mercoledì 12 maggio 2021

Ogni plenilunio a mezzanotte - Racconto


 

Ogni plenilunio a mezzanotte

Massimiliano Martone era un vecchietto simpatico, sapeva raccontare con ironia, aveva un parlare ricercato, iperbolico, un po’ aulico: all’antica; ma riusciva a strapparti un sorriso anche quando la storia in sé era drammatica. Sia Sirio che il professor Anselmo Urbani, quanto don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di sant’Agata, lo conoscevano da tempo. Con quel nasone cresciuto in maniera abnorme a causa della rosacea, difficilmente passava inosservato. E poi Massimiliano era di quelli che attaccano bottone per strada, e se gli dai spago non ti mollano più.

Una sera di ottobre, il venticinque per essere precisi, intorno alle nove si presentò in casa di don Pasquino. Voleva confessarsi e pretendeva il sacramento dell’estrema unzione da vivo.

Era un giovedì. La sera del giovedì don Pasquino e il professore la dedicavano al passatempo che più amavano: una partita agli scacchi senza limiti di tempo. Il professore vinceva regolarmente, altrettanto regolarmente don Pasquino ci si rabbuiava e borbottava innocue maledizioni, ma entrambi erano felici così. Sirio di solito si ritirava in una poltrona a preparare il prossimo esame. Le poltrone di don Pasquino, lasciti o donazioni dei parrocchiani, erano scompagnate: accozzaglie di stili ed epoche; come d’altronde la pendola a centro parete, il tappeto steso sotto il tavolino da tè e l’intero mobilio.

Sirio quella sera stava leggendo un librone dal titolo “Paranoia – Cause ed effetti psicosomatici”.

Quella sera Massimiliano Martone entrò agitatissimo. Chiese a don Pasquino di confessarlo.

Si ritirarono in un’altra stanza.

Quando uscirono don Pasquino chiese a Massimiliano:

«Perché, senza entrare nel dettaglio dei tuoi peccati, di cui hai chiesto perdono al Signore e Lui ti perdona… perché non racconti anche al professore, che ha esperienza e saggezza, perché non gli racconti questa tua storia? Sono certo che saprà aiutarti».

A Massimiliano gli si illuminarono gli occhi. Raccontare, lui amava raccontare… trovarne di gente che volesse ascoltarlo!

Si aggiustò sulla sedia e cominciò:

«Don Pasquino, professore… da un po’ morti e morti e morti nel mio palazzo…! È quel palazzone moderno, lo conoscono tutti, dalle parti dei quartieri nuovi; quel parallelepipedo alto undici piani e lungo dalla scala A alla M; quello con le antenne paraboliche sulla terrazza per ricevere i satelliti e coi ripetitori dei telefonini e la radio privata per trasmettere. Ma sì che l’avrete visto! Moderno e tecnologico… come pure riconoscibile passandoci davanti per via dei necrologi affissi lungo il muro della recinzione. Be’, professore… a don Pasquino l’ho già detto: è per questo che mi trovo qui questa sera. Questa notte tocca a me.»

«Calma, calma» tese le mani don Pasquino «racconta al professore, vedrai che esiste una spiegazione razionale. Vedrai, esiste.»

Massimiliano si strofinò il nasone spugnoso.

«Seguitemi con attenzione, e tenete a mente piano e scala. La prima, a memoria mia, è stata l’anziana signora Asti: piano primo, scala A. La sua dipartita risale alla notte fra i 4 e il 5 di gennaio. Aveva novantanove anni. Si disse: A quell’età… era tempo! Poi, intorno alla mezzanotte del tre di febbraio è venuto a mancare il professor Bertoli che abitava al secondo piano della B, cardiopatico da anni, stroncato da infarto. Il 5 marzo, durante la notte, mentre rincasava dal servizio è stato accoltellato a morte da ignoti davanti all’ingresso della scala C il brigadiere Cordiale dei carabinieri, abitava al terzo piano. Durante la notte del tre aprile, o forse era già il quattro, disse il patologo, si è data la morte col veleno la signorina Dandi, quarantacinque anni, a causa, si ritiene, di ripetute, insostenibili delusioni d’amore. La signorina Dandi abitava alla D, quarto piano.»

Massimiliano squadrò il professore con gli occhietti accigliati, sembravano piccoli rispetto a quel nasone…!

«Mi segue, professore? Capisce il dramma?»

Sirio, dalla sua poltrona in disparte coglieva altre coincidenze curiose e inspiegabili, oltre alla progressione piano-scala delle dipartite, per come le chiamava Massimiliano. Le tenne per sé. Intanto Massimiliano aveva ripreso:

«Maggio, mezzanotte precisa del due: il venticinquenne Ercolini Erasmo, promettente disc jockey e stimato presentatore radiofonico è stato fulminato in diretta da mal funzionamento degli apparati elettrici di trasmissione mentre annunciava il prossimo disco dall’appartamento al 5° piano della scala E del palazzo, sede di RadioE5. Milioni di persone hanno udito il suo urlo prima che le trasmissioni si interrompessero. Si entrava appena nel giorno uno del mese di giugno allorché il professor Fiorelli, già rappresentante di commercio, trovava finalmente sollievo dopo anni di continue insostenibili sofferenze causategli da male incurabile nel suo appartamento al piano 6° della scala F. Sempre a giugno, o forse si era già al primo di luglio, l’archivista a riposo ragionier Goffredi, residente al 7° piano della G, trapassava dal sonno terreno a quello eterno senza soluzione di continuità, a quel che ne riferirono la moglie e i due figlioli, adulti ma ancora conviventi».

Massimiliano Martone si passò la mano sulla fronte umida: «Professore ci siamo quasi… Ancora a luglio, durante la notte del ventinove, un giornalista inglese di nome Hoffman venuto i visita dalla sorella, deve aver sentito la necessità di uscire sul balcone in cerca di sollievo per via dell’afa, lui, abituato ai climi del nord. Ora, non ne aveva motivo, ma testimoni affermano che si è sporto dalla ringhiera in modo sconsiderato, il suo Help è riecheggiato a lungo mentre precipitava per gli otto piani della scala H. Era mezzanotte.»

Massimiliano si agitò sulla sedia. Don Pasquino, facendo uno strappo alla regola, recuperò dalla credenza una bottiglia ancora sigillata di Ballantines, ne versò in un piccolo bicchiere e glielo porse: «Su, su, per rianimarti».

Massimiliano mandò giù in un sorso. Don Pasquino scosse la testa, ma glielo riempì di nuovo.

Sirio notò che il professore ingoiava asciutto.

Massimiliano riprese:

«Come vedete, di pari passo coi necrologi sul muro della recinzione, si allungava la triste lista delle morti più o meno accidentali nel condominio. Molti passanti, notai, in quel punto cambiavano marciapiede, le donne di ritorno dalla messa si segnavano, qualcuno lasciava scorrere la mano sulla ringhiera di ferro fin quando si sentiva fuori pericolo. Né l’atmosfera era migliore all’interno. Nessuno ne parlava apertamente, è vero, ma un sospetto aleggiava negli sguardi, un timore formicolava sulle espressioni tirate. Difficile fosse sfuggita la cadenza mensile dei trapassi e nemmeno l’ordine alfabetico, come se la morte avesse chiamato l’appello prima di manovrare la falce. L’Hoffman in verità ci aveva colti di sorpresa, innanzi tutto perché non residente, in quanto ospite, secondo perché il prossimo commiato era atteso per il successivo mese di agosto. L’anomalia trasse in inganno gli Imperia, inquilini del nono piano della scala I, i quali imputando a mera indisciplina britannica il trapasso dell’Hoffman in un mese che non era quello giusto, sottostimarono il pericolo e prenotarono le ferie all’estero per settembre. Invece nella notte fra il ventisette e il ventotto di agosto accorse l’ambulanza per accertare il decesso per trombosi cerebrale della Imperia Irma, di anni quarantanove, casalinga, intervenuto allo scoccare della mezzanotte. A questo punto… lo capite, mi si imponeva una indagine puntuale e accurata, dal momento che l’immaginaria linea diagonale che attraversava il parallelepipedo partendo dal primo piano della scala A e fino al nono della I, luogo rispettivamente del primo e dell’ultimo accidente, correva diritta incontro a me: Massimiliano Martone, scala M, undicesimo piano! Una mattina mi piazzai davanti al muro della recinzione e ripassai tutti i necrologi. Le dipartite si erano invariabilmente verificate di notte e, ne ebbi conferma dai familiari, sempre alla mezzanotte! Mezzanotte, capisce professore? E lei non sorrida don Pasquino, l’ora tradizionale dei fantasmi, o dei vampiri… di qualsiasi creatura delle tenebre insomma! Dopo lo sgomento iniziale mi considerai sciocco, oggi, nel ventunesimo secolo, in piena era tecnologica, a sospettare che davvero qualche spirito malvagio potesse aggirarsi per il mio palazzo ad assassinare condomini secondo un ordine preciso nelle notti di luna piena! Notti di luna piena? Cercai un calendario: le date, tutte, coincidevano… anche dell’Hoffman! Eppure no. mi rifiutavo di crederci. Una spiegazione scientifica doveva esserci. Ma come e dove appurarlo? Intanto, per tacitare la coscienza, misi sull’avviso i Lalli, che stavano al decimo piano della L e gli rivelai la data fatidica, che secondo i miei calcoli sarebbe caduta alla mezzanotte del ventisei settembre, plenilunio! Essi, per sicurezza, partirono con ampio anticipo il diciannove e anche io… visto mai qualche pasticcio nei calcoli come nel caso dell’Hoffman, me ne andai il venti a campeggiare sul confine con l’Austria. Rincasai il ventotto, il carro mortuario con le spoglie del povero Lalli Lino arrivò subito dopo di me. Anche lui, se pur lontano, era stato raggiunto da morte violenta, sopravvenuta per impiccagione non si sa se volontaria o per mani altrui, nella notte del plenilunio. A questo punto professore, caro don Pasquino… nessun ostacolo, nessun condomino fra me e la morte. A questo punto, venticinque ottobre, luna piena, un minuto alla mezzanotte…»

La pendola sul muro di fronte diede il primo rintocco e Massimiliano Martone ebbe una smorfia di dolore e si portò entrambe le mani al petto; si accasciò nella poltrona.

Don Pasquino si precipitò verso la credenza, il professore si districò dalla poltrona, Sirio rimase seduto. Don Pasquino accorreva con l’ampolla dell’olio: «Ego te absolvo a peccatis tuis…»

Il professore cercò con due dita l’arteria giugulare sotto il mento: «È vivo!»

Don Pasquino si bloccò, Sirio si grattò la fronte, Massimiliano Martone si alzò ridendo dalla poltrona col nasone che fremeva: «Mi riesce ogni volta, dovreste vedervi… che facce avete!»

Incespicò nel tappeto. Precipitò con la tempia contro lo spigolo di marmo del tavolino da tè. Uno sbuffo di sangue. Cadde sul tappeto con gli occhi sbarrati.

La pendola diede l’ultimo rintocco.


sabato 8 maggio 2021

Quando il latte faceva la panna - Racconto


 

Quando il latte faceva la panna

 

 

Sirio strinse la mano di Rugiada e spinse il cancelletto.

Rugiada e Sirio erano al primo anno, si incrociavano nei corridoi, avevano seduto vicini a qualche lezione; qualche volta al tavolo della mensa insieme ad altri avevano scambiato qualche parola. Eppure Sirio se l’era trovata alle sette di mattina fuori dalla porta che piangeva seduta al gradino.

  Sirio a quel tempo abitava un monolocale in affitto al primo piano con scala esterna sulla via dei villini, poco oltre il professor Anselmo Urbani. Si alzava presto e faceva un circuito di corsa leggera nel parco comunale. Una buona sudata, doccia e facoltà.

E Rugiada, quella mattina era sul gradino.

«Che succede?» le chiese Sirio.

«Niente, niente, scusa… vado via.»

Stava per alzarsi. Sirio la trattenne sedendosi accanto a lei.

«Niente mi sembra poco» le disse «se stai qui a piangere.»

«È che non sapevo dove andare…»

Rugiada tirò su col naso.

Aveva vent’anni e ne dimostrava sedici. Adesso, così minuta, raggomitolata con le braccia che stringevano le ginocchia, anche quattordici.

«Ma da quanto sei qui?»

«Non lo so… era buio.»

Sirio non la conosceva abbastanza da poter trarre delle conclusioni sulle cause. Sugli effetti sì.

«Intanto vieni dentro» le disse.

«Dove dentro? Da te? No, no, ma che… scherzi?»

Sirio aveva frequentato abbastanza ragazze da conoscerne le contraddizioni.

«Me ne vuoi parlare?»

Rugiada sollevò la testa. Di là dalla strada due ragazzini, maschietto e femminuccia, con lo zaino in spalla percorrevano il vialetto e salivano dallo sportello posteriore. La madre chiudeva dicendo M’avete fatto far tardi pure stamattina…; in fondo alla via il camion della differenziata faceva una specie di barrito da elefante sollevando il cassonetto; due sullo scooter accostarono al villino più avanti, quello dietro scese togliendosi il casco e l’altro ripartì.

Rugiada gli rispose: «Non lo so perché sono qui, nemmeno ci conosciamo… Una volta ti ho visto che uscivi e stamattina che ancora era buio mi ci sono trovata a passare… È che non sapevo dove andare. E a dire la verità non lo so nemmeno adesso.»

Situazione di stallo: partita patta. Evita sempre di cacciarti in situazione di stallo, diceva il professor Urbani quando gli spiegava il gioco degli scacchi. Lo scopo è vincere! gli diceva.

Sirio le disse: «Ho la soluzione!»

Scatto della testa: sorpresa e dubbio negli occhi di Rugiada.

«Vieni» le prese la mano Sirio alzandosi dal gradino.

«Dove?»

«Dal professor Urbani. È qui vicino.»

«Da quello?»

«Non preoccuparti. È meno orso di quanto sembra in facoltà.»

Sirio prese a scendere deciso e Rugiada gli tenne dietro esitante.

Dal cancelletto al patio del professore un vialetto lastricato attraverso il prato all’inglese che Sirio e Rugiada percorsero tenendosi per mano.

«Ah, Sirio…!»

A sessant’anni il professor Anselmo Urbani aveva la forma di due uova. L’uovo piccolo, munito di barba alla Giuseppe Mazzini e con gli occhi che indagavano, sovrapposto al grande, ancora in pigiama color celeste cielo sereno.

«Entrate» spalancò la porta facendosi da parte.

Se le idee di Sirio al momento erano confuse, quelle del professore dovevano essere ben chiare: «Qui ci vuole un bel caffè!»

Indicò la poltrona a Rugiada e indirizzò Sirio al divano.

La caffettiera borbottava. Rugiada teneva la testa bassa e le mani fra le ginocchia. Tazzine tintinnavano di là, in cucina. Profumo di caffè gorgogliava. Il professore tornò con tre tazzine su un piatto.

Li appoggiò sul tavolino da tè e bevve subito, prima di accomodarsi e accavallare le gambe nell’altra poltrona.

«Il caffè è un piacere se scotta la lingua. Sirio, ti ho mai raccontato il mio primo ceffone?»

Sirio, al primo anno, considerava qualsiasi allusione del professore una lezione.

Il professore non gli lasciò il tempo di rispondere.

«Avevo sei anni. Oh… tanti anni fa… La colazione a quei tempi era la zuppa. Non chiedetevi cos’era, ve lo spiego: una tazza grande sul mezzo litro piena di latte bollente e pane raffermo inzuppato. Bastava fino al piatto di pasta del pranzo e questo a sua volta fino al pane col pomodoro o con l’olio alla sera. Basta, veniamo a noi. Vivevamo in campagna, però mio padre, che faceva il portalettere, ci tirava fuori giusto qualche ortaggio dalla poca terra attorno alla casa. Il latte della colazione ce lo portava un contadino che girava con le giare di zinco sull’Ape e lo consegnava casa casa. Bisognava bollirlo. E faceva la panna. In superficie si formava questo strato, una pellicola in verità, cremoso e dolce, che raccoglievo col cucchiaino e assaporavo subito, prima che si freddasse. Poi, il mondo va avanti, il contadino non passò più. Avevano inventato il pastorizzato. Lo compravi in bottiglia di vetro, lo scaldavi ed era pronto. Volendo potevi berlo anche freddo. Una mattina che si faceva colazione assieme io e i miei, mi scappò: “E la panna? Questo latte fa schifo”. Mi arrivò un ceffone… un buffetto in verità, da mio padre. Era il primo – ed è rimasto l’unico – mi arrivò inaspettato, scappai a piangere dove non potevano vedermi. Ora, se ci ripenso, e alla mia età si pensa spesso al passato, quanto doveva essergli sembrata grave a mio padre la mia esclamazione. E quanto sembrò grave a me quel buffetto. Crescendo ho capito che si era trattato di una reazione, non so se istintiva o impulsiva, ma non voluta… o comunque non voluta per farmi del male.»

Il professore rimase in silenzio.

Sirio, che lo conosceva, capì che non doveva interromperlo, il silenzio.

Il silenzio va riempito, perché incombe, pesa, se si prolunga.

Rugiada disse:

«Anche mio padre mi ha dato uno schiaffo, ieri sera, il primo, anche per me. Solo che io ho vent’anni, non sei. E non me lo meritavo.»

Il professore disse: «Scusate!»

Uscì. Lo si sentiva parlare al telefono.

Sirio guardava di lato e, al limite del campo visivo, osservava Rugiada. Rugiada non lo guardava.

Certo Giovanna, grazie molte Giovanna… arrivò la voce del professore.

Giovanna, impareggiabile addetta alla segreteria della facoltà di Criminologia e psicologia criminale di Bologna, sede distaccata a Forlì, rappresentava il Refugium peccatorum – così diceva lui – del professor Urbani quando non sapeva a che santo rivolgersi.

Il professore rientrò con la faccia soddisfatta.

«Ecco fatto» disse riprendendo il suo posto.

Aveva portato tre bicchieri di brandy – se ne sentiva il profumo – che appoggiò accanto alle tazzine vuote.

«No, grazie» scosse la testa Rugiada «di mattina…»

«Sciocchezze» disse il professore, e mandò giù.

«E tu? Sirio? Il primo ceffone da tuo padre?» aggiunse il professore schioccando le labbra.

«Non ho avuto questa fortuna. Mio padre se n’è andato con un’altra che ero piccolo…»

«Sfortuna, la chiami?» sollevò la testa Rugiada.

Il professore tentennava. Impossibile capire se accennava di sì o di no. Sorseggiò.

E Rugiada si protese al bicchiere e bevve un piccolo sorso. Fece una smorfia di disgusto.

«Il discorso non è lo schiaffo in sé. Mi state facendo sentire ridicola… è che a vent’anni una non se lo aspetta. Soprattutto se non ha colpa di niente…»

«Ma le cose» chiese il professore «com’è che sono andate?»

«Una carognata» disse Rugiada «ecco cosa.»

«Capisco» disse il professore, e lo disse convinto, tanto che Sirio immaginò stesse barando

«capitava anche ai tempi miei.»

Rugiada si voltò per guardarlo. Sirio pensò che se era un bluff era azzardato.

«Mi vedete» disse il professore «e non è che alle elementari o alle medie fossi molto diverso. Certo, un po’ più di capelli, magari neri e non bianchi, niente pizzetto da Giuseppe Mazzini… ma per il resto…» allargò le braccia.

Mettersi a nudo doveva pesare anche a lui, considerò Sirio.

Il professore assaggiò appena appena.

«Mi chiamavano Uovo di Pasqua, e l’unica volta che mi ribellai le presi.»

Il professore sorrise.

«Quella carogna» disse Rugiada.

Si torturava le mani: «Ecco, adesso mi sento ridicola, a vent’anni di queste reazioni…»

«Oh, ma le reazioni ben raramente sono razionali…»

«Forse dovrei raccontare…»

«Perché no?»

«Ci si può fidare degli amici?» diede un’occhiata di sfuggita a Sirio, che continuava a tacere «avevamo fatto le superiori assieme e abbiamo proseguito assieme a Criminologia…»

«Una tua amica?»

«Chiamiamola amica…! O comunque, fino a un certo punto lo sarà anche stata, non dico di no. Ma adesso…»

«E se cominciassimo dall’inizio?»

Il tono del professore, le gambe accavallate, il busto eretto, i gomiti sui braccioli, era caldo: né alto né basso.

Sirio pensò che ne aveva da imparare…!

«L’inizio è un bacio che non me l’aspettavo. Lui si chiama Andrea… Sirio lo conosce, ma tienitelo per te. E anche lei, professore, lo conosce, ma la prego…»

Il professore disse: «Non dubitare. Nessuno ne farà parola.»

«Non è che ci conoscessimo più di tanto, e nemmeno ci pensavo. Sì, carino è carino… insomma si era creata quell’atmosfera…»

«Certo, certo…» assentì il professore, la fronte aggrottata.

«Insomma, qualche serata al pub, una sera in pizzeria… come succede… Insomma è successo.»

«Fin qui niente di male mi pare» disse il professore «da quanto tempo?»

«Una settimana…»

Il professore, come assorto, annuiva: «E questa amica?»

«Ma lei che ne sa?»

«Mi dicevi tu… di un’amica…»

«Ah, certo. Lei! La carogna! Guardi!»

Armeggiò con l’iPhone.

«Per questo… lo schiaffo?»

«Già» Rugiada si portò la mano alla guancia.

«Può vederla anche Sirio?»

Rugiada fece spallucce. Il professore passò il cellulare a Sirio.

Una fotografia: Rugiada in mutandine e senza reggiseno. “Rugiada ultrapiatta ruba il ragazzo alle amiche” era il commento.

Rugiada riprese l’iPhone e l’infilò nella tasca della felpa.

«Dunque tuo padre?» chiese il professore.

«Oh, non è che guardi i miei messaggi. Non lo faceva che ero piccola, figuriamoci adesso. Solo che me lo stava porgendo e si è acceso. Come dice lei, professore, un buffetto: non se l’aspettava lui e non me l’aspettavo io.»

«E sei scappata dove non potevano vederti: in camera tua. Poi durante la notte…»

La voce del professore invitava a proseguire.

«Non riuscivo a prendere sonno… non so se vergogna, o umiliazione… oppure rabbia. Non so a che ora della notte sono uscita di casa e ho cominciato a girare. Non è che l’avessi deciso… e, a dire il vero non sapevo nemmeno dove andare.»

«È chiaro» disse il professore «e adesso?»

Rugiada sollevò le spalle: «Non so».

«Sai che è successo dopo il buffetto di mio padre per il latte?»

«No, cosa?»

«Che mi ha chiamato. Sono tornato in cucina e ho finito la zuppa. Mio padre mi ha chiesto se la cartella era pronta – a quel tempo gli zainetti non li avevano inventati – e mi ha accompagnato a scuola sulla canna della bicicletta. Tutto come al solito.»

Rugiada lo fissava con la testa inclinata da un alto: «Così facile?»

«Su, su, che tuo padre ti aspetta.»

«Mio padre?»

«Gli ho telefonato: prima. Il numero me lo ha procurato Giovanna. È preoccupato: stava per andare alla polizia.»

Ci sono pesi che perdono peso, come un palloncino pieno d’acqua bucato che si affloscia.

«Mi accompagni?» chiese Rugiada a Sirio.

«Su, su andate... che ho da fare» li spinse fuori il professore.


Racconto

Violenza privata - Romanzo

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