https://www.wattpad.com/myworks/389529074-la-vita-nuova
1.
Nell'atrio
delle partenze internazionali del Leonardo da Vinci, volti sconosciuti
attraversavano lo spazio con il passo deciso di chi sa esattamente dove andare
e cosa lo aspetta. Mancavano ancora due ore, e il mio volo non era comparso sul
tabellone. Mi sono fermato a fissarlo a lungo, quasi che quell’assenza fosse un
presagio della nuova vita che mi attendeva, poi ho trascinato il mio piccolo
trolley fino al banco del check-in. La mia decisione da vecchio pazzo era così
radicale che avevo scelto di portare solo il minimo indispensabile per i primi
giorni. Un taglio netto, insomma, con tutto ciò che era stato il mio passato.
L’addetta al banco ha controllato i miei
documenti di viaggio.
«Solo bagaglio a mano?» ha chiesto,
sollevando lo sguardo.
«Solo questo,» ho risposto, indicando il
trolley.
Lei mi ha restituito biglietto e passaporto e
mi ha spiegato che avrei dovuto dirigermi verso il gate assegnato, ma che era
ancora presto per l’imbarco.
La sala d’attesa era piuttosto ampia, con una
parete completamente vetrata che dava sulle piste. Vi si scorgevano degli aerei,
in lontananza, e dei carrelli carichi di valigie. Sembravano i trenini dei
parchi giochi, ma tristi e silenziosi. Una coppia di anziani guardava fuori e
mi sono chiesto se fossero diretti a Lisbona per il mio stesso motivo. Le
agenzie di viaggio facevano sponsorizzazioni accattivanti, non potevo essere
l’unico ad aver creduto alle loro promesse.
Ma forse no, erano ben vestiti, avevano
accanto valigie griffate. Dopotutto chi sta bene non cambia. Forse volevano
soltanto trascorre le festività imminenti in una località diversa. Avrebbero
soggiornato in un bell’albergo, visitato la città, trascorso qualche serata in
un ristorante dal profumo esotico e sarebbero rientrati. Oppure andavano semplicemente
a trovare i figli e a coccolarsi i nipotini, a passare qualche giorno fuori
dall’ordinario, per poi tornarsene alla solita vita.
Un viaggio definitivo è un’altra cosa. È una
speranza, solo chi non ha altra scelta decide di andare via.
Di fronte a me sedevano due genitori con la
figlia di una decina d’anni. La bambina faceva domande, il padre le rispondeva,
era immerso nel suo ruolo di genitore-educatore, si vedeva. La moglie fingeva
di essere presa dalla lettura della sua rivista, la tradiva il linguaggio del
corpo, la rigidezza, il sollevare in alto gli occhi, ogni tanto, quando non si
trovava d’accordo con le risposte del marito. È un meccanismo che conosco, per averlo
sperimentato. A me è costato il matrimonio ma non è una regola, forse per loro
sarebbe stato diverso.
Con l’approssimarsi della partenza la sala si
andava riempiendo. È entrato un gruppo di suore, parlavano portoghese,
sottovoce, sono andate a prendere posto in fondo. Sono entrate due coppie di
ragazzi tatuati, creando un po’ di scompiglio mentre si liberavano degli zaini,
si sono seduti scomposti, parlavano a voce alta. Gli anziani vicino alla
vetrata gli lanciavano occhiate infastidite, la mamma insoddisfatta scuoteva la
testa. È entrata la comitiva di un viaggio organizzato, in testa una signora magrissima
che subito ha ammainato la bandierina di una qualche associazione cattolica. Ho
immaginato fossero diretti a Fatima.
Da quando mi è balenata quest’idea di
andarmene, mi sono un po’ documentato sul Portogallo, prima ne conoscevo a
malapena il nome. Quarant’anni a piallare tavole in una falegnameria di
Fiumicino per otto ore al giorno, più quattro di viaggio, non ti lasciano molto
tempo per altro. Molte volte mi sono ritrovato a pensare che se non avessi
abitato nella casa lasciatami da mia madre, dove non pagavamo l’affitto, ci
saremmo trasferiti, io, Giulia e la bambina, e tutto sarebbe andato in maniera
diversa. Poi mi dicevo che diversa
non vuol dire migliore. Se ti ripari
dalla pioggia sotto un cornicione non ti bagni, ma nessuno ti assicura che ti
salverai, se crolla.
È entrata un’hostess, ha annunciato in italiano
e in inglese che era tempo di avviarci e ci ha invitati a seguire la collega,
che dalla parte opposta stava aprendo il varco verso la pista. La coppia
anziana vicino alla vetrata si è avviata per prima, poi man mano tutti gli
altri. Io sarei stato fra gli ultimi, comunque mi sono alzato, in attesa del
mio turno.
L’hostess sulla porta verso l’aeroporto stava
per chiudere, quando un ticchettio di passi affrettati è risuonato sul
pavimento, mentre una voce femminile ansimava: «Aspettate…»
La donna, rotondetta, giacca e gonna celesti,
ha fatto irruzione cercando di riprendere l’equilibrio sui tacchi a spillo, ha annaspato
con le braccia come in cerca di un appiglio invisibile e mi è precipitata
addosso. Credo siano stati gli anni in falegnameria a salvarmi, l’abitudine a
spostare carichi e pesi. Ho barcollato, ma non sono caduto. Ci siamo ritrovati
abbracciati per qualche secondo, prima che l’hostess avesse il tempo di
accorrere in soccorso e l’aiutasse a rimettersi in equilibrio sulle proprie
gambe.
La nuova arrivata ci ha guardati con
espressione confusa, ha preso a
lisciarsi la gonna con gesti impacciati, non la finiva più di scusarsi. Tutti
gli altri erano usciti e l’assistente di volo ci ha invitati a seguirli.
Era quasi mezzogiorno, e benché mancassero appena
due giorni a Natale, un solicello tiepido illuminava lo spiazzo. Il bus navetta
aspettava a pochi metri.
«Io sono Lucia,» mi ha passato la mano sotto
il gomito.
Zoppicava leggermente, così le ho chiesto:
«Si è fatta male?»
«Alla caviglia, ma non è niente.»
«Farà bene a chiedere del ghiaccio, appena
saremo a bordo.»
«Lei dice?»
Aveva una voce delicata e una intonazione leggermente
bambinesca.
«Certo,» ho risposto, «rischia che le si
gonfi.»
Arrivati al bus navetta, un inserviente in
tuta della compagnia aerea ha preso in consegna la sua valigetta, poi l’ha aiutata
a salire. Ci siamo ritrovati in due posti distanti. L’automezzo era silenzioso,
forse aveva un motore elettrico. Scorreva sulla pista accompagnato solo da un
sibilo leggero. Quando ci siamo fermati sotto l’ala dell’aereo, ho visto che l’hostess
e uno steward aiutavano Lucia a scendere prima degli altri passeggeri. Uno per
lato la sostenevano, mentre procedevano verso la scaletta. Una volta sull’aereo
ho cercato Lucia con lo sguardo, ma non la vedevo. Mi è venuto di pensare che
non le aveva detto il mio nome: mi sembrava una scortesia.
Una assistente di volo ha sistemato il mio
bagaglio a mano nella cappelliera, e dopo qualche minuto il velivolo ha
cominciato a rollare sulla pista. Ben presto Roma ha preso a ruotare sotto di
noi, mentre l’aereo virava per orientarsi a ponente e immettersi sulla giusta
rotta. Per pochi secondi ho avuto l’impressione di riconoscere i palazzoni del
mio quartiere, lunghi e paralleli come i denti di un pettine, prima che la
città si allontanasse alle mie spalle.
Non sapevo se l’avrei rivista.
2.
Si
prevedeva un volo di circa tre ore. Per effetto del fuso orario saremmo atterrati
a Lisbona intorno alle 14,30, ora locale. Ho aspettato che si accendesse la
scritta “Potete slacciare le cinture” e mi sono avviato verso le toilettes, in
coda all’aereo. Lucia occupava un posto in una delle ultime file, dalla parte
del finestrino. L’uomo accanto a lei sembrava molto preso dal laptop che teneva
appoggiato sulle ginocchia. Ha sollevato appena un sopracciglio quando lei mi
ha salutato: «Ehilà».
Ho notato che aveva un bel sorriso e ho cercando
di indovinarne l’età, attestandomi sui sessantacinque portati bene. La pelle
chiara e liscia, caratteristica delle persone leggermente in carne che fanno
poca vita all’aperto, le donava freschezza. I capelli biondi, lunghi fino alla
spalla, con la riga da una parte, accentuavano questa impressione.
«Come va la caviglia?» le ho chiesto.
Ha sollevato il gomito dal bracciolo e ha
fatto oscillare la mano, con le dita ben aperte.
«Così, così,» ha risposto, «il personale di
bordo è stato gentile, mi ha fatto un impacco.»
«Io mi chiamo Pietro,» ho detto io.
Subito ho pensato che fosse un’uscita intempestiva.
L’uomo con il laptop ha emesso un suono simile a un grugnito, che poteva essere
una risata trattenuta. E d’improvviso mi sono sentito al centro di
un’attenzione curiosa e beffarda anche da parte dei passeggeri vicini.
Lucia non è sembrata rilevarlo. Ha sorriso di
nuovo.
«Piacere,» ha detto.
Avrei voluto chiederle dove fosse diretta,
avviare una conversazione, ma a trovarmi nel corridoio e sentirmi gli occhi e
le orecchie di tutti concentrati su di me, mi ha fatto rinunciare. Ho accennato
un saluto e mi sono diretto verso la toilette, poco più avanti.
Quando sono uscito, l’ho trovata in piedi,
nel punto dove mi ero fermato poco prima.
«Pietro, mi aiuterebbe?» ha chiesto.
Mi sono affrettato a sostenerla, mentre lei
cercava di muovere qualche passo.
«Ahi,» si è lamentata quasi subito, poi ha aggiunto,
con un sorriso, «non faccia il timido, mi passi il braccio dietro la schiena.»
L’ho fatto, e lei, a sua volta, si è
aggrappata alla mia spalla.
«Signora le serve aiuto?» ci è giunta la voce
di un’hostess, dietro di noi.
«No, no, così va bene,» ha risposto Lucia.
Abbiamo percorso pochi passi e siamo arrivati
davanti alla porta dei bagni.
«Non se ne vada,» mi ha ammonito agitando
l’indice in una maniera buffa, prima di chiudersi dentro.
In quei pochi minuti di attesa, ho pensato a
quanto tempo fosse passato dalla mia ultima relazione, ammesso che tale potesse
definirsi quella con Nella, culminata in un litigio clamoroso tre anni prima.
Lei è uscita: sorrideva.
La caviglia, che vedevo trasbordare dalla
scarpetta col tacco sottile, doveva dolerle, eppure sorrideva. Aveva un che di amabile
quel sorriso, una velatura di seducente serenità.
«Mi aiuti?»
Senza la barriera del Lei, la sua voce suonava intima, familiare.
«Certo.»
«Dove sei diretto?»
«A Porto.»
«Ah.»
A ogni scambio di battute facevamo un passo.
Nell’ultima sua esclamazione ho colto della delusione, o così mi è sembrato.
Eravamo di nuovo accanto al tipo col laptop,
che ci ha guardati con la faccia di quello che domanda: Che faccio, mi alzo?
«Grazie,»
gli ha risposto decisa Lucia.
Laptop non
ha sbuffato, ma era chiaro che avrebbe voluto. Ha staccato il filo dalla presa,
appoggiato lo smartphone e le cuffiette sul portatile e si è districato con
impaccio dal sedile.
«Prego.»
Intanto ci aveva raggiunti una delle hostess.
«Signora, devo avvisarla che all’atterraggio
ci sarà un’autoambulanza, ad attenderla. Ce lo impone la Compagnia, per via
dell’infortunio. Può usare lo smartphone, se desidera avvertire qualcuno.»
Ha chiesto se aveva bisogno di qualcosa e Lucia
ha risposto di no e ha ringraziato, così se n’è andata.
«Perché la Compagnia,» ha rimarcato, «si
impiccia dei fatti miei?»
«Problemi con le assicurazioni, immagino,» le
ho risposto.
«Che scocciatura,» si è lamentata. Ha
guardato fuori dall’oblò, come se potesse trovare una soluzione fra le nuvolette
che galleggiavano in lontananza.
«Devi avvertire?» le ho ricordato la
raccomandazione dell’hostess.
«No, no, non occorre»
Era distratta, sembrava molto presa da quelle
nuvolette indolenti.
Mister
Laptop continuava a grugnire e a sbuffare, così me ne sono
tornato al mio posto.
Non molto dopo, dagli altoparlanti si è
diffusa la voce di una delle assistenti di volo per annunciare che stavamo
sorvolando Lisbona. Ci ha invitati ad allacciare le cinture.
Avevo volato in un’unica occasione, in
precedenza, con Giulia, per il nostro viaggio di nozze. Mi sono ricordato che
l’aereo aveva sobbalzato più volte, toccando la pista e mi sono preparato a
questo impatto traumatico stringendo i braccioli. Invece a un certo punto ho
percepito che l’aereo rallentava e poi si fermava. Eravamo atterrati e non me n’ero
accorto. In quel momento, per chi sa quale associazione d’idee, quell’evento,
in sé insignificante, mi è sembrato una metafora profonda della mia vita: la
speranza, se non proprio la promessa, che il futuro, da quel momento in poi,
sarebbe stato diverso dal disastroso passato con Giulia.
Quando i passeggeri hanno cominciato a
scendere, sono rimasto al mio posto e l’hostess me ne ha chiesto il motivo.
«Aspetto per vedere se la mia amica ha
bisogno di qualcosa,» ho spiegato.
Attraverso l’oblò vedevo l’ambulanza, che era
venuta a fermarsi vicino alla scaletta. Dopo un po’ è salito il medico, seguito
da due barellieri, ha fatto distendere per quanto possibile Lucia sui sedili e ha
controllato le condizioni della caviglia.
«La porteranno in ospedale,» ha spiegato a
me, mentre i paramedici la sistemavano sulla barella.
Ha scritto qualcosa su un taccuino e ha
staccato la pagina: «Questi sono i recapiti, se vuole raggiungerla».
Quando sono sceso dalla scaletta, l’ambulanza
era già partita. Sono uscito dall’aerostazione e mi sono messo in fila per il
taxi.
Erano passate da poco le tre del pomeriggio e
il treno per Porto sarebbe partito alle sei, avevo tutto il tempo che mi
serviva.
3.
Mezz’ora
dopo il tassì si è fermato davanti a un edificio ottocentesco con le facciate
rosa. C’erano delle statue sui piedistalli, nello spazio fra le finestre del
piano più basso.
Ho chiesto al tassista dove fosse il pronto
soccorso e credo non mi abbia capito. Di sicuro io non ho capito le sue
risposte. Poi ha ripetuto la parola Urgencia
e ha fatto gesti insistenti verso una stradina. Siccome non ci intendevamo
nemmeno sul costo della corsa, gli ho allargato a ventaglio delle banconote e
lui ne ha prese alcune, con la faccia contenta. Ha aspettato che scendessi ed è
ripartito.
La prima delle parole che imparavo, di quella
che nelle intenzioni sarebbe stata la mia nuova lingua, era dunque urgencia.
L’interno del pronto soccorso era un ambiente
moderno, col pavimento in linoleum, il soffitto a riquadri e le sedute a
schiera in plastica azzurra. Ho mosso qualche passo fra le persone in attesa e
osservato volti. Lucia non c’era. Essendo arrivata in ambulanza, doveva essere
stata condotta direttamente agli ambulatori, ho immaginato.
E adesso, come ritrovarla?
Sentivo voci sommesse attorno a me, coglievo
parole che non capivo.
Mi sono accostato agli sportelli. Pazienti e
accompagnatori pronunciavano rapide richieste, il personale oltre i cristalli
forniva rapidissime risposte, perfettamente incomprensibili. Senza molte
speranze, mi sono messo in coda, e arrivato il mio turno ho chiesto:
«Cerco Lucia… non so il cognome, è italiana…
è stata portata dall’aeroporto in ambulanza…»
«Eu não entendi.»
Per me era facile: Eu, io; não, non; entendi,
capisco.
«Lucia,» ho sillabato, «italiana… ambulanza…»
Sembravo un muto che imita chi parla.
Però l’impiegato, un giovanotto riccioluto
con gli occhi vispi, ha colto una parola:
«Italiano? Espere.»
Ha preso il suo smartphone e ha digitato
qualcosa. Me lo ha mostrato.
“Digiti qui la sua richiesta,” diceva il
piccolo display.
Un traduttore, come avevo fatto a non
pensarci?
Una volta di più mi sono reso conto di appartenere
alla schiera dei vecchi, di quelli che faticano ad apprendere queste tecnologie
tanto utili. Il ragazzo aveva la faccia di chi ha inferto un colpo diretto all’ottusità,
e forse aveva ragione.
Ho digitato la mia domanda e il giovane operatore
mi ha mostrato la risposta sorridendo: “È in ortopedia, uscirà al termine della
medicazione dalla porta alla sua destra”.
Ho ringraziato e sono andato ad appostarmi dove
mi aveva indicato.
Erano le quattro e mezza del pomeriggio e il
mio treno sarebbe partito alle sei.
Avevo tempo.
Ho visto i simboli dei wc su una porta lì
vicino e sono entrato, sperando che Lucia non uscisse proprio in quei pochi
minuti. Purtroppo, alla mia età, la vescica non ha pazienza. Poi ho preso uno spuntino
dalla macchina automatica, considerato che dopo il break in aereo non avevo
mangiato più niente.
Le cinque!
Ho cercato su un sito in italiano quale fosse
il tempo di percorrenza fra l’ospedale e la stazione ferroviaria: sette minuti!
Ce la potevo fare.
Si è aperta la porta e ne è uscita una donna
anziana in carrozzella, sospinta da un’infermiera. Io ho sbirciato all’interno,
ma ho visto solo un corridoio vuoto. Poco più tardi è uscita una giovane con un
neonato in braccio; i familiari l’hanno circondata, ponendole domande in tono
apprensivo.
Le cinque e un quarto…
Non potevo più aspettare, ho cercato in
internet il numero di telefono dei taxi e ho inoltrato la chiamata. Rispondendo
in italiano all’operatrice, le ho chiesto una vettura.
«Davanti al pronto soccorso dell’ospedale,»
ho precisato.
«Va bene, sarà lì entro dieci minuti,» ha risposto
in un discreto italiano.
Mi sono voltato per andarmene e in quel
momento ho sentito che Lucia mi chiamava: «Pietro».
Si appoggiava a una stampella e non aveva più
i tacchi a spillo, ma delle pantofole azzurre. Al piede infortunato portava un
tutore, del colore della pelle. L’inserviente che l’accompagnava mi ha passato
la sua piccola valigia ed è rientrato.
«Mi hai aspettata,» ha detto lei, con quella
sua vocina briosa e un po’ fanciullesca, «che gentile.»
«Ho chiamato un tassì…»
Volevo spiegarle che dovevo affrettarmi alla
stazione, ma non me ne ha lasciato il tempo.
«Hai fatto bene,» ha detto, «è stata un’ottima
idea.»
Mi ha passato la mano sotto il gomito e mi ha
indirizzato verso l’uscita.
«Risparmieremo un’ora, rispetto al treno… e
poi io, con questo piede…»
Per un istante ho immaginato che dovessimo
andare nella stessa direzione, tanto più che le avevo confidato di essere
diretto a Porto, ma lei ha aggiunto: «Saremo ad Albufeira per le otto, sarai
nostro ospite, naturalmente».
Albufeira si trovava dalla parte opposta, rispetto
alla mia destinazione finale. Non ho protestato subito, e questo ha deciso del nostro
futuro. La mia fatale esitazione era stata causata da una parola che lei aveva
detto in tutta innocenza: Nostro.
Il plurale presupponeva la presenza di un’altra
persona, oltre lei. Un marito? Un compagno? In entrambi i casi qualcuno che non
desideravo incontrare e con cui non ritenevo di avere alcunché da spartire.
Ma ancora una volta il destino, nelle
sembianze della donna che mi stringeva il braccio, ha deciso per me. Il
tassista ha preso la sua valigetta e il mio trolley e li ha riposti nel baule
posteriore, poi ha aperto lo sportello.
«Sali per primo,» mi ha chiesto Lucia, «così
potrai aiutarmi meglio.»
Infatti, il tassista da fuori, io
dall’interno, l’abbiamo sorretta. Sia pure con qualche difficoltà è riuscita a
salire e subito ha comunicato la destinazione al conducente.
L’orologio sul cruscotto indicava che ormai mancavano
pochi minuti alla partenza del mio treno, in ogni caso l’avevo perso, così mi
sono appoggiato allo schienale e ho cercato di rilassarmi, di ignorare la
frustrazione. Pazienza, mi sono
detto. Una volta ad Albufeira avrei cercato un albergo e l’indomani sarei
ripartito per l’appartamento che dall’Italia avevo prenotato a Porto. In fin
dei conti si trattava solo di un contrattempo, niente di più. E tempo ne avevo.
Era una considerazione che mi ero ripetuto
più volte da quando ero andato in pensione, due anni prima. Nei primi tempi mi
ero iscritto a una scuola di ballo e a una di inglese, per riempire il vuoto
che subentrava al lavoro nella falegnameria. Poi era intervenuta un’apatia
inconsapevole, che mi aveva fatto rinunciare a quegli interessi effimeri.
Lo strombazzare di un’auto al semaforo
passato al verde, mi ha riportato al presente.
Lucia era silenziosa. Guardava i passanti
incappottati sui marciapiedi, illuminati dalle insegne; osservava da lontano le
vetrine addobbate per il natale e le lucine intermittenti appese alle ringhiere
dei balconi. La città ci scorreva accanto, sconosciuta e insieme familiare come
ogni città.
«Ti aspetta qualcuno a Porto?» si è riscossa,
a un certo momento.
«No, nessuno,» ho cercato di dare un tono
indifferente alla risposta.
«È la prima volta che vieni in Portogallo?»
«Sì, la prima.»
Adesso mi studiava.
«Ma non sei qui per turismo, ti vuoi
trasferire.»
Se prima ero stato ben disposto nei suoi
confronti, adesso quelle domande mi sembravano una intromissione gratuita. Che
diritti aveva su di me? Mi chiedevo. Al primo incontro-scontro nella sala
d’attesa, e poi durante il volo, avevo colto dell’interesse da parte sua; il
desiderio di conoscenza e forse di frequentazione che io stesso provavo. Invece
avevo scoperto di essermi sbagliato, che la sua era stata semplice curiosità, quella
confidenza che nasce fra compagni di viaggio e che si esaurisce all’arrivo.
Comunque, con tono neutro, ho risposto: «Sì,
a Porto. Mi sembra un buon posto, per invecchiare».
«Da solo?»
«Certo.»
«E non ti fa paura?»
«Cosa?»
«La prospettiva della solitudine… del vuoto
intorno a te, intendo.»
Ho scosso le spalle: «Qualcuno incontrerò,
immagino».
«Oh,» ha sospirato lei, «Porto è un luogo
triste, la natura è avversa. Ci sono stata… e subito sono fuggita per andarmi a
rifugiare al sud.»
Avevano detto qualcosa di simile anche nell’agenzia,
in Italia, dove mi ero informato più volte. Ma era stato proprio il desiderio
di isolamento a farmi scegliere quella località. Però, con Lucia, non ho
replicato.
Lei si è estraniata, ha guardato fuori. I
fari illuminavano un tratto di autostrada, davanti a noi; luci di case lontane
scorrevano nei finestrini, come in televisori senza volume.
Da parte mia ero curioso di sapere di lei, avrei
voluto chiederle quali rapporti intercorressero con quel suo marito o compagno
che l’aspettava ad Albufeira, se fosse felice o non volesse a sua volta una
vita diversa. Però non osavo chiedere. In fin dei conti, che diritti avevo, a
mia volta?
Abbiamo percorso alcuni chilometri senza
parlare, accompagnati dal brusio del vento e dal ronzio sommesso del motore. Però,
quel silenzio, mi sembrava contenesse l’attesa di qualcosa rimasto in sospeso,
di una giustificazione, da parte mia, che stemperasse la rudezza delle parole precedenti.
«Non sopportavo più di incontrare la mia ex
moglie,» ho detto.
La voce, mi sono reso conto, ha tradito la
dose residua di rancore che provavo nei confronti di Giulia. Ma non ho
aggiustato il tiro, non ho aggiunto qualcosa che stemperasse.
Lei è tornata a guardarmi: «È da molto che
siete separati?»
«Trentaquattro anni.»
Doveva sembrarle – e lo era – un lasso di tempo
lunghissimo.
«Vi frequentavate ancora?»
Era meravigliata, non capiva. E come avrebbe potuto?
«Ci incontravamo, e la cosa, a distanza di
anni, ancora mi disturbava.»
Si trattava di una spiegazione a metà, mi era
evidente, ma adesso, dopo essere stato io ad aprire il discorso, non mi sentivo
più di andare oltre, anche per via dell’autista, che forse non capiva una
parola o forse sì.
«Non potevi evitarla?»
Ormai ero alle strette, dovevo rispondere.
«No. Abita col suo compagno nel palazzo di
fronte. La vedevo se usciva sul balcone e attraverso le finestre, mentre girava
per casa, e poi la incontravo per strada, dal fruttivendolo, dal panettiere… e
lo stesso accadeva col suo marito di seconda mano.»
«Adesso mi spiego la fuga,» ha commentato,
«ma dev’esserci dell’altro.»
E c’era, ma ero stanco di confidenze inutili.
L’indomani io e Lucia ci saremmo salutati e probabilmente non ci saremmo mai
più rivisti. Questo pensavo, sbagliando.
I fari del taxi hanno illuminato un cartello
stradale e il tassista ha esclamato: «Senhores, chegamos».
«Siamo arrivati,» ha esultato Lucia.
Io mi sono incupito ancora di più.
4.
Le
villette si susseguivano lungo una strada abbastanza larga. Costruzioni recenti,
col prato di erbetta rasata che arrivava al marciapiede, la cassetta per la
posta infissa a un palo e il vialetto lastricato. Attraverso le finestre
illuminate si scorgevano alberi di natale e famiglie riunite. Lucine variopinte
facevano l’occhiolino sugli abeti addobbati nei giardini. Lucia, poco prima,
aveva fatto una telefonata per avvertire, e un gruppo di persone l’aspettava all’inizio
del vialetto. Appena è scesa si sono levate voci di Benvenuta e ben tornata e
di Come stai e che bello rivederti! Ci sono stati abbracci e interessamento per la
caviglia lussata e spiegazioni e parole di conforto. Io intanto, al colmo dell’imbarazzo,
cercavo di convincere il tassista ad accettare la mia carta di credito
italiana, dal momento che non avevo contante sufficiente. E nello stesso tempo
speravo che le mie contrattazioni passassero inosservate. Invece Lucia se n’è
accorta e ha pagato lei la corsa, subito stroncando le mie rimostranze e
pretese di rimborsarla.
«Lui è Pietro,» mi ha presentato.
Ho stretto mani e ricevuto pacche
cameratesche da parte di sconosciuti, poi qualcuno ha esclamato: «Entriamo in
casa».
Un uomo ha preso Lucia sottobraccio, un altro
le ha portato la borsa da viaggio, qualche donna continuava a parlare con lei
strada facendo. Io sono rimasto indietro, con il mio trolley che ballonzolava sul
prato umido di rugiada.
Una volta in casa ho potuto soffermarmi sulla
compagnia. L’età media era di settant’anni, ma sembrava non pesassero a nessuno.
Un minuscolo presepe, sul mobile dell’ingresso, dava il benvenuto all’ombra di
un altrettanto minuscolo alberello illuminato. Nel soggiorno, un tavolo
imbandito e le sedie che lo attorniavano prendevano quasi tutto lo spazio. Si
erano formati vari gruppi e qualcuno aveva riempito calici. Facce allegre si
scambiavano commenti. Lucia era in fondo, circondata dai suoi amici e dalle sue
amiche, mentre io, rimasto vicino all’ingresso con il mio trolley e il cappotto
addosso, ero tentato di andarmene.
Lucia mi ha chiamato agitando la mano:
«Pietro, vieni qui».
Scusandomi con quanti incontravo sul cammino,
ho trascinato il trolley fino a lei.
«Vieni,» mi ha detto, «togliti il cappotto,
lascia qui la valigia.»
Ha aperto l’uscio di una camera matrimoniale.
C’erano altri cappotti sul letto.
«Le case non sono molto grandi,» mi ha
spiegato, «ma sono belle, non trovi anche tu? E si è formata una bella
compagnia.»
«Tutti italiani?» le ho chiesto.
«Oh, no, molte case sono le residenze estive
di persone del posto, ma la nostra è una colonia di pochi ma buoni,» ha fatto
una risatina.
«A tavola, a tavola,» ha sovrastato tutte le
altre la voce di una donna.
Lucia mi ha voluto accanto a sé, e all’altro suo
fianco si è seduto l’uomo che l’aveva sostenuta sul vialetto, un tipo alto, con
le spalle larghe e i baffetti bianchi. Ne ho concluso fosse lui il suo compagno.
Questa banale considerazione me l’ha reso
antipatico fin da subito, provocando un’impennata di quel malumore che mi aveva
accompagnato per tutto il viaggio in taxi.
A quanto pareva, prima del nostro arrivo erano
stati consumati gli antipasti. La donna che mi era stata presentata col nome di
Stefania, la padrona di casa, ha finito di portare via gli avanzi e ha posto a
centro tavolo una zuppiera fumante di tortellini in brodo. Si sono levati
applausi.
Lucia si è protesa verso di me.
«Non è bello qui?» mi ha chiesto, a bassa
voce.
Ho lanciato un’occhiata a Baffetti bianchi, che mi è parso
interessato a quel che mi stava dicendo. Se c’era un ruolo che intendevo
evitare, era quello del terzo incomodo manipolato per ingelosire l’amante. Ho
risposto con un gesto vago e mi sono rivolto verso la donna alla mia sinistra, un
tipo che giudicavo snob, col decolté scarno adornato da una collana di perle
forse vere e forse no e vari bracciali a entrambi i polsi. Mi è parso che si aspettasse
la mia attenzione, perché subito ha chiesto:
«Pietro… vieni da Roma, vero?»
«Sì, da Roma.»
«Ne ero certa, per via dell’accento, capisci.
E sarai qui per i soliti motivi…»
Non essendomi chiaro di quali motivi potesse trattarsi, ho risposto
con un gesto vago.
«Eh,» ha sospirato lei, leggermente
melodrammatica, «tutti noi, qui, fuggiamo da qualcosa, non trovi anche tu?»
Ha fatto una pausa, in cerca del mio consenso;
poi ha proseguito, accennando col mento all’uomo che ci sedeva di fronte, un
tipo accaldato con le guance arrossate dal vino.
«Ettore, per esempio. Si è ritirato dagli
affari, dice lui; è scappato dai creditori, dico io,» mi ha rivolto con gli
occhi una richiesta di approvazione, che non ho potuto accordarle.
«E Antonella?» ha ripreso.
La donna, una signora di passati i sessanta, dalla
vita sottile e i fianchi leggermente arrotondati, deve aver colto la nostra
attenzione: ci ha sorriso ed è tornata a interessarsi ai discorsi del suo vicino
di posto.
«Sono cinquant’anni che cerca di dimenticare.
Ne avrai sentito parlare… da ragazzina è rimasta prigioniera per giorni in mano
a quattro balordi che l’hanno violentata in tutti i modi possibili e
immaginabili. È riuscita a evadere… dalla prigione fisica, capiscimi bene, ma…
dai ricordi?»
La domanda, lasciata in sospeso, conteneva in
sé la risposta. Non ho obiettato, mentre lei proseguiva con le presentazioni a
distanza.
«Guarda Stefano, a capo tavola, e Stefania,
accanto a lui. Non solo hanno lo stesso nome – che secondo me è già un
indicatore – ma fanno gli stessi discorsi e si intendono per telepatia. Beh,
due persone così uguali, ti chiederai, da che possono fuggire? Dalla monotonia,
ti rispondo. Capisci che voglio dire?»
Il prossimo, secondo l’ordine che stava
seguendo, sarebbe stato Baffetti bianchi,
ma lei si è rivolta a me direttamente: «E tu, Pietro?»
Mi fissava, indagando, forse cercando sul mio
volto la risposta che non le fornivo. D’altra parte, che confidenze poteva
pretendere da una persona che frequentava da pochi minuti? Però non si è data
per vinta.
«Ma forse tu non stai fuggendo,» ha concluso,
con quella sua intonazione da attrice nella parte, «tu sei in cerca di qualcosa.
Correggimi se sbaglio, dell’amore.»
Mi sarei messo a ridere, se non avessi
incontrato la serietà del suo sguardo.
Ho cercato una scappatoia: «Anche tu di
Roma?»
Ha sorriso: «No, mi ci sono trasferita ai
tempi dell’università e poi, sai come succede, incontri questo, frequenti
quell’altro, ci sono rimasta».
Voleva riportare il discorso sulle questioni
di cuore, io no.
«Laureata, quindi, in cosa?»
«Economia e commercio. Ho esercitato da
fiscalista per circa trent’anni e alla fine eccomi qui. Non mi chiedi da cosa
ho voluto allontanarmi?»
Ho sollevato leggermente il sopracciglio, e
lei: «I figli!»
Ho colto nostalgia, più che rancore.
«I figli?» le ho chiesto.
«Oh, non i miei, non ne ho avuti, sebbene li
desiderassi. Quelli dell’uomo che ho commesso l’errore di sposare. Due
sanguisughe, assieme a lui.»
Non volevo altre confidenze, da parte di
quell’estranea. Mi ha salvato Stefania, di ritorno dalla cucina con un vassoio
che profumava di arrosto. Lo ha posato a centro tavola. «Servitevi,» ha detto,
«vado a prendere i contorni.»
Lucia si è impossessata delle posate di
servizio e mi ha messo due fette nel piatto.
«Stefania è una brava cuoca.»
La frase era banale, ma le era servita per
riprendere contatto con me; questo mi era sembrato. Intanto Baffetti bianchi era impegnato a
chiacchierare col padrone di casa, alla sua destra.
Non sapevo come interpretare quell’interesse di
Lucia e allo stesso tempo non volevo trovarmi nella posizione scomoda della
reticella sul tavolo da ping pong.
«Senti,» le ho detto, per mettere in chiaro le
mie intenzioni, «si sta facendo tardi e vorrei prenotare l’albergo. Ne conosci
qualcuno a buon prezzo o cerco in internet?»
«Non se ne parla,» si è incupita, «se mi fai
una cosa del genere non ti guarderò più in faccia.»
È rientrata la padrona di casa, annunciando: «I
contorni!»
C’è stato il solito seguito di apprezzamenti
e qualche battimano. Stefania, tornando a sedersi, ha detto qualcosa a Lucia,
che ha dovuto prestarle attenzione.
Melodrammatica mi ha
appoggiato la mano sul braccio: «Posso ospitarti io, se vuoi».
Intanto lei mi teneva sotto il tiro di due occhi maliziosi e io non sapevo come uscire dall'impasse.
Ho scelto il modo meno adatto.
«Scusa,» le ho detto, «non ricordo come ti chiami.»
Ho sbagliato i tempi, come con Lucia sull'aereo, quando mi ero presentato. Ma la reazione della donna è stata diversa: si è voltata di scatto alla sua sinistra e si è intrufolata nei discorsi degli amici.
Sono rimasto isolato, all'interno di quel frastuono festoso. Però non mi infastidiva. Al contrario, rafforzava in me la volontà di partire al più presto per il mio eremo al nord, di prendere possesso quanto prima dell'appartamento isolato che avevo scelto, lontano da cene chiassose e ricerca dell'eterna gioventù. Infatti, guardandomi attorno, fin dall'inizio avevo percepito nei presenti una volontà diffusa di trattenere il normale scorrere del tempo, di rimandare per quanto possibile la consapevolezza dell'età che avanza. Tutto questo mi sembrava innaturale e artefatto, non si addiceva alla mia natura disillusa.
Mi ha riportato al presente lo scoppio provocato dal tappo di una bottiglia di spumante. Calici si sono protesi verso il padrone di casa, intento a versare, e mani hanno preso fette di pandoro offerte da sua moglie Stefania. Tre persone alla mia sinistra, due donne e un uomo di cui non ricordavo i nomi, hanno fatto il giro attorno al tavolo per andare a servirsi. Le due donne si somigliavano: stessa altezza e identico castano dei capelli. Due tipi anonimi. Invece l'aspetto dell'uomo si faceva notare: magro e un po' curvo, ma con le gote arrossate. All'anulare sinistro portava un anello col brillante e al polso un orologio d'oro. Non sono un intenditore, ma avrei giurato che valessero almeno quanto un anno della mia pensione.
Lucia ha passato un calice anche a me e ha fatto in modo di indugiare con le sue dita sopra le mie, o così mi è sembrato.
«Ti auguro di trovare la felicità che cerchi,» ha detto, avvicinandosi.
Ero stato preso un po' in contropiede.
«Anche a te,» le ho risposto.
Lei ha fatto tintinnare il suo calice contro il mio e ha sorseggiato, seguitando a fissarmi da sopra il cristallo rilucente. In quel momento aveva uno sguardo che sapeva di miele, una dolcezza ingenua di adolescente che non stonava col suo aspetto di donna matura.
A quel punto tutti eravamo in piedi. Baffi bianchi, dopo di lei, allungava il braccio per toccare bicchieri, poi ha cercato il suo e lei si è voltata verso di lui. Non ho potuto cogliere le loro espressioni e non sapevo che pensare. «Pietro, auguri,» mi ha chiamato qualcuno dalla mia sinistra. Ho sorriso, ho brindato e scambiato frasi preconfezionate di circostanza, poi Melodramma mi ha fatto l'occhiolino. «Il mio invito è sempre valido,» mi ha sussurrato, molto vicino all'orecchio. Il suo respiro odorava di cibo e di vino.
«Già l'una, è ora di andare,» ha annunciato qualcuno.
Sono cominciati i saluti, gli abbracci, gli scambi di battute che sapevano di nostalgia per la bella serata e di vaghe programmazioni di cose da fare l'indomani, vigilia di natale. Cappotti, cappelli, guanti, l'esodo è iniziato. Ordinato e un po' melanconico il codazzo si è avviato per il viottolo lastricato, incontro al nebbiasco notturno. Io, che non avevo ancora una destinazione, ho indugiato; così, alla fine, oltre a me e ai padroni di casa, erano rimasti Melodramma, Lucia e Baffi bianchi.
Sembrava che il futuro di molti dipendesse da me solo, e questo ruolo di arbitro dei destini non mi si confaceva.
«Vado a prendere il mio trolley,» ho detto al padrone di casa, indicando verso la loro camera.
«Prendi anche la mia borsa,» mi ha chiesto Lucia, mentre mi avviavo.
Poi si è rivolta a Baffi bianchi: «Grazie Aldo, sono pochi passi, mi aiuterà Pietro».
Aldo ha allargato le braccia, «Come vuoi,» ha risposto, «Melania, facciamo la strada assieme?» si è rivolto alla donna del melodramma.
Lucia e io siamo usciti per ultimi.
«È qui a destra, saranno cento metri,» mi ha detto, mentre imboccavamo il marciapiede, inoltrandoci nella foschia densa.
Camminavamo adagio, per via della stampella.
Avevo studiato i luoghi, prima della partenza, assieme all'agente del turismo. Sapevo che Albufeira sorge per buona parte in cima a una scogliera a strapiombo sul mare. La nebbia assorbiva ogni suono, eppure, ogni tanto, avvertivo, o così mi sembrava, il fragore smorzato della risacca. Era impossibile, naturalmente, ma assieme a quel suono potente – reale o immaginario che fosse – avvertivo anche il profumo agre e volatile del salmastro marino.
«Albufeira ti piacerà,» ha detto Lucia.
La sua voce, così vicina, mi è parso provenisse da una distanza incredibile. Da un'altra dimensione, forse, o dall'aldilà. E la sua figura sfocata non faceva che accrescere questa suggestione. Ma la presa sul mio braccio era reale. Non ho replicato, così, dopo qualche passo, lei ha aggiunto: «Domani si va a Benagil, mi accompagnerai, vero?»
Mi ha confuso un'altra volta: intendeva con tutti i suoi amici, o io e lei soltanto?
La mia risposta, o meglio, quel che doveva determinare la mia decisione, supponevo, dipendeva da una eventualità o dall'altra. Inutile negare che quella donna esercitava un fascino trascinante su di me. Che l'atteggiamento di distacco avuto nei confronti di quell'Aldo mi dava speranze. Che la sua vicinanza, in qualche modo, mi assoggettava.
«Certo,» le ho risposto.
Dopo pochi altri passi si è fermata.
«Ecco, è qui,» ha detto.
Io non vedevo la casa e scorgevo appena un tratto iniziale del prato. Mi sono lasciato guidare.
Il vialetto lastricato bastava per una persona, ho dovuto camminare nell'erba umida, trascinando il trolley e reggendo la sua borsa sotto il braccio. Siamo arrivati a dei gradini, che lei ha salito a fatica. Ha aperto e siamo entrati. La disposizione delle camere era identica a quella della casa da cui eravamo appena usciti. Lei si è lasciata cadere su una poltrona.
«Sono esausta,» ha detto.
Mi ha spiegato come accendere la caldaia dei termosifoni, perché, Brr, era intirizzita.
«Dovrei anche fare una doccia,» ha considerato poi, «ma non me la sento. Però tu non fare complimenti.»
L'ho ringraziata. Anche io ero molto stanco.
Ho indicato il divano: «Dormirò lì, starò benissimo».
Lei ha provato ad alzarsi, ma non ci riusciva.
«Aiutami,» ha chiesto, «accompagnami di là.»
Una volta in camera da letto, ha indicato l'armadio: «Lì dentro ci sono le lenzuola e il piumone. Io mi sdraio, tu fa' come se fosse casa tua».
L'ho aiutata a distendersi, vestita, come aveva chiesto, e l'ho coperta. Poi ho preso il necessario e l'ho portato in soggiorno. Uscendo ho tirato l'anta, per chiuderla, ma lei mi ha fermato: «No, lascia aperto».
Avevo un pigiama, nel trolley. Sono andato a cambiarmi in bagno.
Avevo soggezione a mostrarmi svestito. In fin dei conti, appena quella mattina mi trovavo a Roma, immerso in un'altra vita, e adesso a chilometri di distanza, in una casa che non era la mia, in una vita presa in prestito.
Ho spento la luce, prima di tornare al divano.