lunedì 21 dicembre 2020

Mistersmit - Racconto

 



Mistersmit

Sirio, il cannone del Gianicolo aveva sparato da non più di dieci minuti, abbandonò il tavolino del bar titolato a Trilussa e tenne dietro ai due giovani che svoltavano nel vicolo.

Il ragazzo si chiamava Dario, la ragazza Ginestra.

Dario andava avanti a passo veloce trascinando la ragazza per il polso. Ginestra aveva un vistoso ematoma sullo zigomo, il braccio destro abbandonato. Non protestava, con le gambe legnose cercava di tener dietro al compagno.

L’acciottolato sconnesso e grigio odorava di urina stantia e muffa ancestrale. Il sole non lo lambiva da quando esisteva; da secoli si fermava alle mansarde senza mai arrivare laggiù. Un topo che rovistava in una busta abbandonata di rifiuti, sgusciò via assorbito da un tombino della strada.

Davanti a un portoncino Dario e Ginestra si fermarono; e mentre il ragazzo armeggiava con le chiavi per aprire, lei si appoggiò al muro, riversò all’indietro la testa contro la parete.

Sirio li raggiunse e disse:

«L’avete ucciso voi, Mistersmit?»

  

Primo carnevale, cominciò a leggere Sirio “Io uccido”, il libro di Faletti. Con la professione che si era scelto cosa meglio di un thriller, per sdrammatizzare?

Sirio si trovava a Roma per un convegno. Sarebbe iniziato domani, patrocinato dal Ministero degli Interni e avrebbe riunito i massimi esperti del campo. Dibattiti e interventi sarebbero stati incentrati sul tema Criminalità organizzata, trasformazioni nei metodi criminali, i curatori avevano pensato anche a un sottotitolo: Camuffamento dell’alibi. L’intervento di Sirio era programmato per la terza giornata dei lavori.

Per adesso Sirio, a un tavolino all’ombra di un bar titolato a Trilussa, si godeva il tepore di un luglio clemente, mitigato dai leggeri aliti della tramontana che in qualche modo riusciva a districarsi per i vicoli della vecchia Trastevere. La giornata era magnifica, il cielo di una trasparenza incredibile; il grigio dei cubetti di selce rimandava riflessi giallastri di luce, ombre nette si stagliavano sulle facciate delle palazzine di fronte.

Un movimento richiamò l’attenzione di Sirio. Ebbe la fugace visione di una testa che si ritraeva dietro un comignolo.

  

Il morto nella sedia pieghevole con le testa reclinata sulla spalliera fissava il cielo terso di luglio con gli occhi sbarrati.

Che fosse morto non potevano esserci dubbi. Certi mosconi col dorso lucido verde si contendevano sciamando la bavetta giallognola rappresa sul mento, gli formicolavano sulla lingua e uscivano dalla cavità oscura della bocca come carbonai alla fine del turno.

Mollica, accovacciato sul bordo del tetto a tegole, ebbe una smorfia di disgusto e distolse lo sguardo.

Nella vecchia Trastevere le case si susseguivano attaccate muro a muro, disegnavano vicoli, contornavano cortili e Mollica, spostandosi per i tetti, conosceva ogni percorso tra Porta Portese e il Gianicolo, fra piazza Trilussa e le Mura Aureliane. Ci si spostava come un altro va dalla cucina al soggiorno.

Molti dei residenti li conosceva per nome, gli capitava di coglierli, sempre accucciato dietro i comignoli o i muretti degli abbaini, mentre si spostavano in casa o discorrevano sulle terrazze. Ma lui, Mollica, i residenti li rispettava. Andava invece in cerca dei provvisori, i turisti che più o meno in ogni stagione affittavano i miniappartamenti ricavati dalle mansarde e dai lavatoi di condominio.

Il morto era un residente. Per le viuzze attorno lo conoscevano un po’ tutti, perché era un tipo col sorriso e la battuta pronta. E gli piaceva fare scherzi.

Si serviva dalla panetteria del sor Giorgione, prendeva il primo cappuccino al bar di Beppo, l’aperitivo delle sei alla caffetteria all’angolo con via della Renella e cenava da Gaspare l’Amatriciano, sempre allo stesso tavolo. Per Trastevere lo chiamavano Mistersmit, perché il cognome, più russo che americano, era impronunciabile e anzi, i trasteverini veri, quelli di sette generazioni e qualcuno della vecchia guardia, credendolo nomignolo di mala, lo chiamavano Er Mistersmit.

Mistersmit stava in Italia da chi sa quanto, c’era chi diceva dalla guerra; non risultava avesse mai lavorato, ciò non di meno campava bene, di rendita, si sussurrava; capiva il romanesco meglio di chi c’era nato, ma parlava l’italiano ancora come un inglese.

Mollica si fece forza per guardarlo. Sangue non ne vedeva. Forse un infarto.

Che faccio? Si chiese. Niente, si rispose. Lui, Mollica, non era qui, accovacciato sullo scivolo delle tegole a reggersi al comignolo. Che avrebbe potuto dire? Che girava per i tetti in cerca di collane da rubare alle tedesche, portafogli agli americani o Nikon ai giapponesi?

No che non poteva.

Stava per girarsi e gli cadde l’attenzione sulla valigetta ventiquattrore appoggiata sul tavolino accanto al morto. Preso da Mistersmit nemmeno l’aveva notata. Era aperta, come in certe scene di film di spionaggio o di scambio soldi-droga, dove il cattivo che compra la tiene a coperchio sollevato per far vedere il contenuto al cattivo che vende. E proprio come in quei film, conteneva mazzette di dollari nuovi, fascettate e impilate l’una accanto all’altra.

Almeno un milione di dollari, a dar retta ai film.

Che faccio? Tornò a chiedersi Mollica.

Per entrare nelle case usava dei guanti di tela da giardiniere – con quelli in lattice gli sudavano le mani – li indossò. C’era un morto, e stavolta più che mai non poteva permettersi di lasciare tracce. Stava per calarsi sul terrazzino quando dall’interno gli arrivò un rumore di mobili spostati.

Mollica si ritirò dietro al comignolo e attese.

  

Era stata una visione fugace, forse l’ombra di qualche uccello in picchiata, e Sirio ritornò al suo libro:

“L’uomo è uno e nessuno. Porta da anni la faccia appiccicata alla testa e l’ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale pesa di più”.

Una folla variopinta di turisti in maniche corte proiettava ombre pesanti sul selciato a cubetti. Ragazze bionde in minigonne sgargianti, t-shirt colorate. Risate ai tavoli accanto. Una donna grassa dal passo trafelato con a tracolla una ingombrante borsa sponsorizzata da un supermarket attraversò la strada e girò la chiave nel portone più avanti.

«Ah Elèna» la bloccò il sessantenne che usciva «sale da Mistermit?»

«Come tutti i mercoledì» disse la donna che si chiamava Elèna, aveva un accento slavo.

«Dev’essere uscito presto, perché non ho sentito rumori, da sopra.»

La donna era entrata, il sessantenne veniva verso il bar.

«Hai visto Mistersmit?» chiese a uno seduto a un tavolo che leggeva il giornale.

«No, oggi no. Vedrai che è qualcuno dei suoi scherzi.»

Il sessantenne possedeva una voce vibrante.

«Nico, un caffè» chiese al cameriere che si era affacciato sulla porta del bar, poi sedette al tavolino di quello col giornale.

“Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo…” riprese Sirio la lettura del suo libro.

 

 

Elèna Masknova entrò con le chiavi e appoggiò la borsetta sul divano. Era in ritardo e andava di fretta. Appena le dieci e già il caldo era insopportabile. Nel sollevare le sedie avvertì il proprio sudore. Sempre di corsa da una casa all’altra, aveva già fatto due servizi e nemmeno il tempo di darsi una lavata sotto le ascelle. Da Mistersmit si faceva pagare due ore, però più di una non la faceva mai. Finito qui era attesa da una che si spacciava per Contessa e abitava sull’altra sponda del Tevere. Se fosse contessa davvero Elèna non lo sapeva, ma pagava bene e solo questo le importava.

Elèna, suonati cinquant’anni, alla morte della madre aveva finalmente trovato il coraggio di scappare sia da Ulzyn, il villaggio miserabile dov’era nata e suo malgrado costretta a vivere, che dalla miseria in cui la costringeva un marito sfaccendato e arrogante. A Roma aveva trovato lavoro, una certa tranquillità, e un uomo che la trattava in maniera decente; però la miseria ancora le faceva paura.

Elèna afferrò le sedie per la spalliera e le rigirò sul tavolo, poi si affrettò verso il ripostiglio in cui Mistersmit nascondeva le ramazze, recuperò lo spazzolone e riempì il secchio con l’acqua. Mistersmit non si era mai lamentato se gli faceva trovare un lavoro affrettato, e nemmeno quella volta che gli aveva frantumato il vaso di cristallo. L’unico oggetto cui sembrava tenere era una brutta maschera di cartapesta appesa nel soggiorno, un naso nero penzolante e due buchi al posto degli occhi. Una volta l’aveva tirata per le lunghe perché, diceva lui, non l’aveva spolverata. Così ci passò di fretta il panno e si mise a lavare il pavimento.

Si faceva tardi e sudava per il caldo e la fretta. Evitò di spostare le poltrone e girò attorno al tappeto; arrivò alla vetrata che dava sul terrazzo. Tirò le tende e lo vide. Vide Mistersmit nella sedia da regista azzurra col pomo d’Adamo quasi fuori dal bianco esangue della pelle e le mani abbandonate in grembo. Elèna era di religione ortodossa, e dopo il primo attimo di smarrimento si segnò sulla fronte e sul petto. Poi vide la valigetta aperta e vide i soldi, tanti soldi quanti non sapeva immaginare.

Girò la maniglia della vetrata e sentì che qualcuno entrava dalla porta.

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venerdì 18 dicembre 2020

Naso di gomma - Racconto





Naso di gomma

 

Sirio, nudo fino alla cintola, la testa ripiegata contro la spalla di Gianna, russava leggermente. Invece a lei il freddo l’aveva svegliata. Quell’anno Forlì, a metà ottobre, di notte raggiungeva temperature polari.

Gianna tirò la trapunta e la rincalzò sotto il collo di Sirio; scese più in basso nel letto per coprirsi fino alle orecchie.

Gianna e Sirio si incontravano a cadenza più o meno mensile. Era sempre lei a cercarlo. E ogni volta, benché Gianna si prefiggesse, mentre faceva il numero, di passare qualche ora a discorrere da buoni amici, invariabilmente finivano nudi sulla prima superficie più o meno morbida che si trovasse a portata di mano, un letto, un divano, una parete senza mobilio o il sedile reclinabile della Clio color melanzana di Sirio.

Andava avanti così da una decina d’anni, da quando lei, lasciata Genova e i genitori per iscriversi al primo anno di psicologia criminale, l’aveva conosciuto per i corridoi della facoltà.

Giovanotto atletico, il naso un po’ schiacciato alla Walter Chiari, la faccia da farabutto e gli occhi maliziosi, Gianna, notandolo la prima volta, era rimasta interdetta se ritenerlo uno studente di quelli che alla laurea non ci arrivano mai perché c’è un papà che paga le rette; ma l’abito azzurro, la cravatta intonata e i capelli castani tagliati corti e pettinati con cura l’avevano messa in dubbio si trattasse di un professore.

Aveva chiesto un po’ in giro. Così aveva scoperto che Urbani, un docente sessantenne, lo considerava una specie di genio, tanto da portarselo dietro se doveva risolvere una qualche consulenza in ambito investigativo.

Ce n’era d’avanzo per incuriosire una studentessa del primo anno.

   

Anche questa era finita come le altre volte. Cinque minuti a baciarsi nell’ingresso e le successive due ore a rotolarsi nel letto di Sirio. Così Gianna dei soldi non gliene aveva parlato. E dire che l’aveva chiamato appositamente per questo.

Le cifre a LED della sveglia sul comodino segnavano le tre e mezza.

Sirio nel sonno ebbe un’apnea di qualche secondo, le stropicciò contro le costole quella specie di naso di gomma che aveva e riprese a respirare con la testa appoggiata al suo seno.

Fra poco sarebbe dovuta andare. Sarebbe rientrato Emanuele, suo marito.

Con Emanuele l’amore era durato poco purtroppo.

Se ne era innamorata per così dire di slancio. Impressionata forse dal celeste degli occhi, dalla barba curata o dal biondo dei capelli, molto simile ai suoi; oppure da quel modo di parlare che aveva così rassicurante e persuadente.

Col tempo si era rivelato un autoritario e un accentratore. Le aveva sottratto spazio e interessi. E adesso, dopo quasi cinque anni, ciò che la opprimeva del matrimonio era il piattume, sì, quella specie di monotonia di svegliarsi alla stessa ora, spicciare le solite faccende. Ogni giorno sempre uguale, in definitiva. Ed Emanuele che rientrava al mattino, ti raccontava del capo reparto che era un fetente, giusto quattro parole, sempre più o meno le stesse, buttate lì di fretta per andarsene a dormire, perché aveva passato la notte a guidare il treno, e quando poi si svegliava per pranzo, se gli andava, ti trascinava nel letto per la sua personale razione di sesso… e il diversivo della giornata finiva lì.

Ogni tanto c’era Sirio. Lei lo cercava col proposito di parlarci e invariabilmente finivano a letto. Non che le dispiacesse, ma sentiva il bisogno di altro.

Una bella scarica di adrenalina, forse di questo aveva bisogno.

Gianna tese il collo. Le cifre a LED indicavano le quattro. Tempo di andare.

Sirio stava sempre con la testa sotto la sua ascella, il naso appoggiato al suo seno, quel suo naso che sembrava fatto di gomma, glielo strapazzò piano per non svegliarlo e si sciolse dall’abbraccio.

Rigirò le coperte, recuperò gli orecchini di Swarovski dal comodino e gli abiti dalla spalliera della sedia e si diresse in bagno a piedi nudi.

Le quattro e venti. Sirio dormiva nella stessa posizione di prima. Le dispiaceva svegliarlo. E doveva andare.

Della faccenda dei soldi gliene avrebbe parlato in un altro momento.

   

Nell’ambiente lo chiamavano il Dritto, che a Roma significa furbo. Che il vero nome fosse Roberto lo sapevano in pochi. Era nato nel ’66 in una casa che affacciava sulla via Prenestina, di fronte al quartiere del Quarticciolo. La strada faceva da confine.

Di là della strada aveva imparato come si ruba, si spaccia e si uccide. Di qua come essere anonimo. Adesso, a cinquant’anni, un paio di accoltellamenti mai scoperti, un inizio da protettore, svariati scippi e furti d’appartamento, aveva messo su una piccola organizzazione di spaccio e il tutto con ancora la fedina penale pulita e sconosciuto dal fisco. E per questo lo chiamavano Dritto.

Il Dritto occupava una casa popolare del Comune, ma messa su bene ed era soddisfatto di dov’era arrivato.

Erano quasi le due.

Appoggiato alla spalliera del letto si stava facendo una partita a poker sul tablet. Vinceva.

Il cellulare silenziato si illuminò sul comodino.

Roberto non si preoccupò di trattenere la voce, tanto Marta, che dormiva sul bordo del letto girata di spalle non la svegliavano nemmeno le granate di un attacco dei Marines.

Riconobbe il numero.

«Che succede?» chiese.

«Senti Robe’» attaccò la voce del Cioffo «non t’arrabbiare…»

Roberto si fece attento.

«Allora?» lo incitò, visto che non parlava.

«Ti volevo spiegare… per quella faccenda della consegna… mi ha telefonato Aldo, ce l’ha con me ma io i soldi li ho portati al treno come al solito…»

«Che soldi?»

«Glieli ho dati tutti… al ferroviere, come le altre volte. Tu mi conosci…»

Roberto bestemmiò.

Chiuse col Cioffo e chiamò subito Aldo.

«Ho sentito adesso il bolognese, farfugliava dei soldi, ma che… mi nascondi qualcosa?»

«Ah… Roberto, t’avrei chiamato… ma niente, niente, sistemo tutto in giornata…»

«E sarebbe? Spiegami un po’…?!»

«Be’, dentro allo zaino che m’ha passato il ferroviere i soldi non c’erano…»

«E dici niente!? Parliamo di centomila euro, mica di una lira…! Ma non avevi controllato?»

«Stavamo sul marciapiede della stazione Termini… un sacco di gente, poliziotti, quelli dell’antiterrorismo colle mitragliatrici… ci ho dato un’occhiata come al solito, sopra c’erano soldi… invece sotto…»

«Tutte chiacchiere» Roberto era furioso «quello che so io è che i soldi se li è fregati uno di voi tre, o il bolognese, o il ferroviere o tu.»

«No, io no. Ma che, sospetti pure di me?»

«È stata tua questa bell’idea di far fare i trasporti al ferroviere. Adesso sbrogliatela e riportami i soldi miei.»

«Be’, per un anno ti è andata più che bene mi pare, hai risparmiato bei quattrini su ogni viaggio; consegne in giornata e niente rischi, niente cani antidroga, niente posti di blocco, niente corrieri che spariscono coi soldi o la polvere…»

Aldo stava quasi urlando e Roberto sibilò: «I miei soldi sono spariti mi pare…»

«Ma questo ferroviere mica è del giro, mica se ne scappa in Brasile; questo ci ha una casa e una moglie… e dove scappa? I soldi me li ridà. Ci vado io a casa sua e me li faccio ridare.»

 

Gianna come ogni volta era uscita senza svegliarlo. Sirio si avvicinò alla finestra. Fuori un nebbiasco denso nascondeva il prato e le case al di là della strada. Doveva essere in facoltà per le undici ed erano le otto, aveva tutto il tempo per un’oretta di footing e una doccia; indossò tuta e scarpe sportive e il K-way incerato. Il piccolo cancello in fondo al vialetto, al solito era aperto, perché la molla di richiamo era rotta. Uscito sul marciapiede tirò il cappuccio sulla testa e prese in direzione del parco comunale. Seguiva sempre lo stesso percorso, e incontrava più o meno le stesse persone. Due donne sulla sessantina che in tenuta ginnica procedevano a passo veloce chiacchierando fra loro, per lo più di ricette di cucina; l’addetto comunale col carrettino che vuotava i cestini dei rifiuti, l’altro che ramazzava le foglie; l’anziano col colletto del cappotto tirato sopra le orecchie e il cappello stile borsalino che camminava adagio e incitava il cagnetto bianco; la ragazza atletica dalle lunghe falcate che nell’incrociarlo gli sorrideva sempre.

Nelle mattinate nebbiose i rumori si diffondevano trattenuti, come nell’ovatta. Le voci delle due sessantenni affiorarono assieme alle loro sagome annebbiate; gli addetti del comune rimanevano ombre silenziose emerse e riassorbite; lo scricchiolio della ghiaia calpestata dalla ragazza atletica si confuse con quello prodotto da Sirio.

Il timer gli segnalò che era tempo di rientrare e Sirio imboccò il viale centrale che conduceva all’uscita.

Fuori dal parco la nebbia si era alzata, un quattro o cinque operaie col camice grigio che sporgeva da sotto le giacche a vento o i cappotti pedalavano verso lo stabilimento che sorgeva poco più avanti. Un furgone azzurro col portellone posteriore spalancato sostava davanti al negozio di generi alimentari, il garzone trasportava all’interno le ceste del pane; automobili ben poche. Sirio svoltò nella traversa in direzione di casa e accanto gli sfilò una Smart azzurra col tettuccio verniciato di rosso. Sirio lesse la targa.

La Smart di Gianna!

Il furgone bianco della Ford sopraggiunse subito dopo. Accelerò fino a speronare la Smart e la sospinse contro le auto in sosta.

La scena che seguì si svolse in pochi secondi. Dal furgone saltò a terra un giovanotto in calzoni e giubbotto jeans, spalancò lo sportello della Smart e tornò di corsa impugnando le cinghie di uno zainetto scolastico nero. In quel breve tragitto guardò nello zainetto e lo gettò a terra. Salì al posto di guida, manovrò per districarsi e accelerò lasciandosi dietro una scia scura di gasolio bruciato.

Pochi secondi. Come se il mondo attorno si fosse fermato. Sirio mandò a mente il numero di targa del furgone bianco e corse verso la Smart di Gianna.

Il corpo, in quel che rimaneva della piccola autovettura, era schiacciato tra lo schienale e lo sterzo. Un ciuffo di capelli biondi affiorava dall’airbag esploso. Vi si intravvedeva un minuscolo orecchino di Swarovski. Il taglio lungo il collo al disotto della barba non era compatibile con l’incidente, ma con la lama di un coltello sì.


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giovedì 10 dicembre 2020

L'intrusa - Racconto

 




L’intrusa

 

 

 

La signora Annamaria Siniboldi Castigliano in Ramino si spense serenamente nel proprio letto all’età di centodue anni alle prime ore dell’alba del venti di aprile, giorno della Pasqua di Resurrezione.

Le due badanti di nazionalità romena che l’accudivano amorevolmente da svariati anni, Alina e Catinca giurarono in lacrime che fosse ancora calda, quando si erano recate come ogni mattina alle otto per accudirla. Disperate, dovevano aver svegliato il marito, il senatore Mario Ramino, perché se l’erano visto entrare nella stanza in pigiama. A questo punto, benché la notizia non fosse giunta del tutto inattesa stante l’età della Siniboldi Castigliano, si innescarono un susseguirsi di eventi, alcuni sì pianificati secondo il buon senso e l’uso comune, altri non del tutto scontati e prevedibili, per non dire sconvolgenti.

La signora Siniboldi Castigliano, nata nel 1912, era stata donna bellissima, di nobili natali, dalla vita intensa, dinamica, per certi versi frenetica. Il suo primo marito, il pittore francese Jean Philippe Christianne, di vent’anni più grande, durante un soggiorno a Forlì l’aveva notata e voluta, procace sedicenne, dapprima per modella, subito dopo in moglie.

Matrimonio felice ma breve il loro. La primogenita Corinne di cinque anni, il piccolo Giacomo ancora in fasce, e Jean Philippe se n’era andato, portato via da una polmonite fulminante.

Annamaria aveva amato intensamente Jean Philippe; e la sua natura romantica l’indusse a considerare, malgrado all’epoca avesse appena ventiquattro anni, che quando fosse giunto il suo momento avrebbe voluto riposargli accanto. Così aveva avviato le procedure per la costruzione di una cappella funeraria e conosciuto Ettore Vianotti, architetto giovane ma ambizioso, dotato di indubbia genialità, messosi alacremente all’opera. L’architetto Vianotti le propose alcune soluzioni, tutte assai valide, per il futuro monumento funebre e il susseguirsi degli incontri per discutere il progetto sfociarono, quasi come le acque di un placido fiume nelle acque burrascose dell’oceano, in una passione incontrollabile; tant’è che Ettore e Annamaria convolarono a nozze nel 1939, giusto a tempo per mettere al mondo Benito e Rosa, prima che Ettore venisse chiamato a combattere sul fronte russo.

La costruzione della cappella – un monumento elegante col tetto a falde e sul frontone il bassorilievo di un angelo che scendeva in volo a confortare le anime dei trapassati – venne completata a tempo per accoglierlo alla fine del conflitto mondiale.

Dal suo terzo e attuale marito, il senatore Mario Ramino, di ben vent’anni più giovane, questo, l’Annamaria Siniboldi Castigliano non ebbe figli, accogliendo comunque amorevolmente Marco, nato dal primo matrimonio del senatore.

Ora, il venti di aprile, giorno della Pasqua di resurrezione, alla sua morte, la Siniboldi Castigliano lasciava un patrimonio considerevole in immobili locati e titoli di Stato, oltre all’appartamento di pregio che abitava in centro di Forlì; patrimonio equamente ripartito fra tutti gli aventi diritto così come disposto da documento testamentario redatto innanzi a notaio in piena facoltà di intendere e volere.

Le peripezie, anche drammatiche, che sopravvennero alla sua dipartita, non furono quindi da imputare a incuria o negligenza, ma a una casualità sconcertante e del tutto fortuita.

 

 

 

L’ottantaduenne senatore dormiva nella stanza attigua. Si svegliava ogni mattina intorno alle sei ma si attardava ad ascoltare i rumori e le voci delle due badanti che accudivano sua moglie filtrate dai muri. Poi l’andava a trovare, poiché la lucidità di pensiero non aveva abbandonato la Siniboldi Castigliano, e parlottavano un po’.

Quella mattina le grida e i pianti che gli pervennero attraverso la parete divisoria furono più che eloquenti. In pantofole e pigiama entrò nella stanza accanto. Annamaria, era ormai trapassata. Pallida e serena aveva infine trovato riposo dalla sua lunga intensa esistenza terrena. Ora c’era da attivare tutte quelle procedure che tante volte avevano pianificato assieme, quelle che fra loro avevano sempre chiamato le tre telefonate.

Il senatore aveva baciato sua moglie sulla fronte e si era ritirato nello studio.

Per primo aveva informato don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia in Forlì affinché intervenisse per l’ultimo Sacramento; poi suo figlio Marco perché estendesse la notizia ai figlioli di Annamaria e parenti tutti; infine la premiata ditta F.lli Taburri, con la quale erano stati presi accordi, Annamaria vivente, circa l’ultima cerimonia e l’allestimento della dimora finale.

 

 

 

Daniel Mihalake, cinquantatre anni, nativo di Slobozia, Romania, trasferitosi a Forlì da clandestino nel 1996, era un uomo felice. Faceva parte di quella schiera dell’umanità che, dopo averne passate tante e trovata infine una certa tranquillità, ebbene questa tranquillità la apprezza. Lavorava per la Zanzini Marmi e il ventidue aprile, insieme al giovane Florin, suo compaesano, ma immigrato in tempi recenti, avevano l’incarico di rimuovere la lastra provvisoria del loculo vuoto.

Daniel conosceva perfettamente il cimitero e non ebbe difficoltà a trovare la cappella. Appoggiarono le borse con gli attrezzi e si accomodarono sui gradini. Erano le dieci, un solicello gradevole illuminava l’angelo a volo radente scolpito sul prospetto e loro due a quell’ora facevano colazione. Scartarono i panini imbottiti e stapparono le birre.

Fra loro parlavano rumeno.

«Lo senti questo odore!?» disse Florin arricciando il naso, dopo aver dato il primo morso.

Daniel annusò l’aria: «Non sento niente».

Florin disse: «Di cadavere».

Anche Daniel l’individuò. E gli venne da pensare che nel cimitero quell’odore mai l’aveva avvertito. A bordo cunetta di qualche strada campestre la carogna d’un cane travolto da un’auto l’aveva a volte fatto deviare, ma nel cimitero mai. Comunque fece spallucce e sollecitò il ragazzo a sbrigarsi.

Entrarono nella cappella.

La lastra da rimuovere era quella centrale sul lato destro rispetto all’ingresso, di fronte al piccolo altare, la terza dal basso. La signora Annamaria Siniboldi Castigliano aveva riservato a se stessa il posto centrale, gli altri tutti occupati, tranne quello a fianco, destinato al senatore. Sarebbero stati tutti vicini, lei e i suoi tre mariti, una grande serena famiglia allargata. Dei figli, all’epoca, non si era preoccupata.

Il capo squadra si era raccomandato. La lastra era da rimuovere intera. Quindi i due operai si misero all’opera. Ma appena la smossero, il tanfo tolse loro il respiro. Mollarono la presa e il marmo gli sfuggì fracassandosi. La nicchia doveva essere vuota, invece, nella penombra, videro dapprima la massa dei capelli di un rosso violento, innaturale, poi, più che vederli, indovinarono i volumi pallidi indistinti della schiena e delle natiche che affioravano dal gioco d’ombre là in fondo.

Uscirono correndo, schiacciati dalla visione e dal fetore insopportabile. Il giovane Florin si accasciò per vomitare; Daniel, appoggiatosi a una croce, inspirò aria più volte per potersi riprendere. Poi chiamò il capo squadra col cellulare.

 

 

 

Angelo Taburri, contitolare assieme al fratello Santo dell’omonima premiata ditta di onoranze funebri, appena informato via telefono dal capo squadra della Zanzini Marmi circa l’incredibile ritrovamento di un cadavere nella tomba, fattosi convinto, dal tono e dalla concitazione dell’interlocutore che non trattavasi di uno scherzo, si affrettò a sua volta a comporre, nell’ordine, i numeri telefonici del pronto intervento delle Forze dell’ordine, del senatore Mario Ramino, che però non era raggiungibile in quanto assorbito dalla Funzione d’addio alla di lui consorte nella chiesa di santa Lucia, e del parroco don Pasquino Bonsangue, il quale, impegnato a commemorare le innumerevoli doti morali, in vita, della defunta, non rispose.

A questo punto che fare?

Telefonò al più anziano tra i portantini e a seguire agli altri. Ma, a quanto sembrava, la chiesa di santa Lucia si trovava in un cono d’ombra dei ripetitori telefonici e gli fu impossibile avvertire.

Ecco dunque che il corteo funebre, ignaro, lasciò la chiesa e si avviò per il cimitero. Vi giunse coi rintocchi di mezzogiorno, e fu non poco lo sconcerto allorché si fece incontro al feretro il maresciallo dei carabinieri Luigi Indaga col braccio levato a intimare l’alt. Altri due militari stavano a lato della porta della cappella dei Siniboldi Castigliano, quasi un picchetto d’onore. Sulle prime Mario Ramino sospettò una qualche forma di iniziativa istituzionale apprestata per riguardo alla propria funzione senatoriale; oppure a una celebrazione cittadina in ossequio alla ultracentenaria nobildonna Annamaria Siniboldi Castigliano; d’altra parte, le parole del maresciallo Indaga furono nient’affatto chiarificatrici: «Fermi là. Nessuno può entrare. La Cappella è sotto sequestro».

 

 

 

L’avvio della carriera politica del senatore risaliva alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, allorché poco più che ventenne si era iscritto all’allora partito di maggioranza. Da buon diplomatico aveva saputo barcamenarsi nei vari scenari e tenersi a galla durante gli sconvolgimenti della vita politica italiana; aveva conosciuto gli anni incerti del dopoguerra, apprezzato la stabilità indotta dal boom economico degli anni sessanta, trepidato per le gambizzazioni brigatiste degli anni settanta, osservato senza toccarla la pece untuosa della corruzione e assistito agli scandali affiorati nel periodo di Tangentopoli, fino a giungere agli attuali stravolgimenti della seconda repubblica. Non aveva posseduto l’irruenza del condottiero e nemmeno la sudditanza del portaborse; dato sempre ragione a tutti e criticato nessuno. In vetta non ci si era arrampicato; qualche volta si era lasciato tirare, altre volte qualcuno l’aveva sospinto. Se non aveva brillato, nemmeno era mai rimasto completamente nell’ombra.

Ormai da qualche anno, sebbene la sua funzione politica non avesse decadenza, conduceva vita da pensionato, limitando i viaggi a Roma a quelle rare occasioni in cui la sua presenza era ritenuta indispensabile dal partito.

Alle due di pomeriggio del ventidue aprile, superato l’iniziale disappunto alla vista dei carabinieri che sbarravano la strada al corteo, viste vane le proteste e trattenuta l’ira, si era sottomesso a ricoverare le spoglie di Annamaria nel deposito cimiteriale. Dopo di che, accomiatatosi da parenti e amici sconcertati, forte della propria influenza politica si era ritirato nello studio e messo mano all’apparecchio telefonico. Esigo, era stato l’intercalare che aveva contrassegnato ogni telefonata.

 

 

 

Alle ore diciotto del ventitre aprile, nel soggiorno a terzo piano di palazzo Siniboldi Castigliano, il senatore Mario Ramino era l’unico in piedi. Su uno dei divani sedevano nell’ordine, il colonnello dei carabinieri Antonio Cercabene, il maresciallo Luigi Indaga, il giudice per le Indagini preliminari Matteo Orripilante e il Pubblico Ministero Gaetano Lamartana; sull’altro, don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia, l’avvocato Osvaldo Girovenale, legale di fiducia del senatore, il professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico; il quale era intervenuto assieme al collaboratore Sirio Bonanni, un giovanotto con la faccia da pugile di borgata.

«È spaventoso» esclamò il senatore, trattenendo le gambe dal rimettersi a camminare avanti e indietro come aveva fatto sinora «mi state dicendo che nel loculo destinato a mia moglie è stato rinvenuto il cadavere di una prostituta… e senza niente addosso?»

«Purtroppo è così» rispose il giudice Gaetano Lamartana.

«E come c’è finita lì dentro?» insistette il senatore.

Gaetano Lamartana esitava.

«Veramente…» accennava al professor Urbani e a Sirio cercando di non farsi notare dagli interessati; i quali sedevano sul divano contrapposto «il segreto istruttorio…»

«Ma quale segreto…» esplose il senatore «il professor Urbani ha tutta la mia fiducia ed è qui per mia richiesta. Esigo che ascolti e che prenda parte alle indagini.»

A testa bassa Lamartana lanciò uno sguardo furtivo in direzione del collega Orripilante e del colonnello Cercabene. Il fatto che entrambi evitassero di guardarlo l’interpretò come un’autorizzazione a procedere.

«Quand’è così» disse «lascio la parola al maresciallo Indaga.»

Tutte le teste si voltarono verso il maresciallo, che si schiarì la voce:

«Senatore, mi scuso per quanto accaduto nella giornata di ieri, ma nel momento in cui sopraggiungeva il corteo funebre erano in corso gli accertamenti del medico legale, nonché i rilievi dei tecnici della Scientifica. Abbiamo dato il massimo impulso alle indagini e identificato il cadavere occultato nel loculo. Non fosse stata la concomitanza del funerale sarebbero forse passati anni prima che venisse scoperto, e a quel punto sarebbe risultato pressoché impossibile il riconoscimento. Invece, a una settimana dalla morte, tramite le impronte digitali è stato possibile risalire all’identità della sventurata. Trattasi di Ajkina Glioshci, di nazionalità albanese, trentadue anni, più volte fermata per prostituzione. È stata pugnalata ripetutamente con un coltello a serramanico sul quale, oltre a tracce di sangue della vittima c’erano le impronte dell’assassino, che è stato prontamente individuato e tratto in arresto. Si tratta di tale Alessandro Pastone, vent’anni, esercente, insieme al padre, uno dei chioschi di fiori antistanti il cimitero».

«Questo significa» si intromise l’avvocato Girovenale «che il caso è chiuso e potete dissequestrare e rendere agibile il Monumento funerario della famiglia Siniboldi Castigliano…!?»

«Certamente!» esultò il giudice Lamartana.

«Ha sentito don Pasquino» fu felice il senatore «finalmente potremo accompagnare Annamaria alla sua ultima dimora.»

«Quanto pesa questo giovanotto?» chiese Sirio.

«Prego…? Come…? Cosa…?» gli venne chiesto da più parti. Giudici e carabinieri lo fissavano indignati.

«Alessandro Pastone, il fioraio arrestato, quanto pesa?» ripetette Sirio.

«Bah…» il maresciallo incassava la testa nelle spalle, storceva la bocca «sui sessanta chili.»

«Pochi, per uno che avrebbe rimosso la lastra di marmo che faceva da coperchio alla tomba, sollevato il corpo senza vita di Ajkina… quanti… cinquanta…? sessanta chili anche lei? Fino a oltre un metro di altezza, e infine ricollocato la lapide.»

Il giudice Lamartana voleva tagliar corto. Come si permetteva questo ragazzino!?

«Avrà avuto un complice, magari il padre…»

Sirio non sembrò aver rilevato l’interruzione: «Senza contare il sangue freddo necessario… Risultano precedenti penali a suo carico?»

Il giudice Lamartana si sentì investito in prima persona e prese la parola: «Del tutto sconosciuto fino a oggi… Ma che c’entra?!»

«C’erano le loro impronte, dell’uno o dell’altro, sul marmo o comunque nella cappella funeraria?»

«Ma no, ma no… E questo che vuol dire? Le avranno pulite, è ovvio. Qui i riscontri probatori sono inequivocabili. Il giovane fioraio aveva intrattenuto rapporti sessuali con la Ajkina proprio la sera in cui è stata uccisa, come appurato dalle tracce del DNA ritrovate in fase di esame autoptico; l’arma del delitto, il coltello a serramanico, recava le sue impronte; abbiamo la testimonianza di altre due prostitute che li hanno visti assieme; e nel furgone del fioraio, verosimilmente utilizzato per accedere al cimitero senza destare sospetti, c’erano tracce del sangue della vittima; a noi bastano le prove, le speculazioni non ci interessano, caro signore.»

«Impronte digitali nel furgone?»

«Solo dell’imputato e del padre… Recenti, dice la Scientifica…»

«In che senso recenti? Il furgone era stato lavato?»

«No, lavato no. Volante e maniglie strofinati…»

«Come per cancellare le impronte?»

«Forse. O forse semplicemente per una pulizia sommaria. Non ravvedo alcuna importanza in questa cosa.»

Il senatore voltava la testa da Sirio a Lamartana quasi assistesse a una partita di tennis.

Adesso la battuta era a Sirio: «Dov’è stato trovato esattamente il coltello? Era nascosto?»

Lamartana, adesso, era spazientito: «Nascosto? Fai tu. Stava nello spazio tra il sedile e la leva del cambio».

«Quindi nell’abitacolo; e non dentro al cassone. E sui sedili… tracce di sangue?»

«No, no… niente.»

«Strano, le pare?»

Lamartana era irritato: «Perché strano. L’avrà uccisa fuori e poi caricata nel cassone, dove invece c’erano le tracce del suo sangue».

«E per tornare all’arma. Queste impronte… erano sull’impugnatura?»

Lamartana sbuffò: «No. Su alcune lame. Il manico era stato pulito».

«Incredibile. Ha ripulito dalle impronte l’arma del delitto, il proprio coltello, per poi lasciarlo nel proprio furgone! Come fare un tratto di penna sul proprio autografo per renderlo invisibile…»

«Adesso basta» Lamartana batté la mano sul bracciolo del divano «non permetto a chicchessia, ancor più a uno studentello di serie C di criticare l’operato dei magistrati e delle forze dell’ordine.»

Sirio scosse la testa.

«Ma allora perché?» disse come a se stesso.

«Perché cosa?» domandò il senatore.

«Perché un fioraio ventenne di cinquanta chili dovrebbe pugnalare una prostituta albanese, caricarne il corpo sul proprio furgone e nasconderlo in una tomba vuota? Insomma, quale sarebbe il movente?»

Il giudice Lamartana si agitò e mosse per aria le mani come a dire ma falla finita!

Invece il senatore insistette: «Già, perché?»

Siccome il Pubblico ministero si era ritirato braccia conserte, rispose il maresciallo Indaga, rivolgendosi direttamente al senatore.

«Si verificano in continuazione alterchi e risse in quell’ambiente, per i motivi più svariati e spesso futili… il cliente insoddisfatto che non vuol pagare, la mercenaria che rifiuta prestazioni particolari o pretende troppo… Che importanza può avere? E poi non dimentichiamo le testimonianze di due altre prostitute che li hanno visti assieme, l’Ajkina con Alessandro Pastone, appartati nel furgone da fioraio. Infine posso dirvi che il ragazzo è disturbato…»

Il maresciallo si picchiettò la tempia: «Ha comportamenti a dir poco stravaganti. Al momento dell’arresto si dibatteva e urlava; in pratica finora non siamo riusciti a interrogarlo, ha scatti d’ira senza controllo. Può essere stato uno scatto di questi a fargli pugnalare l’Ajkina. Mi sembra del tutto inutile cercare un movente che abbia un senso».

Detto questo si alzò; prontamente imitato dagli altri del suo schieramento-

«Senatore…» salutarono a turno. Porsero la mano agli ospiti del divano opposto, tutti tranne Lamartana, che si finse occupatissimo a lisciarsi le sgualciture della giacca. Il senatore li accompagnò alla porta.

 

 

 

Alle undici di mattina di giovedì ventiquattro una Mercedes GLC azzurra tirata a lustro entrò nel parcheggio antistante il cimitero a bassa velocità. I chioschi dei fiorai erano allineati sulla sinistra; il sole proiettava le ombre allungate degli alberi sulle pareti di lamiera e sull’asfalto. La Mercedes accostò al marciapiede e l’avvocato Osvaldo Girovenale spense il motore.

La sera precedente, usciti gli altri ospiti, il senatore aveva pregato don Pasquino, l’avvocato Girovenale, l’amico Urbani e il suo giovane assistente Sirio Bonanni di trattenersi ancora un po’. Appariva provato.

«Ho bisogno di qualcosa di forte» aveva detto svitando il tappo a una bottiglia di Johnnie Walker Black. Ne aveva versato dosi abbondanti in cinque bicchieri e li aveva distribuiti agli ospiti.

«Tutta questa faccenda mi ha sconvolto.»

Aveva detto, dopo un lungo sorso. Quindi si era rivolto a Urbani:

«Anselmo, mi sembra di capire che tu e il tuo assistente siate scettici sulle conclusioni che concernono l’assassinio della… Ajkina…?»

Urbani aveva sorseggiato il whiskey e sollecitato Sirio con lo sguardo.

«Ci sono delle incongruenze che meriterebbero di essere indagate» disse Sirio.

Il senatore faceva rotolare il bicchiere fra i palmi delle mani.

«Trentadue anni» sembrava parlasse tra sé «l’età di mia nipote, una ragazzina in definitiva… Non fosse per la coincidenza incredibile del funerale di Annamaria, sarebbe rimasta dentro quella tomba chi sa quanto, dimenticata, senza più nemmeno un nome. Forse è il momento drammatico che sto vivendo, però mi sgomenta tutto questo.»

«Si tratta di un sentimento di cristiana carità. Comprensibilissimo» affermò don Pasquino torcendosi le mani.

«Ho deciso» disse il senatore. Si rivolse al professor Urbani: «Anselmo, sei uno studioso di criminologia, conosco le tue qualità investigative e siamo amici da tanto tempo, vorrei che andassi a fondo in questa indagine».

Urbani assentiva con la testa: «Certo, certo… Ma avremo bisogno di ufficialità».

Il senatore corrucciò la fronte: «Vale a dire?»

«La legge italiana» disse il professor Urbani spostandosi al bordo del divano «consente alla difesa di svolgere indagini. Capisce bene che nessun cittadino è autorizzato ad andare in giro a far domande… Ma potremmo se rappresentassimo l’accusato.»

«Il giovane fioraio? Voi siete convinti che non sia colpevole?»

«Ravvisiamo fondati dubbi» rispose Sirio «non è un pregiudicato, difficile credere possa aver avuto il sangue freddo di pugnalarla e subito dopo andare a nasconderla in una tomba. Un occultamento così fantasioso stona con l’ipotesi di un omicidio a caldo, per come ce l’ha illustrato il giudice Lamartana. A sentir lui, al di fuori di una qualsiasi motivazione plausibile, il giovane fioraio l’avrebbe pugnalata in un impeto d’ira incontrollabile. Ma, se così fosse l’avrebbe dovuta abbandonare lì dov’era e sarebbe scappato. Invece si ravvisa del sangue freddo in ogni circostanza. Le impronte cancellate sull’impugnatura del coltello, e poi il fatto che la vittima sia stata denudata. Tutto fa ritenere che l’assassino si sia prodigato di occultare qualsiasi traccia potesse far risalire alla sua identità e lasciato invece ben visibili quelle che rimandavano al giovane fioraio. Perché? L’accortezza di qualcuno abituato a muoversi nel torbido, abituato a ingegnarsi di rimanere nascosto, sarei propenso a ritenere. Ma per toglierci ogni dubbio e farci un’opinione obiettiva sarebbe utile incontrarlo, questo Alessandro Pastone.»

«Ah… capisco… E come si può fare?»

L’avvocato Girovenale si schiarì la voce: «Se io fossi il legale di Alessandro Pastone tutto sarebbe consequenziale».

«Giusto. Mi sta bene. Procediamo in questo senso. Resta inteso che mi farò carico dei costi relativi.»

«Perseguire la verità è un atto cristiano» aveva aggiunto don Pasquino «è il fondamento della giustizia: la verità.»

 

 

 

«Ecco, dovrebbe essere quello» disse il professor Urbani.

Il banco dei fiori era il terzo della fila, dal lato verso le campagne. Poche altre vetture sostavano nel parcheggio, qualche donna attraversava la strada per dirigersi al cancello monumentale del cimitero.

La mole considerevole dell’avvocato Osvaldo Girovenale, intorno alle undici di giovedì ventiquattro aprile, sbarcò dalla Mercedes GLC azzurra tirata a lustro e si avviò verso il chiosco, seguito dal professor Urbani e da Sirio.

Il fioraio, un uomo stempiato intorno al metro e cinquanta che indossava un camice grigio, smise di riordinare i vasi sulla rastrelliera e mosse un passo incontro ai visitatori.

«Lei si chiama Duilio Pastone?» esordì l’avvocato Girovenale.

Il fioraio tese la mano: «Sì… e voi…?»

L’avvocato si presentò e presentò il professore e Sirio: «Vorremmo scambiare qualche parola».

«A che proposito?»

«Circa l’arresto di suo figlio, o meglio, pianificare una linea di difesa. Ma non qui, in mezzo alla strada. Le dispiacerebbe seguirci?»

Con l’espressione confusa Duilio Pastone tolse il camice grigio e l’appoggiò alla rastrelliera, quindi informò la donna del gazebo accanto che si allontanava e li seguì.

Trovarono posto  a un tavolino esterno sotto il tendone di un bar.

L’avvocato raccontò del funerale interrotto e della decisione del senatore di affidare al professor Urbani, valente criminologo, e al suo assistente, l’incarico di svolgere indagini per conto della difesa.

«Come mai questo senatore si preoccupa della sorte di mio figlio?» chiese il fioraio.

«Il ritrovamento del cadavere della ragazza assassinata all’interno della tomba destinata alla moglie l’ha scosso e non è convinto della colpevolezza di suo figlio» spiegò l’avvocato.

«Alessandro è innocente» protestò Duilio Pastone.

Sirio disse: «Ne siamo tutti persuasi, e lei deve aiutarci a dimostrarlo. Ci parli di lui e dei suoi rapporti con la ragazza, Ajkina».

«Alessandro è un ragazzo semplice» disse Duilio Pastone «il suo corpo ha vent’anni ma la testa è rimasta a quando ne aveva dieci, undici. Semplice. Ajkina l’aveva preso in simpatia. Si fermava sempre quando passava di qui. Smontava dalla bicicletta e si mettevano a chiacchierare… e ridevano. A me faceva piacere. Li stavo a guardare ed ero felice della felicità di mio figlio. Un po’ mi illudevo che fosse un giovanotto normale, che sta dietro alle ragazze e le corteggia… quasi ci fosse la possibilità che un giorno trovasse quella giusta da sposare. Certe volte mi chiedevo perché lo facesse Ajkina. Sì, va bene, la simpatia nei confronti di Alessandro… Ma non basta. Penso piuttosto che si sentisse di fare una cosa pulita, nell’abbrutimento del suo mestiere, una specie di redenzione, o di penitenza. Quel giorno se ne sono andati col furgone, come faceva qualche volta Ajkina, che si metteva al volante – perché Alessandro sa guidare, come tanti ragazzini di dieci anni, ma non gli danno la patente – e se l’è portato nella boscaglia, lungo la strada più avanti del chiosco. Sono tornati… ma non allegri come le altre volte… non so… comunque Ajkina poi è andata via a lavorare e io con mio figlio, visto che ormai erano più o meno le sette di sera, siamo rincasati.»

«Col furgone?» chiese Sirio.

«No, abitiamo a circa un chilometro. Il furgone lo lasciamo sempre al parcheggio e ci spostiamo con le biciclette.»

«Il furgone l’avete lasciato e ritrovato chiuso?»

«Credo di sì… Non ci ho fatto caso, non ricordo. È passata una settimana.»

«Lo sa che i carabinieri hanno trovato tracce del sangue di Ajkina nel furgone?»

«No. Non ne sapevo niente. Si sono presentati ieri intorno alle tre del pomeriggio e si son portato via il furgone, sequestrato, hanno detto, ma di questo fatto del sangue non ne sapevo niente. Una vettura con a bordo due carabinieri è rimasta nel parcheggio davanti al nostro chiosco e un paio d’ore più tardi è venuto un maresciallo e ha caricato Alessandro… per accertamenti, così ha detto, e se lo son portato via ammanettato. Alessandro strillava di paura e io li ho seguiti fino alla caserma e ho aspettato finché non mi hanno cacciato via a mezzanotte; poi ci sono tornato stamattina presto, ma nessuno mi ha spiegato né perché né percome. E questo è tutto.»

«A me dovranno spiegare» disse l’avvocato Girovenale «e come se dovranno.»

Sirio riprese: «Alessandro aveva un coltello a serramanico?»

«Sì, a più lame, come questo» Duilio Pastone lo cavò di tasca e sfilò un paio di lame «lo usiamo sul lavoro, al chiosco dei fiori e anche in campagna.»

«Quello di Alessandro dov’è?»

«Non saprei… perché me lo chiede?»

«L’hanno trovato i carabinieri nel vostro furgone, e ci hanno trovato le impronte di Alessandro e il sangue della vittima.»

«Le impronte di mio figlio è ovvio che ci fossero: era suo…! Ma allora è per questo che l’hanno arrestato? No, no, impossibile, sono pazzi se credono che l’ha uccisa lui.»

Sirio aggiunse: «Duilio, Ajkina si confidava con voi? Può dirci se aveva un protettore, delle amiche… qualche particolare della sua vita privata?»

«Mi era simpatica quella ragazzina, sorridente, allegra… un po’ chiassosa, anche, ma chiacchierava di frivolezze, di sé stessa mai. Una volta gliel’ho chiesto io, se non aveva paura, di notte, a incontrarsi con degli sconosciuti… e lei s’è messa a ridere. So difendermi, ha detto. E quindi no, non credo avesse un uomo del genere, anche perché arrivava e se ne andava da sola, con la bicicletta… No, no, nessuno.»

Duilio Pastone fece dei ghirigori col dito sul tavolo.

«Una volta» disse «la borsetta l’aveva dimenticata aperta. All’interno ho visto una pistola, piccola, col calcio bianco… Ecco, questo… Ma non mi viene a mente nient’altro.»

 

 

 

La caserma dei carabinieri capitanata dal maresciallo Luigi Indaga era una palazzina a due piani circondata da un cortile recintato. Nel proprio ufficio a primo piano il maresciallo disse Avanti! e guardò l’orologio.

«L’una precisa, che puntualità» sorrise al giudice per le indagini preliminari Matteo Orripilante, mentre il brigadiere apriva per lasciar passare l’avvocato Girovenale, i due consulenti della difesa e Duilio Pastone.

Il pubblico ministero Gaetano Lamartana brillava per la propria assenza.

L’incontro era stato fissato sin dal mattino, per cui l’avvocato Girovenale, dopo un rapido scambio di strette di mano, sollecitò di procedere subito all’interrogatorio.

«Ho qualche perplessità circa la presenza del signor Pastone» disse il giudice.

«La sua presenza è indispensabile» insistette l’avvocato «ai fini procedurali la consideri un incidente probatorio. Mi spiego, l’imputato è affetto da ritardo mentale lieve…»

«Non ne so niente. Agli atti non risulta…»

«Si tratta, ripeto, di ritardo mentale di lieve entità, e la presenza del padre non può che risultare utile ai fini dell’interrogatorio dell’imputato. Lo consideri un testimone, se preferisce. Sono certo che il Senatore…»

«Va bene, va bene, ho capito» tagliò corto il giudice «procediamo. Ma si ricordi avvocato, che ne effettueremo la registrazione audiovisiva.»

«Certamente…»

Si avviarono lungo il corridoio, in fila indiana dietro al maresciallo Indaga, fino alla stanza degli interrogatori. Prima di entrare, attraverso il cristallo unidirezionale, osservarono l’imputato all’interno, seduto a un tavolo a centro stanza, ammanettato. Un brigadiere, in piedi accanto alla porta, lo sorvegliava.

Il giovane Alessandro Pastone, barba folta nera e capelli crespi aveva la corporatura esile del padre. Teneva lo sguardo fisso sul ripiano del tavolo.

«Perché ha le manette?» chiese l’avvocato.

«Ve l’ho detto, ha scatti d’ira improvvisi. È una precauzione necessaria.»

«Gli faccia togliere le manette prima che entriamo. Ne rispondo io» disse l’avvocato Osvaldo Girovenale; il giudice Matteo Orripilante fece un cenno affermativo al maresciallo che si avvicinò al microfono e impartì l’ordine al brigadiere nella stanza al di là del cristallo.

Appena Duilio Pastone varcò la soglia suo figlio gli si gettò tra le braccia: «Papà». E si mise a piangere. Un ventenne con la barba folta che piangeva come un bambino di undici anni.

Con parole e carezze Duilio riuscì a calmarlo e sedette accanto a lui. Gli altri occuparono delle sedie pieghevoli attorno al tavolo, Sirio all’altro lato di Alessandro.

«Questi signori» disse Duilio al figlio «ti debbono fare delle domande.»

Alessandro, a occhi bassi, si guardò attorno imbronciato, con la testa appoggiata alla spalla del padre: «Perché?»

Duilio Pastone si guardava attorno smarrito.

Intervenne Sirio: «Tu vuoi bene ad Ajkina?»

Alessandro si riscosse, gli occhi trovarono luce: «Ajkina? Certo, lei mi ama».

«Bene» disse Sirio «puoi raccontarci che è successo nel bosco l’ultima volta?»

«Lei rideva» disse Alessandro «era felice, era tanto felice. Perché era l’ultima volta che ci vedevamo, perché doveva tornare a casa sua in Albania…»

«Ah…» s’intromise il giudice Orripilante «e tu ti sei arrabbiato e l’hai picchiata…»

«Per favore…!» intervenne l’avvocato Girovenale.

Sirio parlò ad Alessandro col tono che si usa con una ragazzino:

«Rispondi al signore, ti sei arrabbiato?»

«No. Ajkina era contenta e siccome era contenta anch’io ero contento.»

«E poi cos’è successo?» ha chiesto ancora Sirio.

«Ajkina rideva e diceva che il suo paese è sopra una montagna e d’inverno nevica sempre. Quando era piccola suo padre se la metteva sulle spalle e salivano fin sopra alla montagna. E nello zaino suo padre metteva i panini e il plaid, e quando arrivavano in cima facevano il picnic e poi giocavano a rincorrersi o a nascondino. Lei si ricordava queste cose, me le raccontava e rideva ed era felice perché suo padre l’aveva chiamata al telefono per chiederle di tornare. Adesso è vecchio, ha detto Ajkina, e ha bisogno di me. E lei era contenta di tornare e avrebbe accompagnato lei il suo papà sulla montagna. E un po’ rideva e un po’ piangeva, mentre mi diceva queste cose. E poi si è avvicinato un signore.»

«Un signore?» ha chiesto Sirio.

«Sì, è sceso da una Range Rover ed è venuto a bussarci al finestrino.»

«Com’era questo signore?»

«Aveva la faccia arrabbiata.»

«Sì, ma era alto, basso… com’era vestito?»

«Era alto. Con la pancia e il petto come le donne. E con la barba. E coi jeans e la maglietta a strisce colorate macchiata di sudore sotto le ascelle. Ajkina ha premuto il pulsante che blocca le portiere e quello lì ha dato una manata sul parabrezza.»

«Hai notato qualcosa di particolare in lui?»

«Sì. L’orecchino, e un teschio tatuato sul braccio, qui. E aveva la faccia sudata.»

«E poi?»

«Si è messo a strillare.»

«Ah. E che diceva?»

«Non lo so. Parlava albanese, e Ajkina gli ha risposto in albanese anche lei.»

«Accidenti!» imprecò il giudice Matteo Orripilante «sarebbe stato utile conoscere il tenore dell’alterco.»

«Alessandro ha una memoria eccezionale» spiegò Duilio Pastone. Si rivolse al figlio: «Alessandro, ripeti le parole esatte che si sono detti».

«Bitch, ky është paralajmërimi i fundit, nëse nuk më sillni ato para që jeni të vdekur sot

«Un traduttore» gridò il giudice «cercatemi un traduttore.»

«Puttana, questo è l’ultimo avvertimento, se non mi porti entro oggi quei soldi sei morta» disse Sirio. E poi ad Alessandro: «E Ajkina che gli ha risposto?»

«Ajkina ha preso la pistola da dentro la borsetta e gliel’ha puntata alla faccia davanti al finestrino chiuso. Poi ha detto: Nëse po të shoh përsëri do të të qëlloj. Dhe ti e di që nuk po tallesh.»

«Se ti rivedo ti sparo. E lo sai che non scherzo» tradusse Sirio.

Sirio accarezzò i capelli crespi del giovanotto di vent’anni con la barba incolta:

«Bravo Alessandro, sei stato molto bravo. Adesso dimmi un’altra cosa, perché lo so che hai una memoria eccezionale, dimmi la targa della Range Rover».

E Alessandro gliela disse.

 


Racconto

Violenza privata - Romanzo

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