggia sotto un cornicione non ti bagni, ma nessuno ti assicura che ti salverai, se crolla.

È entrata un’hostess, ha annunciato in italiano e in inglese che era tempo di avviarci e ci ha invitati a seguire la collega, che dalla parte opposta stava aprendo il varco verso la pista. La coppia anziana vicino alla vetrata si è avviata per prima, poi man mano tutti gli altri. Io sarei stato fra gli ultimi, comunque mi sono alzato, in attesa del mio turno.

L’hostess sulla porta verso l’aeroporto stava per chiudere, quando un ticchettio di passi affrettati è risuonato sul pavimento, mentre una voce femminile ansimava: «Aspettate…»

La donna, rotondetta, giacca e gonna celesti, ha fatto irruzione cercando di riprendere l’equilibrio sui tacchi a spillo, ha annaspato con le braccia come in cerca di un appiglio invisibile e mi è precipitata addosso. Credo siano stati gli anni in falegnameria a salvarmi, l’abitudine a spostare carichi e pesi. Ho barcollato, ma non sono caduto. Ci siamo ritrovati abbracciati per qualche secondo, prima che l’hostess avesse il tempo di accorrere in soccorso e l’aiutasse a rimettersi in equilibrio sulle proprie gambe.

La nuova arrivata ci ha guardati con espressione confusa,  ha preso a lisciarsi la gonna con gesti impacciati, non la finiva più di scusarsi. Tutti gli altri erano usciti e l’assistente di volo ci ha invitati a seguirli.

Era quasi mezzogiorno, e benché mancassero appena due giorni a Natale, un solicello tiepido illuminava lo spiazzo. Il bus navetta aspettava a pochi metri.

«Io sono Lucia,» mi ha passato la mano sotto il gomito.

Zoppicava leggermente, così le ho chiesto: «Si è fatta male?»

«Alla caviglia, ma non è niente.»

«Farà bene a chiedere del ghiaccio, appena saremo a bordo.»

«Lei dice?»

Aveva una voce delicata e una intonazione leggermente bambinesca.

«Certo,» ho risposto, «rischia che le si gonfi.»

Arrivati al bus navetta, un inserviente in tuta della compagnia aerea ha preso in consegna la sua valigetta, poi l’ha aiutata a salire. Ci siamo ritrovati in due posti distanti. L’automezzo era silenzioso, forse aveva un motore elettrico. Scorreva sulla pista accompagnato solo da un sibilo leggero. Quando ci siamo fermati sotto l’ala dell’aereo, ho visto che l’hostess e uno steward aiutavano Lucia a scendere prima degli altri passeggeri. Uno per lato la sostenevano, mentre procedevano verso la scaletta. Una volta sull’aereo ho cercato Lucia con lo sguardo, ma non la vedevo. Mi è venuto di pensare che non le aveva detto il mio nome: mi sembrava una scortesia.

Una assistente di volo ha sistemato il mio bagaglio a mano nella cappelliera, e dopo qualche minuto il velivolo ha cominciato a rollare sulla pista. Ben presto Roma ha preso a ruotare sotto di noi, mentre l’aereo virava per orientarsi a ponente e immettersi sulla giusta rotta. Per pochi secondi ho avuto l’impressione di riconoscere i palazzoni del mio quartiere, lunghi e paralleli come i denti di un pettine, prima che la città si allontanasse alle mie spalle.

Non sapevo se l’avrei rivista.

2.

Si prevedeva un volo di circa tre ore. Per effetto del fuso orario saremmo atterrati a Lisbona intorno alle 14,30, ora locale. Ho aspettato che si accendesse la scritta “Potete slacciare le cinture” e mi sono avviato verso le toilettes, in coda all’aereo. Lucia occupava un posto in una delle ultime file, dalla parte del finestrino. L’uomo accanto a lei sembrava molto preso dal laptop che teneva appoggiato sulle ginocchia. Ha sollevato appena un sopracciglio quando lei mi ha salutato: «Ehilà».

Ho notato che aveva un bel sorriso e ho cercando di indovinarne l’età, attestandomi sui sessantacinque portati bene. La pelle chiara e liscia, caratteristica delle persone leggermente in carne che fanno poca vita all’aperto, le donava freschezza. I capelli biondi, lunghi fino alla spalla, con la riga da una parte, accentuavano questa impressione.

«Come va la caviglia?» le ho chiesto.

Ha sollevato il gomito dal bracciolo e ha fatto oscillare la mano, con le dita ben aperte.

«Così, così,» ha risposto, «il personale di bordo è stato gentile, mi ha fatto un impacco.»

«Io mi chiamo Pietro,» ho detto io.

Subito ho pensato che fosse un’uscita intempestiva. L’uomo con il laptop ha emesso un suono simile a un grugnito, che poteva essere una risata trattenuta. E d’improvviso mi sono sentito al centro di un’attenzione curiosa e beffarda anche da parte dei passeggeri vicini.

Lucia non è sembrata rilevarlo. Ha sorriso di nuovo.

«Piacere,» ha detto.

Avrei voluto chiederle dove fosse diretta, avviare una conversazione, ma a trovarmi nel corridoio e sentirmi gli occhi e le orecchie di tutti concentrati su di me, mi ha fatto rinunciare. Ho accennato un saluto e mi sono diretto verso la toilette, poco più avanti.

Quando sono uscito, l’ho trovata in piedi, nel punto dove mi ero fermato poco prima.

«Pietro, mi aiuterebbe?» ha chiesto.

Mi sono affrettato a sostenerla, mentre lei cercava di muovere qualche passo.

«Ahi,» si è lamentata quasi subito, poi ha aggiunto, con un sorriso, «non faccia il timido, mi passi il braccio dietro la schiena.»

L’ho fatto, e lei, a sua volta, si è aggrappata alla mia spalla.

«Signora le serve aiuto?» ci è giunta la voce di un’hostess, dietro di noi.

«No, no, così va bene,» ha risposto Lucia.

Abbiamo percorso pochi passi e siamo arrivati davanti alla porta dei bagni.

«Non se ne vada,» mi ha ammonito agitando l’indice in una maniera buffa, prima di chiudersi dentro.

In quei pochi minuti di attesa, ho pensato a quanto tempo fosse passato dalla mia ultima relazione, ammesso che tale potesse definirsi quella con Nella, culminata in un litigio clamoroso tre anni prima.

Lei è uscita: sorrideva.

La caviglia, che vedevo trasbordare dalla scarpetta col tacco sottile, doveva dolerle, eppure sorrideva. Aveva un che di amabile quel sorriso, una velatura di seducente serenità.

«Mi aiuti?»

Senza la barriera del Lei, la sua voce suonava intima, familiare.

«Certo.»

«Dove sei diretto?»

«A Porto.»

«Ah.»

A ogni scambio di battute facevamo un passo. Nell’ultima sua esclamazione ho colto della delusione, o così mi è sembrato.

Eravamo di nuovo accanto al tipo col laptop, che ci ha guardati con la faccia di quello che domanda: Che faccio, mi alzo?

«Grazie,» gli ha risposto decisa Lucia.

Laptop non ha sbuffato, ma era chiaro che avrebbe voluto. Ha staccato il filo dalla presa, appoggiato lo smartphone e le cuffiette sul portatile e si è districato con impaccio dal sedile.

«Prego.»

Intanto ci aveva raggiunti una delle hostess.

«Signora, devo avvisarla che all’atterraggio ci sarà un’autoambulanza, ad attenderla. Ce lo impone la Compagnia, per via dell’infortunio. Può usare lo smartphone, se desidera avvertire qualcuno.»

Ha chiesto se aveva bisogno di qualcosa e Lucia ha risposto di no e ha ringraziato, così se n’è andata.

«Perché la Compagnia,» ha rimarcato, «si impiccia dei fatti miei?»

«Problemi con le assicurazioni, immagino,» le ho risposto.

«Che scocciatura,» si è lamentata. Ha guardato fuori dall’oblò, come se potesse trovare una soluzione fra le nuvolette che galleggiavano in lontananza.

«Devi avvertire?» le ho ricordato la raccomandazione dell’hostess.

«No, no, non occorre»

Era distratta, sembrava molto presa da quelle nuvolette indolenti.

Mister Laptop continuava a grugnire e a sbuffare, così me ne sono tornato al mio posto.

Non molto dopo, dagli altoparlanti si è diffusa la voce di una delle assistenti di volo per annunciare che stavamo sorvolando Lisbona. Ci ha invitati ad allacciare le cinture.

Avevo volato in un’unica occasione, in precedenza, con Giulia, per il nostro viaggio di nozze. Mi sono ricordato che l’aereo aveva sobbalzato più volte, toccando la pista e mi sono preparato a questo impatto traumatico stringendo i braccioli. Invece a un certo punto ho percepito che l’aereo rallentava e poi si fermava. Eravamo atterrati e non me n’ero accorto. In quel momento, per chi sa quale associazione d’idee, quell’evento, in sé insignificante, mi è sembrato una metafora profonda della mia vita: la speranza, se non proprio la promessa, che il futuro, da quel momento in poi, sarebbe stato diverso dal disastroso passato con Giulia.

Quando i passeggeri hanno cominciato a scendere, sono rimasto al mio posto e l’hostess me ne ha chiesto il motivo.

«Aspetto per vedere se la mia amica ha bisogno di qualcosa,» ho spiegato.

Attraverso l’oblò vedevo l’ambulanza, che era venuta a fermarsi vicino alla scaletta. Dopo un po’ è salito il medico, seguito da due barellieri, ha fatto distendere per quanto possibile Lucia sui sedili e ha controllato le condizioni della caviglia.

«La porteranno in ospedale,» ha spiegato a me, mentre i paramedici la sistemavano sulla barella.

Ha scritto qualcosa su un taccuino e ha staccato la pagina: «Questi sono i recapiti, se vuole raggiungerla».

Quando sono sceso dalla scaletta, l’ambulanza era già partita. Sono uscito dall’aerostazione e mi sono messo in fila per il taxi.

Erano passate da poco le tre del pomeriggio e il treno per Porto sarebbe partito alle sei, avevo tutto il tempo che mi serviva.


3.

Mezz’ora dopo il tassì si è fermato davanti a un edificio ottocentesco con le facciate rosa. C’erano delle statue sui piedistalli, nello spazio fra le finestre del piano più basso.

Ho chiesto al tassista dove fosse il pronto soccorso e credo non mi abbia capito. Di sicuro io non ho capito le sue risposte. Poi ha ripetuto la parola Urgencia e ha fatto gesti insistenti verso una stradina. Siccome non ci intendevamo nemmeno sul costo della corsa, gli ho allargato a ventaglio delle banconote e lui ne ha prese alcune, con la faccia contenta. Ha aspettato che scendessi ed è ripartito.

La prima delle parole che imparavo, di quella che nelle intenzioni sarebbe stata la mia nuova lingua, era dunque urgencia.

L’interno del pronto soccorso era un ambiente moderno, col pavimento in linoleum, il soffitto a riquadri e le sedute a schiera in plastica azzurra. Ho mosso qualche passo fra le persone in attesa e osservato volti. Lucia non c’era. Essendo arrivata in ambulanza, doveva essere stata condotta direttamente agli ambulatori, ho immaginato.

E adesso, come ritrovarla?

Sentivo voci sommesse attorno a me, coglievo parole che non capivo.

Mi sono accostato agli sportelli. Pazienti e accompagnatori pronunciavano rapide richieste, il personale oltre i cristalli forniva rapidissime risposte, perfettamente incomprensibili. Senza molte speranze, mi sono messo in coda, e arrivato il mio turno ho chiesto:

«Cerco Lucia… non so il cognome, è italiana… è stata portata dall’aeroporto in ambulanza…»

«Eu não entendi.»

Per me era facile: Eu, io; não, non; entendi, capisco.

«Lucia,» ho sillabato, «italiana… ambulanza…»

Sembravo un muto che imita chi parla.

Però l’impiegato, un giovanotto riccioluto con gli occhi vispi, ha colto una parola:

«Italiano? Espere.»

Ha preso il suo smartphone e ha digitato qualcosa. Me lo ha mostrato.

“Digiti qui la sua richiesta,” diceva il piccolo display.

Un traduttore, come avevo fatto a non pensarci?

Una volta di più mi sono reso conto di appartenere alla schiera dei vecchi, di quelli che faticano ad apprendere queste tecnologie tanto utili. Il ragazzo aveva la faccia di chi ha inferto un colpo diretto all’ottusità, e forse aveva ragione.

Ho digitato la mia domanda e il giovane operatore mi ha mostrato la risposta sorridendo: “È in ortopedia, uscirà al termine della medicazione dalla porta alla sua destra”.

Ho ringraziato e sono andato ad appostarmi dove mi aveva indicato.

Erano le quattro e mezza del pomeriggio e il mio treno sarebbe partito alle sei.

Avevo tempo.

Ho visto i simboli dei wc su una porta lì vicino e sono entrato, sperando che Lucia non uscisse proprio in quei pochi minuti. Purtroppo, alla mia età, la vescica non ha pazienza. Poi ho preso uno spuntino dalla macchina automatica, considerato che dopo il break in aereo non avevo mangiato più niente.

Le cinque!

Ho cercato su un sito in italiano quale fosse il tempo di percorrenza fra l’ospedale e la stazione ferroviaria: sette minuti!

Ce la potevo fare.

Si è aperta la porta e ne è uscita una donna anziana in carrozzella, sospinta da un’infermiera. Io ho sbirciato all’interno, ma ho visto solo un corridoio vuoto. Poco più tardi è uscita una giovane con un neonato in braccio; i familiari l’hanno circondata, ponendole domande in tono apprensivo.

Le cinque e un quarto…

Non potevo più aspettare, ho cercato in internet il numero di telefono dei taxi e ho inoltrato la chiamata. Rispondendo in italiano all’operatrice, le ho chiesto una vettura.

«Davanti al pronto soccorso dell’ospedale,» ho precisato.

«Va bene, sarà lì entro dieci minuti,» ha risposto in un discreto italiano.

Mi sono voltato per andarmene e in quel momento ho sentito che Lucia mi chiamava: «Pietro».

Si appoggiava a una stampella e non aveva più i tacchi a spillo, ma delle pantofole azzurre. Al piede infortunato portava un tutore, del colore della pelle. L’inserviente che l’accompagnava mi ha passato la sua piccola valigia ed è rientrato.

«Mi hai aspettata,» ha detto lei, con quella sua vocina briosa e un po’ fanciullesca, «che gentile.»

«Ho chiamato un tassì…»

Volevo spiegarle che dovevo affrettarmi alla stazione, ma non me ne ha lasciato il tempo.

«Hai fatto bene,» ha detto, «è stata un’ottima idea.»

Mi ha passato la mano sotto il gomito e mi ha indirizzato verso l’uscita.

«Risparmieremo un’ora, rispetto al treno… e poi io, con questo piede…»

Per un istante ho immaginato che dovessimo andare nella stessa direzione, tanto più che le avevo confidato di essere diretto a Porto, ma lei ha aggiunto: «Saremo ad Albufeira per le otto, sarai nostro ospite, naturalmente».

Albufeira si trovava dalla parte opposta, rispetto alla mia destinazione finale. Non ho protestato subito, e questo ha deciso del nostro futuro. La mia fatale esitazione era stata causata da una parola che lei aveva detto in tutta innocenza: Nostro.

Il plurale presupponeva la presenza di un’altra persona, oltre lei. Un marito? Un compagno? In entrambi i casi qualcuno che non desideravo incontrare e con cui non ritenevo di avere alcunché da spartire.

Ma ancora una volta il destino, nelle sembianze della donna che mi stringeva il braccio, ha deciso per me. Il tassista ha preso la sua valigetta e il mio trolley e li ha riposti nel baule posteriore, poi ha aperto lo sportello.

«Sali per primo,» mi ha chiesto Lucia, «così potrai aiutarmi meglio.»

Infatti, il tassista da fuori, io dall’interno, l’abbiamo sorretta. Sia pure con qualche difficoltà è riuscita a salire e subito ha comunicato la destinazione al conducente.

L’orologio sul cruscotto indicava che ormai mancavano pochi minuti alla partenza del mio treno, in ogni caso l’avevo perso, così mi sono appoggiato allo schienale e ho cercato di rilassarmi, di ignorare la frustrazione. Pazienza, mi sono detto. Una volta ad Albufeira avrei cercato un albergo e l’indomani sarei ripartito per l’appartamento che dall’Italia avevo prenotato a Porto. In fin dei conti si trattava solo di un contrattempo, niente di più. E tempo ne avevo.

Era una considerazione che mi ero ripetuto più volte da quando ero andato in pensione, due anni prima. Nei primi tempi mi ero iscritto a una scuola di ballo e a una di inglese, per riempire il vuoto che subentrava al lavoro nella falegnameria. Poi era intervenuta un’apatia inconsapevole, che mi aveva fatto rinunciare a quegli interessi effimeri.

Lo strombazzare di un’auto al semaforo passato al verde, mi ha riportato al presente.

Lucia era silenziosa. Guardava i passanti incappottati sui marciapiedi, illuminati dalle insegne; osservava da lontano le vetrine addobbate per il natale e le lucine intermittenti appese alle ringhiere dei balconi. La città ci scorreva accanto, sconosciuta e insieme familiare come ogni città.

«Ti aspetta qualcuno a Porto?» si è riscossa, a un certo momento.

«No, nessuno,» ho cercato di dare un tono indifferente alla risposta.

«È la prima volta che vieni in Portogallo?»

«Sì, la prima.»

Adesso mi studiava.

«Ma non sei qui per turismo, ti vuoi trasferire.»

Se prima ero stato ben disposto nei suoi confronti, adesso quelle domande mi sembravano una intromissione gratuita. Che diritti aveva su di me? Mi chiedevo. Al primo incontro-scontro nella sala d’attesa, e poi durante il volo, avevo colto dell’interesse da parte sua; il desiderio di conoscenza e forse di frequentazione che io stesso provavo. Invece avevo scoperto di essermi sbagliato, che la sua era stata semplice curiosità, quella confidenza che nasce fra compagni di viaggio e che si esaurisce all’arrivo.

Comunque, con tono neutro, ho risposto: «Sì, a Porto. Mi sembra un buon posto, per invecchiare».

«Da solo?»

«Certo.»

«E non ti fa paura?»

«Cosa?»

«La prospettiva della solitudine… del vuoto intorno a te, intendo.»

Ho scosso le spalle: «Qualcuno incontrerò, immagino».

«Oh,» ha sospirato lei, «Porto è un luogo triste, la natura è avversa. Ci sono stata… e subito sono fuggita per andarmi a rifugiare al sud.»

Avevano detto qualcosa di simile anche nell’agenzia, in Italia, dove mi ero informato più volte. Ma era stato proprio il desiderio di isolamento a farmi scegliere quella località. Però, con Lucia, non ho replicato.

Lei si è estraniata, ha guardato fuori. I fari illuminavano un tratto di autostrada, davanti a noi; luci di case lontane scorrevano nei finestrini, come in televisori senza volume.

Da parte mia ero curioso di sapere di lei, avrei voluto chiederle quali rapporti intercorressero con quel suo marito o compagno che l’aspettava ad Albufeira, se fosse felice o non volesse a sua volta una vita diversa. Però non osavo chiedere. In fin dei conti, che diritti avevo, a mia volta?

Abbiamo percorso alcuni chilometri senza parlare, accompagnati dal brusio del vento e dal ronzio sommesso del motore. Però, quel silenzio, mi sembrava contenesse l’attesa di qualcosa rimasto in sospeso, di una giustificazione, da parte mia, che stemperasse la rudezza delle parole precedenti.

«Non sopportavo più di incontrare la mia ex moglie,» ho detto.

La voce, mi sono reso conto, ha tradito la dose residua di rancore che provavo nei confronti di Giulia. Ma non ho aggiustato il tiro, non ho aggiunto qualcosa che stemperasse.

Lei è tornata a guardarmi: «È da molto che siete separati?»

«Trentaquattro anni.»

Doveva sembrarle – e lo era – un lasso di tempo lunghissimo.

«Vi frequentavate ancora?»

Era meravigliata,  non capiva. E come avrebbe potuto?

«Ci incontravamo, e la cosa, a distanza di anni, ancora mi disturbava.»

Si trattava di una spiegazione a metà, mi era evidente, ma adesso, dopo essere stato io ad aprire il discorso, non mi sentivo più di andare oltre, anche per via dell’autista, che forse non capiva una parola o forse sì.

«Non potevi evitarla?»

Ormai ero alle strette, dovevo rispondere.

«No. Abita col suo compagno nel palazzo di fronte. La vedevo se usciva sul balcone e attraverso le finestre, mentre girava per casa, e poi la incontravo per strada, dal fruttivendolo, dal panettiere… e lo stesso accadeva col suo marito di seconda mano.»

«Adesso mi spiego la fuga,» ha commentato, «ma dev’esserci dell’altro.»

E c’era, ma ero stanco di confidenze inutili. L’indomani io e Lucia ci saremmo salutati e probabilmente non ci saremmo mai più rivisti. Questo pensavo, sbagliando.

I fari del taxi hanno illuminato un cartello stradale e il tassista ha esclamato: «Senhores, chegamos».

«Siamo arrivati,» ha esultato Lucia.

Io mi sono incupito ancora di più.

4.

Le villette si susseguivano lungo una strada abbastanza larga. Costruzioni recenti, col prato di erbetta rasata che arrivava al marciapiede, la cassetta per la posta infissa a un palo e il vialetto lastricato. Attraverso le finestre illuminate si scorgevano alberi di natale e famiglie riunite. Lucine variopinte facevano l’occhiolino sugli abeti addobbati nei giardini. Lucia, poco prima, aveva fatto una telefonata per avvertire, e un gruppo di persone l’aspettava all’inizio del vialetto. Appena è scesa si sono levate voci di Benvenuta e ben tornata e di Come stai e che bello rivederti! Ci sono stati abbracci e interessamento per la caviglia lussata e spiegazioni e parole di conforto. Io intanto, al colmo dell’imbarazzo, cercavo di convincere il tassista ad accettare la mia carta di credito italiana, dal momento che non avevo contante sufficiente. E nello stesso tempo speravo che le mie contrattazioni passassero inosservate. Invece Lucia se n’è accorta e ha pagato lei la corsa, subito stroncando le mie rimostranze e pretese di rimborsarla.

«Lui è Pietro,» mi ha presentato.

Ho stretto mani e ricevuto pacche cameratesche da parte di sconosciuti, poi qualcuno ha esclamato: «Entriamo in casa».

Un uomo ha preso Lucia sottobraccio, un altro le ha portato la borsa da viaggio, qualche donna continuava a parlare con lei strada facendo. Io sono rimasto indietro, con il mio trolley che ballonzolava sul prato umido di rugiada.

Una volta in casa ho potuto soffermarmi sulla compagnia. L’età media era di settant’anni, ma sembrava non pesassero a nessuno. Un minuscolo presepe, sul mobile dell’ingresso, dava il benvenuto all’ombra di un altrettanto minuscolo alberello illuminato. Nel soggiorno, un tavolo imbandito e le sedie che lo attorniavano prendevano quasi tutto lo spazio. Si erano formati vari gruppi e qualcuno aveva riempito calici. Facce allegre si scambiavano commenti. Lucia era in fondo, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche, mentre io, rimasto vicino all’ingresso con il mio trolley e il cappotto addosso, ero tentato di andarmene.

Lucia mi ha chiamato agitando la mano: «Pietro, vieni qui».

Scusandomi con quanti incontravo sul cammino, ho trascinato il trolley fino a lei.

«Vieni,» mi ha detto, «togliti il cappotto, lascia qui la valigia.»

Ha aperto l’uscio di una camera matrimoniale. C’erano altri cappotti sul letto.

«Le case non sono molto grandi,» mi ha spiegato, «ma sono belle, non trovi anche tu? E si è formata una bella compagnia.»

«Tutti italiani?» le ho chiesto.

«Oh, no, molte case sono le residenze estive di persone del posto, ma la nostra è una colonia di pochi ma buoni,» ha fatto una risatina.

«A tavola, a tavola,» ha sovrastato tutte le altre la voce di una donna.

Lucia mi ha voluto accanto a sé, e all’altro suo fianco si è seduto l’uomo che l’aveva sostenuta sul vialetto, un tipo alto, con le spalle larghe e i baffetti bianchi. Ne ho concluso fosse lui il suo compagno.

Questa banale considerazione me l’ha reso antipatico fin da subito, provocando un’impennata di quel malumore che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio in taxi.

A quanto pareva, prima del nostro arrivo erano stati consumati gli antipasti. La donna che mi era stata presentata col nome di Stefania, la padrona di casa, ha finito di portare via gli avanzi e ha posto a centro tavolo una zuppiera fumante di tortellini in brodo. Si sono levati applausi.

Lucia si è protesa verso di me.

«Non è bello qui?» mi ha chiesto, a bassa voce.

Ho lanciato un’occhiata a Baffetti bianchi, che mi è parso interessato a quel che mi stava dicendo. Se c’era un ruolo che intendevo evitare, era quello del terzo incomodo manipolato per ingelosire l’amante. Ho risposto con un gesto vago e mi sono rivolto verso la donna alla mia sinistra, un tipo che giudicavo snob, col decolté scarno adornato da una collana di perle forse vere e forse no e vari bracciali a entrambi i polsi. Mi è parso che si aspettasse la mia attenzione, perché subito ha chiesto:

«Pietro… vieni da Roma, vero?»

«Sì, da Roma.»

«Ne ero certa, per via dell’accento, capisci. E sarai qui per i soliti motivi…»

Non essendomi chiaro di quali motivi potesse trattarsi, ho risposto con un gesto vago.

«Eh,» ha sospirato lei, leggermente melodrammatica, «tutti noi, qui, fuggiamo da qualcosa, non trovi anche tu?»

Ha fatto una pausa, in cerca del mio consenso; poi ha proseguito, accennando col mento all’uomo che ci sedeva di fronte, un tipo accaldato con le guance arrossate dal vino.

«Ettore, per esempio. Si è ritirato dagli affari, dice lui; è scappato dai creditori, dico io,» mi ha rivolto con gli occhi una richiesta di approvazione, che non ho potuto accordarle.

«E Antonella?» ha ripreso.

La donna, una signora di passati i sessanta, dalla vita sottile e i fianchi leggermente arrotondati, deve aver colto la nostra attenzione: ci ha sorriso ed è tornata a interessarsi ai discorsi del suo vicino di posto.

«Sono cinquant’anni che cerca di dimenticare. Ne avrai sentito parlare… da ragazzina è rimasta prigioniera per giorni in mano a quattro balordi che l’hanno violentata in tutti i modi possibili e immaginabili. È riuscita a evadere… dalla prigione fisica, capiscimi bene, ma… dai ricordi?»

La domanda, lasciata in sospeso, conteneva in sé la risposta. Non ho obiettato, mentre lei proseguiva con le presentazioni a distanza.

«Guarda Stefano, a capo tavola, e Stefania, accanto a lui. Non solo hanno lo stesso nome – che secondo me è già un indicatore – ma fanno gli stessi discorsi e si intendono per telepatia. Beh, due persone così uguali, ti chiederai, da che possono fuggire? Dalla monotonia, ti rispondo. Capisci che voglio dire?»

Il prossimo, secondo l’ordine che stava seguendo, sarebbe stato Baffetti bianchi, ma lei si è rivolta a me direttamente: «E tu, Pietro?»

Mi fissava, indagando, forse cercando sul mio volto la risposta che non le fornivo. D’altra parte, che confidenze poteva pretendere da una persona che frequentava da pochi minuti? Però non si è data per vinta.

«Ma forse tu non stai fuggendo,» ha concluso, con quella sua intonazione da attrice nella parte, «tu sei in cerca di qualcosa. Correggimi se sbaglio, dell’amore.»

Mi sarei messo a ridere, se non avessi incontrato la serietà del suo sguardo.

Ho cercato una scappatoia: «Anche tu di Roma?»

Ha sorriso: «No, mi ci sono trasferita ai tempi dell’università e poi, sai come succede, incontri questo, frequenti quell’altro, ci sono rimasta».

Voleva riportare il discorso sulle questioni di cuore, io no.

«Laureata, quindi, in cosa?»

«Economia e commercio. Ho esercitato da fiscalista per circa trent’anni e alla fine eccomi qui. Non mi chiedi da cosa ho voluto allontanarmi?»

Ho sollevato leggermente il sopracciglio, e lei: «I figli!»

Ho colto nostalgia, più che rancore.

«I figli?» le ho chiesto.

«Oh, non i miei, non ne ho avuti, sebbene li desiderassi. Quelli dell’uomo che ho commesso l’errore di sposare. Due sanguisughe, assieme a lui.»

Non volevo altre confidenze, da parte di quell’estranea. Mi ha salvato Stefania, di ritorno dalla cucina con un vassoio che profumava di arrosto. Lo ha posato a centro tavola. «Servitevi,» ha detto, «vado a prendere i contorni.»

Lucia si è impossessata delle posate di servizio e mi ha messo due fette nel piatto.

«Stefania è una brava cuoca.»

La frase era banale, ma le era servita per riprendere contatto con me; questo mi era sembrato. Intanto Baffetti bianchi era impegnato a chiacchierare col padrone di casa, alla sua destra.

Non sapevo come interpretare quell’interesse di Lucia e allo stesso tempo non volevo trovarmi nella posizione scomoda della reticella sul tavolo da ping pong.

«Senti,» le ho detto, per mettere in chiaro le mie intenzioni, «si sta facendo tardi e vorrei prenotare l’albergo. Ne conosci qualcuno a buon prezzo o cerco in internet?»

«Non se ne parla,» si è incupita, «se mi fai una cosa del genere non ti guarderò più in faccia.»

È rientrata la padrona di casa, annunciando: «I contorni!»

C’è stato il solito seguito di apprezzamenti e qualche battimano. Stefania, tornando a sedersi, ha detto qualcosa a Lucia, che ha dovuto prestarle attenzione.

Melodrammatica mi ha appoggiato la mano sul braccio: «Posso ospitarti io, se vuoi».

CAPITOLO 5°. Simpatie e antipatie

 Avevo avuto le mie relazioni, naturalmente, più o meno coinvolgenti e più o meno durature, sia prima del matrimonio che dopo la separazione da Giulia. Ma adesso, arrivato a sessantasette anni, non pensavo più ad avventure o convivenze, mi sembravano fuori luogo e fuori tempo massimo. Sapevo di colleghi e colleghe che avevano formato coppie in età avanzata, avevo sentito anche di amori sbocciati negli ospizi, ma ero convinto che non facessero per me. Eppure le avances esplicite e inattese della donna in cerca d'amore mi hanno lusingato.

Intanto lei mi teneva sotto il tiro di due occhi maliziosi e io non sapevo come uscire dall'impasse.

Ho scelto il modo meno adatto.

«Scusa,» le ho detto, «non ricordo come ti chiami.»

Ho sbagliato i tempi, come con Lucia sull'aereo, quando mi ero presentato. Ma la reazione della donna è stata diversa: si è voltata di scatto alla sua sinistra e si è intrufolata nei discorsi degli amici.

Sono rimasto isolato, all'interno di quel frastuono festoso. Però non mi infastidiva. Al contrario, rafforzava in me la volontà di partire al più presto per il mio eremo al nord, di prendere possesso quanto prima dell'appartamento isolato che avevo scelto, lontano da cene chiassose e ricerca dell'eterna gioventù. Infatti, guardandomi attorno, fin dall'inizio avevo percepito nei presenti una volontà diffusa di trattenere il normale scorrere del tempo, di rimandare per quanto possibile la consapevolezza dell'età che avanza. Tutto questo mi sembrava innaturale e artefatto, non si addiceva alla mia natura disillusa.

Mi ha riportato al presente lo scoppio provocato dal tappo di una bottiglia di spumante. Calici si sono protesi verso il padrone di casa, intento a versare, e mani hanno preso fette di pandoro offerte da sua moglie Stefania. Tre persone alla mia sinistra, due donne e un uomo di cui non ricordavo i nomi, hanno fatto il giro attorno al tavolo per andare a servirsi. Le due donne si somigliavano: stessa altezza e identico castano dei capelli. Due tipi anonimi. Invece l'aspetto dell'uomo si faceva notare: magro e un po' curvo, ma con le gote arrossate. All'anulare sinistro portava un anello col brillante e al polso un orologio d'oro. Non sono un intenditore, ma avrei giurato che valessero almeno quanto un anno della mia pensione.

Lucia ha passato un calice anche a me e ha fatto in modo di indugiare con le sue dita sopra le mie, o così mi è sembrato.

«Ti auguro di trovare la felicità che cerchi,» ha detto, avvicinandosi.

Ero stato preso un po' in contropiede.

«Anche a te,» le ho risposto.

Lei ha fatto tintinnare il suo calice contro il mio e ha sorseggiato, seguitando a fissarmi da sopra il cristallo rilucente. In quel momento aveva uno sguardo che sapeva di miele, una dolcezza ingenua di adolescente che non stonava col suo aspetto di donna matura.

A quel punto tutti eravamo in piedi. Baffi bianchi, dopo di lei, allungava il braccio per toccare bicchieri, poi ha cercato il suo e lei si è voltata verso di lui. Non ho potuto cogliere le loro espressioni e non sapevo che pensare. «Pietro, auguri,» mi ha chiamato qualcuno dalla mia sinistra. Ho sorriso, ho brindato e scambiato frasi preconfezionate di circostanza, poi Melodramma mi ha fatto l'occhiolino. «Il mio invito è sempre valido,» mi ha sussurrato, molto vicino all'orecchio. Il suo respiro odorava di cibo e di vino.

«Già l'una, è ora di andare,» ha annunciato qualcuno.

Sono cominciati i saluti, gli abbracci, gli scambi di battute che sapevano di nostalgia per la bella serata e di vaghe programmazioni di cose da fare l'indomani, vigilia di natale. Cappotti, cappelli, guanti, l'esodo è iniziato. Ordinato e un po' melanconico il codazzo si è avviato per il viottolo lastricato, incontro al nebbiasco notturno. Io, che non avevo ancora una destinazione, ho indugiato; così, alla fine, oltre a me e ai padroni di casa, erano rimasti Melodramma, Lucia e Baffi bianchi.

Sembrava che il futuro di molti dipendesse da me solo, e questo ruolo di arbitro dei destini non mi si confaceva.

«Vado a prendere il mio trolley,» ho detto al padrone di casa, indicando verso la loro camera.

«Prendi anche la mia borsa,» mi ha chiesto Lucia, mentre mi avviavo.

Poi si è rivolta a Baffi bianchi: «Grazie Aldo, sono pochi passi, mi aiuterà Pietro».

Aldo ha allargato le braccia, «Come vuoi,» ha risposto, «Melania, facciamo la strada assieme?» si è rivolto alla donna del melodramma.

Lucia e io siamo usciti per ultimi.

«È qui a destra, saranno cento metri,» mi ha detto, mentre imboccavamo il marciapiede, inoltrandoci nella foschia densa.

Camminavamo adagio, per via della stampella.

Avevo studiato i luoghi, prima della partenza, assieme all'agente del turismo. Sapevo che Albufeira sorge per buona parte in cima a una scogliera a strapiombo sul mare. La nebbia assorbiva ogni suono, eppure, ogni tanto, avvertivo, o così mi sembrava, il fragore smorzato della risacca. Era impossibile, naturalmente, ma assieme a quel suono potente – reale o immaginario che fosse – avvertivo anche il profumo agre e volatile del salmastro marino.

«Albufeira ti piacerà,» ha detto Lucia.

La sua voce, così vicina, mi è parso provenisse da una distanza incredibile. Da un'altra dimensione, forse, o dall'aldilà. E la sua figura sfocata non faceva che accrescere questa suggestione. Ma la presa sul mio braccio era reale. Non ho replicato, così, dopo qualche passo, lei ha aggiunto: «Domani si va a Benagil, mi accompagnerai, vero?»

Mi ha confuso un'altra volta: intendeva con tutti i suoi amici, o io e lei soltanto?

La mia risposta, o meglio, quel che doveva determinare la mia decisione, supponevo, dipendeva da una eventualità o dall'altra. Inutile negare che quella donna esercitava un fascino trascinante su di me. Che l'atteggiamento di distacco avuto nei confronti di quell'Aldo mi dava speranze. Che la sua vicinanza, in qualche modo, mi assoggettava.

«Certo,» le ho risposto.

Dopo pochi altri passi si è fermata.

«Ecco, è qui,» ha detto.

Io non vedevo la casa e scorgevo appena un tratto iniziale del prato. Mi sono lasciato guidare.

Il vialetto lastricato bastava per una persona, ho dovuto camminare nell'erba umida, trascinando il trolley e reggendo la sua borsa sotto il braccio. Siamo arrivati a dei gradini, che lei ha salito a fatica. Ha aperto e siamo entrati. La disposizione delle camere era identica a quella della casa da cui eravamo appena usciti. Lei si è lasciata cadere su una poltrona.

«Sono esausta,» ha detto.

Mi ha spiegato come accendere la caldaia dei termosifoni, perché, Brr, era intirizzita.

«Dovrei anche fare una doccia,» ha considerato poi, «ma non me la sento. Però tu non fare complimenti.»

L'ho ringraziata. Anche io ero molto stanco.

Ho indicato il divano: «Dormirò lì, starò benissimo».

Lei ha provato ad alzarsi, ma non ci riusciva.

«Aiutami,» ha chiesto, «accompagnami di là.»

Una volta in camera da letto, ha indicato l'armadio: «Lì dentro ci sono le lenzuola e il piumone. Io mi sdraio, tu fa' come se fosse casa tua».

L'ho aiutata a distendersi, vestita, come aveva chiesto, e l'ho coperta. Poi ho preso il necessario e l'ho portato in soggiorno. Uscendo ho tirato l'anta, per chiuderla, ma lei mi ha fermato: «No, lascia aperto».

Avevo un pigiama, nel trolley. Sono andato a cambiarmi in bagno.

Avevo soggezione a mostrarmi svestito. In fin dei conti, appena quella mattina mi trovavo a Roma, immerso in un'altra vita, e adesso a chilometri di distanza, in una casa che non era la mia, in una vita presa in prestito.

Ho spento la luce, prima di tornare al divano.



lunedì 13 gennaio 2025

Romanzo - Mia è la vendetta

 



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Antaprima:

1.

 Il 18 novembre aveva svegliato Trenta Tornesi con le campane a morto.

Trenta Tornesi era una proprietà terriera di svariati ettari. Si estendeva su una fascia compresa fra il litorale palermitano e il versante settentrionale della catena montuosa delle Madonie. La gente del luogo raccontava che quel nome veniva dalla somma pagata da un antenato lontano di don Calogero Mugnuso per l’acquisto del primo piccolo podere, al quale, di generazione in generazione e con metodi più o meno leciti erano stati accorpati nuovi appezzamenti. Lontano da orecchie indiscrete si sussurrava che il venditore fosse stato trovato ucciso da un colpo di lupara, la mattina successiva alla firma del contratto. Le indagini dei Carabinieri Reali avevano appurato che il denaro era sparito, trafugato da ignoti. Le malelingue locali insinuavano che Trenta Tornesi suonava assai prossimo a Trenta Denari, il prezzo del tradimento. Negli anni il possedimento era diventato un piccolo feudo. Attorno alla villa padronale erano sorte le abitazioni dei parenti prossimi del vecchio Mugnuso e poi le casette dei lavoranti e le stalle, i fienili e i magazzini, i caseifici, le cantine e i frantoi. Perfino una chiesetta privata. Un muro difendeva i possedimenti per l’intero perimetro e l’unico accesso, ben sorvegliato, era da un cancello all’estremità occidentale, rivolto verso Palermo e il mare.

Penetrare in quel fortilizio e ancor più raggiungere la casa colonica senza essere notati era impossibile.

Quel mercoledì, dunque, era giorno di lutto. Santo era morto e Adelina sparita. Gli uomini mandati da don Calogero a Palermo erano tornati dicendo che la casa della madre era vuota. I vicini l’avevano vista salire su un’auto assieme alla figlia e ai due picciriddri di Turi, nessuno aveva saputo dire dove fossero dirette. Per don Calogero era stato facile fare due più due. Quella aveva programmato tutto per tempo e il motivo era chiaro: la vendetta.

Ma se di vendetta si vive, di vendetta si muore, si disse.

Accantonò il pensiero, aveva problemi più immediati da risolvere. Si era appena affacciato Totonno ad annunciargli l’arrivo del dottor Seggiu, il medico di famiglia.

Don Calogero uscì sul patio in tempo per vederlo scendere dalla Mercedes. Magro e con i radi capelli lunghi passati dietro le orecchie, dimostrava appieno i suoi settanta e più anni. Alle undici di mattina, malgrado il cielo limpido e il sole siciliano, sembrò rabbrividire.

Gli uomini del borgo, in piccoli gruppi sparsi per l’aia, stavano a osservare in silenzio, vestiti di scuro e col nodo della cravatta ancora quello dell’ultimo funerale. Erano stati esentati dal lavoro, per la triste occasione, dopo aver munto le bestie, naturalmente, che non si poteva lasciarle muggire con le mammelle gonfie, sul punto di scoppiare.

«Mi dispiace,» disse il medico, «ma… come fu? Solo ieri lo lasciai che stava… diciamo bene, in fase di ripresa, per così dire.»

Don Calogero gli strinse la mano, allargò le braccia, affranto.

«Infarto, sospetto io. Ma venite, giudicate voi.»

Lo guidò alla cappella allestita a camera ardente. Le ante della porta erano coperte da un drappo nero, i lembi laterali fermati al centro da un cordone dorato.  Santuzzo era stato vestito e composto sulla panca rivestita di velluto, la testa verso l’altare. Quattro ceri ardevano sui quattro spigoli del letto. Donna Rosalia, accanto al capezzale, fissava il vuoto con gli occhi asciutti. I banchi erano stati spostati, e le donne del borgo, tutte in nero, stavano sedute lungo le pareti e snocciolavano il rosario. Alla vista del medico si alzarono. Un’occhiata eloquente di don Calogero bastò a farle uscire a testa china.

«Mi dispiace assai,» strinse il dottor Seggiu la mano di donna Rosalia, «facemmo l’impossibile per lui, ma dopo quell’avventura… il cuore non ha retto.»

Una madre non riconosce ragioni dinanzi alla morte di un figlio. Liberò la mano e uscì a testa bassa anche lei.

Il medico si rivolse verso la salma.

«Be’… don Calogero perdonatemi,» esclamò cavando di tasca lo stetoscopio, «devo farlo.»

Finse di auscoltare un cuore che taceva.

«Infarto,» diagnosticò, «senza dubbio, infarto. Rilascerò subito il certificato di morte.»

Si avviarono alla porta.

Le donne rientrarono.

«Dottore, un caffè?» chiese donna Rosalia, in piedi sul piccolo sagrato, «o forse un liquore?»

«Grazie, grazie di cuore, come avessi accettato, ma vado di corsa,» si accomiatò il medico. Si strinse addosso lo scollo della giacca e si avviò verso la macchina.

Il brusio sommesso dei braccianti subito tacque. Gli uomini si spostarono per far spazio alla Mercedes che manovrava avanti e indietro e ripartiva. In silenzio sbirciavano verso il padrone, che indugiava, che si tastava le tasche, recuperava il telefonino e rispondeva.

«Va bene,» disse.

Fece qualche passo sullo spiazzo inghiaiato, incontro alla macchina del parrino, che arrivava lungo il viale coi cipressi.

Don Giusto aveva la faccia contrita già sulla Panda celeste. Quando scese, sembrava lui stesso sul punto di stramazzare colto da infarto. Strinse la mano a don Calogero e la scosse, quasi in lacrime.

«Appena adesso ho saputo e subito mi precipitai. Ma come fu?»

«Infarto, mi disse il dottor Seggiu, infarto. Ma venite, vi accompagno.»

Le donne si alzarono, donna Rosalia baciò la mano al prete. Un chierico di forse dieci, undici anni li aveva seguiti, reggendo l’ampolla e il turibolo.

«Figlia mia che strazio, per una madre,» accarezzò don Giusto il capo chino di donna Rosalia.

«Che il Signore, nella Sua infinità pietà, ti accolga fra le sue braccia,» concluse poi, disegnando un ampio segno di croce rivolto al defunto.

Tutti i presenti, anche quelli rimasti fuori dalla cappella, si inginocchiarono e fecero compostamente il segno di croce, primo fra tutti don Calogero, che uomo di fede era stato sempre. Poi don Giusto prese dalle mani del chierichetto l’ampolla dell’olio benedetto e unse in successione la fronte, gli occhi, la bocca e le mani del defunto, mondandolo dai peccati, quindi recitò il Pater Noster, accompagnato dai presenti, infine asperse incenso girando attorno alla salma per formare una croce.

«Adesso è nella pace del Signore,» appoggiò le mani sulle spalle di donna Rosalia, in un rispettoso abbraccio a distanza.

«Don Calogero perdonatemi, devo scappare,» si diresse alla macchina seguito dal ragazzino.

La polvere sollevata dalla Panda non era ancora ricaduta che il cellulare di don Calogero annunciò un nuovo arrivo.

L’avvocato Mario Cartacianca, prossimo ai sessanta, pizzo e stempiatura alla Luigi Pirandello, ma notevolmente più grasso e panciuto, aveva rappresentato in più occasioni, oltre ad altre famiglie notabili del palermitano, sia i Mugnuso che gli amici dei Mugnuso, per cui si considerava buon amico di don Calogero, quasi di famiglia.

Si calò con un certo sforzo dal SUV della Mercedes e pestò la ghiaia per andare a stringergli la mano.

«Che notizia terribile,» scosse la testa, «ma ditemi, dov’è?»

Gli uomini sull’aia fecero spazio e i due si avviarono alla cappella. Cartacianca, devoto anche lui, si segnò e, per quel poco che poteva, si genuflesse. Si affrettò poi verso donna Rosalia.

«Che strazio! Che dolore!»

Fissò il morto a lungo, con le manone intrecciate davanti alla pancia piena. Quando poi uscì, don Calogero stava rispondendo al telefono.

«Certo,» diceva, «lasciateli passare… tutti, certo, tutti. E che volete scatenare la terza guerra mondiale?»

Pochi minuti, e una processione di macchine della polizia e dei carabinieri riempì il cortile, dalla cappella fino alla stalla giù in fondo.

«E questi che vogliono,» bisbigliò l’avvocato senza muovere le labbra.

«Forse capitate a proposito,» mormorò a sua volta don Calogero, guardando fisso davanti a sé, «ma stiamo a sentire… di certo invenzioni, favolette per picciriddri ci vengono a raccontare.»

«Ho capito! Contate su di me…»

Da una vettura senza insegne, scese il giudice Cordaci. Un sessantenne coi baffetti e i capelli crespi e schiariti e le sopracciglia irsute, la faccia pallida da malato.

Si guardò attorno, preoccupato dall’assembramento di tanti uomini, quindi si rivolse a Don Calogero e all’avvocato, rimasti in attesa.

«Ho un mandato di comparizione per…» esordì, subito bloccato dal vocione di Cartacianca.

«E per un mandato di comparizione vi presentate con tutta sta parata da filmi americano?»

L’avvocato aveva accennato col capo allo schieramento delle autopattuglie e agli agenti che ne erano discesi.

Don Calogero sbirciò verso i braccianti, che guardavano attenti la scena, e trattenne l’avvocato per il gomito.

«Giudice, forse è meglio se ne parliamo in casa,» disse.

Si avviò verso il casolare, con l’avvocato a fianco. Il magistrato e un maresciallo dei carabinieri gli tennero dietro.

Entrarono nel salotto, dove Assuntina, la sua ultima figlia, stava rassettando. Le ordinò di preparare il caffè e indicò le poltrone e il divano al giudice e al maresciallo, che declinarono l’invito. Rimasero tutti in piedi.

«Dunque,» si rivolse a Cordaci, «dicevate, un mandato di comparizione…»

«Sì, per Santo Mugnuso.»

E Cartacianca, subito: «Di che si tratta?»

«Vorrei incontrarlo. Consegnerò l’avviso direttamente a lui.»

L’avvocato trattenne una risata: «Suvvia giudice, sono il suo legale e lo rappresento. Lui adesso non può darvi ascolto, dite pure a me, di che si tratta?»

Le tende erano accostate per via del lutto e le persiane chiuse, ma da fuori, attraverso le ante socchiuse delle finestre, arrivava il brusio dei braccianti radunati di fronte ai poliziotti. Si percepiva la tensione di due schieramenti contrapposti che non si avevano in simpatia.

Il pensiero dovette attraversare anche il giudice, perché disse: «Sapete che il vostro uomo al cancello ha un’arma, nella guardiola?»

«Arma? Che arma? Un bazooka? Una mitragliatrice?» scherzò l’avvocato.

«Un fucile.»

«Ah, sì, la doppietta di Nittuzzu,» gli rivolse un sorriso aperto don Calogero, «sapete, Nittuzzu cacciatore è, bravo picciotto, dotato di regolare porto d’armi. Nella proprietà, lo tiene, al sicuro, a norma di legge, e dopo il servizio gli piace sparare qualche colpo ai passeri.»

«E ci sono altri… cacciatori, qui fuori?»

«Forse, ma oggi non è giorno di caccia, abbiamo altri pensieri,» scosse la testa Calogero.

«Torniamo a noi,» intervenne l’avvocato.

Cordaci sospirò. Lanciò un’occhiata d’intesa al maresciallo, che disse: «Conoscete il cantiere per la costruzione della variante autostradale che si trova in località Contenero?»

«Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai visto,» l’avvocato era pensoso, «voi, don Calogero?»

«No, no, io esco poco…»

«Ma perché lo chiedete?» insistette  l’avvocato.

Il maresciallo attese un cenno di assenso del magistrato, prima di rispondere: «A noi risulta che Santo Mugnuso è precipitato in un foro per le palificate di fondazione, ieri a sera, in quel cantiere».

L’avvocato Cartacianca si mise a ridere: «Precipitato? Cantiere? I Mugnuso agricoltori sono, mica manovali dei cantieri…»

«C’è un testimone.»

«Testimoni? Quanti ne vuole ce ne sono, che l’hanno visto qui a Tornesi,» l’avvocato tese la mano verso il brusio sommesso che entrava da fuori.

«Siete stato male informato,» tagliò corto don Calogero, «e comunque mio figghiu, in questo momento, impossibilitato è, di rispondere alle vostre domande. Ma venite, vi porto da lui.»

Uscirono in fila indiana, don Calogero in testa, l’avvocato in coda, ignorando Assuntina che appoggiava sul tavolo la guantiera coi caffè. Gli uomini nel cortile si ritrassero come le acque del mar Rosso davanti a Mosè, all’avanzare del padrino. I quattro entrarono nella cappella e si fermarono a piedi della salma, zittendo le preghiere delle donne in lutto.

Il maresciallo tolse il berretto, il giudice contemplò il morto per qualche momento, poi uscirono.

«Dunque non è sopravvissuto alla caduta,» esclamò a bassa voce il giudice, per non farsi sentire da quanti li circondavano.

«Ma quando mai…» don Calogero avrebbe voluto ridere, si rese conto invece d’aver fatto una smorfia, «infarto, fu, abbiamo il certificato del dottor Seggiu.»

Il giudice, infastidito, scosse le spalle.

«Dovrete spiegarmi,» sibilò.

«A disposizione,» fu sarcastico Cartacianca.

«Servo vostro,» usò don Calogero quell’antica espressione, ma senza mettervi astio, ironia o reverenza.

Aspettò che fosse risalito in macchina assieme al maresciallo con tutta la sua truppa e che si fossero avviati, prima di rivolgersi all’avvocato.

«Be’, se vi stavate annoiando, da adesso avrete qualcosa da fare.»

«Dovere mio, don Calogero.»

Cartacianca gli strinse la mano con espressione di circostanza e si arrampicò sul SUV. Si avviò, tenendo dietro a debita distanza al serpentone celeste e azzurro delle macchine con le sirene sul tettuccio.

Non passò mezz’ora e i braccianti tornarono a voltarsi con gli occhi curiosi. Un Van nero da noleggio con i vetri oscurati risaliva piano il viale alberato, lasciando dietro di sé una nuvoletta di polvere. Il veicolo superò la cappella e si arrestò davanti a don Calogero, che aspettava in piedi sul gradino più basso della villa. Ormai era l’una dopo mezzogiorno, le donne del pianto e i braccianti si erano alternati per il pranzo. Il padrino aveva visto picciriddri e fimmene portare provviste alla sua casa, accolte da Assuntina, che, meschina, ringraziava con gli occhi mesti; ma né lui né donna Rosalia avevano ancora mangiato.

E lui di certo non ne sentiva il bisogno.

Uscì l’autista e fece scorrere il portellone posteriore.

Ne discese Doriana,  in nero, con gli occhiali scuri. Perfetta in ogni dettaglio. Senza voltarsi verso gli uomini che l'osservavano ammirati andò ad abbracciare lo zio.

«Figghia,» la strinse a sé il padrino, «andiamo, vieni a salutare Santuzzo.»

Nessuno aveva mai visto piangere un Mugnuso e lei non pianse. Baciò la zia, fissò per qualche momento le spoglie mortali del cugino e uscì assieme a don Calogero. Entrarono in casa.

«Come fu?» gli chiese, sedendosi sul divano e accavallando le gambe.

Don Calogero ammirò la sua creatura. Adesso, morto Enzuzzu, morto anche Santo, non gli rimaneva che lei per portare avanti quanto aveva realizzato in quella sua vita ormai agli sgoccioli. Assuntina non sarebbe mai stata in grado di prendere in mano l’azienda di Trenta Tornesi e tanto meno la Strober Holding. Oh, certo, l’aveva fatta studiare nelle scuole migliori, tutti i suoi figli avevano avuto il meglio dell’istruzione, perché don Calogero, che invece si era fermato alle classi dell’obbligo, capiva che il mondo va avanti veloce e che senza istruzione il cervello, anche se è buono, non basta per tenere il passo.

Ma, a proposito di Assuntina, sapeva che non si trattava di testa, che quella l’aveva, si trattava di fegato, di coraggio, che invece le mancava. Come mancava al marito, suo genero, al quale peraltro faceva difetto anche la testa.

Invece Doriana era perfetta.

Lei aspettava che rispondesse. Invece lui cavò di tasca una carta d’identità stropicciata e gliela porse.

«Cos’è?» chiese, prendendola.

«La teneva in sacchetta Santuzzo, quando me lo riportarono.»

«Il professore di Forlì!» sgranò gli occhi, «l’aveva stanato, quindi.»

Santo era andato per ben due volte a cercarlo a casa sua, a Forlì, per pareggiare il conto di Enzo, invece quello stava in Sicilia!

«Già,» rispose a sua nipote.

«Ma come andarono i fatti?»

«Ti raccontai di quello spione, il giornalista…»

«Giulio Cassioro…»

«Lui! Be’, una spia era, una biscia della specie peggiore. Aveva scoperto il magazzino con le scorie e lo teneva d’occhio. Ha seguito il camion coi barili fino al cantiere.» 

«Ho capito, e poi?»

«Poi, mi domandi? E che poteva succedere, Santuzzo se ne accorse! Il disgraziato pricipitò in uno dei pozzi delle fondazioni e amen.»

«E il professore si trovava lì?»

«No, arrivò dopo. Totonno e Tabbuto mi raccontarono tutto. U professuri ci tese un’imboscata a mio figghiu, e lo fece cadere dentro alla buca delle fondazioni, poi scappò via…»

«Santo è dunque caduto in quel foro. E poi?»

«Il pozzo non era profondo e la terra era smossa. Lo tirarono fuori e me lo riportarono. Il dottore lo visitò, disse che si sarebbe ripreso. Adelina rimase per assisterlo.»

«Invece l’ha avvelenato. Ma perché?»

«Per vendicare Turi, la bottana! Ingannò pure me, con quella faccia da santa.»

Gli vibrò la voce. Strinse il pugno per controllare l’ira e l’emozione.

«Forse non ti dissi,» riprese con voce ferma, «che Turi si era fatto fottere i soldi dell’ultimo carico…»

«Cinquecentomila euro?»

«Eh… capisti? Che doveva fare Santuzzu… dirgli grazie? Lo mandò a travagghiare al cantiere e lui, meschino, poco pratico era, perse l’equilibrio e precipitò. Per farla breve, figghia mia, una di quelle buche la tomba di Turi è diventata.»

«E la moglie s’è vendicata su Santo.»

Assuntina fece capolino dallo spiraglio della porta: «Papà, è in tavola… si è fatto tardi, i picciriddri hanno fame».

«Falli mangiare,» agitò la mano verso di lei, «fai mangiare anche tua madre. Io e Doriana ancora cose da dirci, teniamo. Mangiate, mangiate, noi veniamo dopo.»


Racconto

La vita nuova - Romanzo

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