lunedì 4 gennaio 2021

Il vortice

 



Il vortice

 

Fernando Carofigghio era sagrestano della chiesa di Santa Lucia da oltre quarant’anni, cioè da quando l’allora parroco don Simplicio l’aveva preso a svolgere quel servizio dopo l’incidente di motocicletta che gli aveva offeso la gamba sinistra. Alle diciannove e trenta del ventitré di dicembre, antivigilia di Natale, uscì claudicando dalla sagrestia, che aveva riordinato e pulito, e si avviò verso la prima bussola. Meccanicamente diede un’occhiata intorno per accertarsi che non ci fosse più nessuno e passando accanto ai confessionali scostò le tende. Una volta ci si erano nascosti due fidanzatini a sbaciucchiarsi, un’altra ci aveva sorpreso un paio di ladruncoli in attesa che chiudesse. Sprangò la porta esterna e passò a verificare la bussola successiva. Tirò i catenacci anche alla seconda porta e si voltò per ritornare alla sagrestia. Era stanco, infreddolito e voleva soltanto andarsene a casa.

Ritornando verso l’altar maggiore lo vide.

Vide il vecchio Aldo Conversi disteso supino sul terz’ultimo banco, i piedi divaricati come Charlot. Gli occhi sgranati fissavano il soffitto, il collo era stranamente gonfio sotto il mento, dove una bavetta giallognola gli si era aggrumata. Una linea rossastra di sangue rappreso gli segnava la guancia dal naso giù fino all’orecchio.

Indossava i guanti, notò il sagrestano.

Il vecchio Conversi era sempre stato magrissimo, ma adesso, col cappotto e la giacca che ricadevano aperti, sembrava che la camicia contenesse un fagotto schiacciato.

Se n’era rimasto una manciata di secondi a fissare il cadavere, e gli era venuto da pensare, chi sa poi perché, che il morto non portava il cappello. E questo pensiero del cappello lo riscosse.

Trascinando la gamba offesa si affrettò verso la sagrestia e l’uscita.

Dimenticò di coprirsi.

E fuori nevicava in abbondanza. Gli intrise di gelo il pullover. Un vento dispettoso faceva mulinare i fiocchi in aria come in una sorta di danza scompigliata. Il sagrestano uscì d’impeto, sul marciapiede scivolò sulla gamba rigida, si riprese sull’altra; i lampioni stradali si specchiavano nella neve sciolta; si slanciò per attraversare senza prestare attenzione. Non si avvide del motociclista che sopraggiungeva a bassa velocità.

  

Quell’anno il ventitré di dicembre, antivigilia di Natale, cadeva di lunedì. Alle diciannove e trenta Sirio Bonanni e il professor Anselmo Urbani si trovavano nella canonica di don Pasquino Bonsangue, al primo piano di una palazzina dirimpetto alla chiesa di Santa Lucia. Fuori dai vetri appannati, fiocchi di nevischio si intravvedevano alla luce dei lampioni stradali.

Don Pasquino, un sessantenne basso di statura e col volto magro attraversato dalle rughe, aveva ereditato dalla madre triestina la carnagione chiara, che lasciava trasparire le venuzze sulle gote, e dal padre il temperamento partenopeo, che quelle gote infiammava se trascendeva dalla virtù della Temperanza. Parroco della piccola diocesi da circa un anno, si ostinava a sfidare il professor Urbani al gioco degli scacchi, uscendone continuamente sconfitto.

«Eh, professore» disse don Pasquino con la sua cadenza di Trieste «così le mangio la regina. Vuol ritirare la mossa?»

Sirio, che a quell’epoca si trovava al quarto anno di facoltà, in una poltroncina a due passi dal tavolo degli sfidanti stava studiando un volume dal titolo Teoria e applicazione delle tecniche per l'investigazione scientifica, argomento che avrebbe dovuto sostenere nel prossimo esame, subito dopo la pausa per le festività natalizie. Sollevò gli occhi sulla scacchiera, memorizzò la posizione dei pezzi e si concentrò sul viso del suo amico, il professor Urbani.

Le espressioni del volto sono veicolate da circa quarantatré muscoli facciali, per lo più volontari, altri inconsapevoli. Un attore è capace di padroneggiarne una parte, riuscendo a fingere in maniera più o meno credibile la felicità, il dolore, la sorpresa e tutta una gamma di sentimenti, ma non può controllarli tutti. Sirio, per sua dote naturale oltre che per conoscenza didattica, sapeva cogliere le sfumature invisibili delle espressioni sincere.

Urbani fingeva disappunto – borbottò qualcosa di incomprensibile – ma tra sé gongolava la vecchia volpe, stringendo nel pugno il pizzetto candido della barba e lisciandoselo verso il basso, gli occhi che scattavano tra i pezzi sulla scacchiera.

«No, no» disse Urbani al parroco «in questo gioco le mosse non si ritirano e chi sbaglia deve pagare.»

«Quand’è così!» disse don Pasquino, e sostituì la regina nera di Urbani con la propria.

Sirio non aveva mai visto il professor Urbani perdere una partita. Sulla scacchiera aveva preparato una trappola, una trappola sofisticata che nel gergo degli appassionati si chiama Vortice. Consiste nel mettere sotto scacco contemporaneamente sia il re che un altro pezzo dell’avversario, il quale, per salvare la partita deve rinunciare al pezzo minore. Così facendo però si sottopone a un successivo scacco doppio, e poi a un altro, e via di seguito, in un vortice appunto, una sorta di maledizione che pezzo dopo pezzo decima il suo esercito costringendolo a capitolare.

Urbani si leccò il labbro come un bambino che pregusta la marmellata.

«Eh, don Pasquino» disse «meglio un eccesso di prudenza che uno scrupolo di coscienza.»

Spostò il cavallo e lo posizionò a difesa del proprio Re; quindi a sua volta disse: «Scacco».

Don Pasquino fece una faccia sorpresa e scontenta. D’improvviso si rese conto che per salvare il proprio Re avrebbe a sua volta perso la Regina. Mise in salvo il Re, e, una mossa dopo l’altra, il Cavallo nero di Urbani, continuando a saltellare sui riquadri della scacchiera, lo privò in successione, oltre che della Regina appunto, anche di un Alfiere e due Torri.

Don Pasquino non aveva più esercito.

Il sangue napoletano che gli scorreva nelle vene gli imporporò il viso. Sfogò il malcontento sul proprio Re innocente ribaltandolo sulla scacchiera e si protese verso il rivale.

«Lei è il demonio…» gli sibilò a un palmo dalla faccia.

Sirio si era accostato alla finestra. Riconobbe la figura del sagrestano che usciva di corsa dalla porta della sagrestia, senza cappotto, benché nevicasse in abbondanza e un vento dispettoso facesse mulinare i fiocchi in aria come in una sorta di danza scompigliata. Il sagrestano uscì d’impeto e si slanciò per attraversare. Un motociclista sopraggiungeva, a bassa velocità, caracollò per evitarlo, gli mostrò il pugno, urlò qualcosa che Sirio non poté afferrare e proseguì scuotendo la testa.

Il trillo insistente del citofono distolse don Pasquino e il professore dalle loro contese sulla partita.

  

Don Pasquino Bonsangue, al cospetto della morte, si segnò. Il sagrestano, dopo essersi fatto il segno della croce anche lui, rimase un passo indietro, con le spalle dimesse. Il professor Urbani, valente criminologo, raccomandò: «Teniamoci a distanza. Evitiamo di inquinare la scena del delitto. I carabinieri saranno qui a momenti».

Don Pasquino avrebbe voluto proporre una preghiera, per quell’anima appena tornata alla casa del Signore. Invece Sirio lo precedette:

«Erano in due».

Guardava, o più propriamente studiava da una certa distanza le spoglie mortali del povero Aldo Conversi disteso sulla panca.

«Da cosa lo deduci?» gli chiese il professor Urbani.

«Lo hanno trascinato» rispose Sirio facendo scorrere due dita sul palmo dell’altra mano «guardi le scarpe professore, hanno le punte graffiate. Uno dei due è un gigante.»


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