venerdì 18 dicembre 2020

Naso di gomma - Racconto





Naso di gomma

 

Sirio, nudo fino alla cintola, la testa ripiegata contro la spalla di Gianna, russava leggermente. Invece a lei il freddo l’aveva svegliata. Quell’anno Forlì, a metà ottobre, di notte raggiungeva temperature polari.

Gianna tirò la trapunta e la rincalzò sotto il collo di Sirio; scese più in basso nel letto per coprirsi fino alle orecchie.

Gianna e Sirio si incontravano a cadenza più o meno mensile. Era sempre lei a cercarlo. E ogni volta, benché Gianna si prefiggesse, mentre faceva il numero, di passare qualche ora a discorrere da buoni amici, invariabilmente finivano nudi sulla prima superficie più o meno morbida che si trovasse a portata di mano, un letto, un divano, una parete senza mobilio o il sedile reclinabile della Clio color melanzana di Sirio.

Andava avanti così da una decina d’anni, da quando lei, lasciata Genova e i genitori per iscriversi al primo anno di psicologia criminale, l’aveva conosciuto per i corridoi della facoltà.

Giovanotto atletico, il naso un po’ schiacciato alla Walter Chiari, la faccia da farabutto e gli occhi maliziosi, Gianna, notandolo la prima volta, era rimasta interdetta se ritenerlo uno studente di quelli che alla laurea non ci arrivano mai perché c’è un papà che paga le rette; ma l’abito azzurro, la cravatta intonata e i capelli castani tagliati corti e pettinati con cura l’avevano messa in dubbio si trattasse di un professore.

Aveva chiesto un po’ in giro. Così aveva scoperto che Urbani, un docente sessantenne, lo considerava una specie di genio, tanto da portarselo dietro se doveva risolvere una qualche consulenza in ambito investigativo.

Ce n’era d’avanzo per incuriosire una studentessa del primo anno.

   

Anche questa era finita come le altre volte. Cinque minuti a baciarsi nell’ingresso e le successive due ore a rotolarsi nel letto di Sirio. Così Gianna dei soldi non gliene aveva parlato. E dire che l’aveva chiamato appositamente per questo.

Le cifre a LED della sveglia sul comodino segnavano le tre e mezza.

Sirio nel sonno ebbe un’apnea di qualche secondo, le stropicciò contro le costole quella specie di naso di gomma che aveva e riprese a respirare con la testa appoggiata al suo seno.

Fra poco sarebbe dovuta andare. Sarebbe rientrato Emanuele, suo marito.

Con Emanuele l’amore era durato poco purtroppo.

Se ne era innamorata per così dire di slancio. Impressionata forse dal celeste degli occhi, dalla barba curata o dal biondo dei capelli, molto simile ai suoi; oppure da quel modo di parlare che aveva così rassicurante e persuadente.

Col tempo si era rivelato un autoritario e un accentratore. Le aveva sottratto spazio e interessi. E adesso, dopo quasi cinque anni, ciò che la opprimeva del matrimonio era il piattume, sì, quella specie di monotonia di svegliarsi alla stessa ora, spicciare le solite faccende. Ogni giorno sempre uguale, in definitiva. Ed Emanuele che rientrava al mattino, ti raccontava del capo reparto che era un fetente, giusto quattro parole, sempre più o meno le stesse, buttate lì di fretta per andarsene a dormire, perché aveva passato la notte a guidare il treno, e quando poi si svegliava per pranzo, se gli andava, ti trascinava nel letto per la sua personale razione di sesso… e il diversivo della giornata finiva lì.

Ogni tanto c’era Sirio. Lei lo cercava col proposito di parlarci e invariabilmente finivano a letto. Non che le dispiacesse, ma sentiva il bisogno di altro.

Una bella scarica di adrenalina, forse di questo aveva bisogno.

Gianna tese il collo. Le cifre a LED indicavano le quattro. Tempo di andare.

Sirio stava sempre con la testa sotto la sua ascella, il naso appoggiato al suo seno, quel suo naso che sembrava fatto di gomma, glielo strapazzò piano per non svegliarlo e si sciolse dall’abbraccio.

Rigirò le coperte, recuperò gli orecchini di Swarovski dal comodino e gli abiti dalla spalliera della sedia e si diresse in bagno a piedi nudi.

Le quattro e venti. Sirio dormiva nella stessa posizione di prima. Le dispiaceva svegliarlo. E doveva andare.

Della faccenda dei soldi gliene avrebbe parlato in un altro momento.

   

Nell’ambiente lo chiamavano il Dritto, che a Roma significa furbo. Che il vero nome fosse Roberto lo sapevano in pochi. Era nato nel ’66 in una casa che affacciava sulla via Prenestina, di fronte al quartiere del Quarticciolo. La strada faceva da confine.

Di là della strada aveva imparato come si ruba, si spaccia e si uccide. Di qua come essere anonimo. Adesso, a cinquant’anni, un paio di accoltellamenti mai scoperti, un inizio da protettore, svariati scippi e furti d’appartamento, aveva messo su una piccola organizzazione di spaccio e il tutto con ancora la fedina penale pulita e sconosciuto dal fisco. E per questo lo chiamavano Dritto.

Il Dritto occupava una casa popolare del Comune, ma messa su bene ed era soddisfatto di dov’era arrivato.

Erano quasi le due.

Appoggiato alla spalliera del letto si stava facendo una partita a poker sul tablet. Vinceva.

Il cellulare silenziato si illuminò sul comodino.

Roberto non si preoccupò di trattenere la voce, tanto Marta, che dormiva sul bordo del letto girata di spalle non la svegliavano nemmeno le granate di un attacco dei Marines.

Riconobbe il numero.

«Che succede?» chiese.

«Senti Robe’» attaccò la voce del Cioffo «non t’arrabbiare…»

Roberto si fece attento.

«Allora?» lo incitò, visto che non parlava.

«Ti volevo spiegare… per quella faccenda della consegna… mi ha telefonato Aldo, ce l’ha con me ma io i soldi li ho portati al treno come al solito…»

«Che soldi?»

«Glieli ho dati tutti… al ferroviere, come le altre volte. Tu mi conosci…»

Roberto bestemmiò.

Chiuse col Cioffo e chiamò subito Aldo.

«Ho sentito adesso il bolognese, farfugliava dei soldi, ma che… mi nascondi qualcosa?»

«Ah… Roberto, t’avrei chiamato… ma niente, niente, sistemo tutto in giornata…»

«E sarebbe? Spiegami un po’…?!»

«Be’, dentro allo zaino che m’ha passato il ferroviere i soldi non c’erano…»

«E dici niente!? Parliamo di centomila euro, mica di una lira…! Ma non avevi controllato?»

«Stavamo sul marciapiede della stazione Termini… un sacco di gente, poliziotti, quelli dell’antiterrorismo colle mitragliatrici… ci ho dato un’occhiata come al solito, sopra c’erano soldi… invece sotto…»

«Tutte chiacchiere» Roberto era furioso «quello che so io è che i soldi se li è fregati uno di voi tre, o il bolognese, o il ferroviere o tu.»

«No, io no. Ma che, sospetti pure di me?»

«È stata tua questa bell’idea di far fare i trasporti al ferroviere. Adesso sbrogliatela e riportami i soldi miei.»

«Be’, per un anno ti è andata più che bene mi pare, hai risparmiato bei quattrini su ogni viaggio; consegne in giornata e niente rischi, niente cani antidroga, niente posti di blocco, niente corrieri che spariscono coi soldi o la polvere…»

Aldo stava quasi urlando e Roberto sibilò: «I miei soldi sono spariti mi pare…»

«Ma questo ferroviere mica è del giro, mica se ne scappa in Brasile; questo ci ha una casa e una moglie… e dove scappa? I soldi me li ridà. Ci vado io a casa sua e me li faccio ridare.»

 

Gianna come ogni volta era uscita senza svegliarlo. Sirio si avvicinò alla finestra. Fuori un nebbiasco denso nascondeva il prato e le case al di là della strada. Doveva essere in facoltà per le undici ed erano le otto, aveva tutto il tempo per un’oretta di footing e una doccia; indossò tuta e scarpe sportive e il K-way incerato. Il piccolo cancello in fondo al vialetto, al solito era aperto, perché la molla di richiamo era rotta. Uscito sul marciapiede tirò il cappuccio sulla testa e prese in direzione del parco comunale. Seguiva sempre lo stesso percorso, e incontrava più o meno le stesse persone. Due donne sulla sessantina che in tenuta ginnica procedevano a passo veloce chiacchierando fra loro, per lo più di ricette di cucina; l’addetto comunale col carrettino che vuotava i cestini dei rifiuti, l’altro che ramazzava le foglie; l’anziano col colletto del cappotto tirato sopra le orecchie e il cappello stile borsalino che camminava adagio e incitava il cagnetto bianco; la ragazza atletica dalle lunghe falcate che nell’incrociarlo gli sorrideva sempre.

Nelle mattinate nebbiose i rumori si diffondevano trattenuti, come nell’ovatta. Le voci delle due sessantenni affiorarono assieme alle loro sagome annebbiate; gli addetti del comune rimanevano ombre silenziose emerse e riassorbite; lo scricchiolio della ghiaia calpestata dalla ragazza atletica si confuse con quello prodotto da Sirio.

Il timer gli segnalò che era tempo di rientrare e Sirio imboccò il viale centrale che conduceva all’uscita.

Fuori dal parco la nebbia si era alzata, un quattro o cinque operaie col camice grigio che sporgeva da sotto le giacche a vento o i cappotti pedalavano verso lo stabilimento che sorgeva poco più avanti. Un furgone azzurro col portellone posteriore spalancato sostava davanti al negozio di generi alimentari, il garzone trasportava all’interno le ceste del pane; automobili ben poche. Sirio svoltò nella traversa in direzione di casa e accanto gli sfilò una Smart azzurra col tettuccio verniciato di rosso. Sirio lesse la targa.

La Smart di Gianna!

Il furgone bianco della Ford sopraggiunse subito dopo. Accelerò fino a speronare la Smart e la sospinse contro le auto in sosta.

La scena che seguì si svolse in pochi secondi. Dal furgone saltò a terra un giovanotto in calzoni e giubbotto jeans, spalancò lo sportello della Smart e tornò di corsa impugnando le cinghie di uno zainetto scolastico nero. In quel breve tragitto guardò nello zainetto e lo gettò a terra. Salì al posto di guida, manovrò per districarsi e accelerò lasciandosi dietro una scia scura di gasolio bruciato.

Pochi secondi. Come se il mondo attorno si fosse fermato. Sirio mandò a mente il numero di targa del furgone bianco e corse verso la Smart di Gianna.

Il corpo, in quel che rimaneva della piccola autovettura, era schiacciato tra lo schienale e lo sterzo. Un ciuffo di capelli biondi affiorava dall’airbag esploso. Vi si intravvedeva un minuscolo orecchino di Swarovski. Il taglio lungo il collo al disotto della barba non era compatibile con l’incidente, ma con la lama di un coltello sì.


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