Naso di gomma
Sirio, nudo fino
alla cintola, la testa ripiegata contro la spalla di Gianna, russava
leggermente. Invece a lei il freddo l’aveva svegliata. Quell’anno Forlì, a metà
ottobre, di notte raggiungeva temperature polari.
Gianna
tirò la trapunta e la rincalzò sotto il collo di Sirio; scese più in basso nel
letto per coprirsi fino alle orecchie.
Gianna
e Sirio si incontravano a cadenza più o meno mensile. Era sempre lei a
cercarlo. E ogni volta, benché Gianna si prefiggesse, mentre faceva il numero, di
passare qualche ora a discorrere da buoni amici, invariabilmente finivano nudi sulla
prima superficie più o meno morbida che si trovasse a portata di mano, un
letto, un divano, una parete senza mobilio o il sedile reclinabile della Clio
color melanzana di Sirio.
Andava
avanti così da una decina d’anni, da quando lei, lasciata Genova e i genitori
per iscriversi al primo anno di psicologia criminale, l’aveva conosciuto per i
corridoi della facoltà.
Giovanotto
atletico, il naso un po’ schiacciato alla Walter Chiari, la faccia da farabutto
e gli occhi maliziosi, Gianna, notandolo la prima volta, era rimasta interdetta
se ritenerlo uno studente di quelli che alla laurea non ci arrivano mai perché c’è
un papà che paga le rette; ma l’abito azzurro, la cravatta intonata e i capelli
castani tagliati corti e pettinati con cura l’avevano messa in dubbio si
trattasse di un professore.
Aveva
chiesto un po’ in giro. Così aveva scoperto che Urbani, un docente sessantenne,
lo considerava una specie di genio, tanto da portarselo dietro se doveva
risolvere una qualche consulenza in ambito investigativo.
Ce
n’era d’avanzo per incuriosire una studentessa del primo anno.
Anche questa era
finita come le altre volte. Cinque minuti a baciarsi nell’ingresso e le
successive due ore a rotolarsi nel letto di Sirio. Così Gianna dei soldi non
gliene aveva parlato. E dire che l’aveva chiamato appositamente per questo.
Le
cifre a LED della sveglia sul comodino segnavano le tre e mezza.
Sirio
nel sonno ebbe un’apnea di qualche secondo, le stropicciò contro le costole
quella specie di naso di gomma che aveva e riprese a respirare con la testa
appoggiata al suo seno.
Fra
poco sarebbe dovuta andare. Sarebbe rientrato Emanuele, suo marito.
Con
Emanuele l’amore era durato poco purtroppo.
Se
ne era innamorata per così dire di slancio. Impressionata forse dal celeste
degli occhi, dalla barba curata o dal biondo dei capelli, molto simile ai suoi;
oppure da quel modo di parlare che aveva così rassicurante e persuadente.
Col
tempo si era rivelato un autoritario e un accentratore. Le aveva sottratto spazio
e interessi. E adesso, dopo quasi cinque anni, ciò che la opprimeva del matrimonio
era il piattume, sì, quella specie di monotonia di svegliarsi alla stessa ora, spicciare
le solite faccende. Ogni giorno sempre uguale, in definitiva. Ed Emanuele che
rientrava al mattino, ti raccontava del capo reparto che era un fetente, giusto
quattro parole, sempre più o meno le stesse, buttate lì di fretta per andarsene
a dormire, perché aveva passato la notte a guidare il treno, e quando poi si
svegliava per pranzo, se gli andava, ti trascinava nel letto per la sua
personale razione di sesso… e il diversivo della giornata finiva lì.
Ogni
tanto c’era Sirio. Lei lo cercava col proposito di parlarci e invariabilmente
finivano a letto. Non che le dispiacesse, ma sentiva il bisogno di altro.
Una bella scarica di adrenalina, forse di questo aveva bisogno.
Gianna
tese il collo. Le cifre a LED indicavano le quattro. Tempo di andare.
Sirio
stava sempre con la testa sotto la sua ascella, il naso appoggiato al suo seno,
quel suo naso che sembrava fatto di gomma, glielo strapazzò piano per non
svegliarlo e si sciolse dall’abbraccio.
Rigirò
le coperte, recuperò gli orecchini di Swarovski dal comodino e gli abiti dalla
spalliera della sedia e si diresse in bagno a piedi nudi.
Le
quattro e venti. Sirio dormiva nella stessa posizione di prima. Le dispiaceva
svegliarlo. E doveva andare.
Della
faccenda dei soldi gliene avrebbe parlato in un altro momento.
Nell’ambiente lo
chiamavano il Dritto, che a Roma
significa furbo. Che il vero nome fosse Roberto lo sapevano in pochi. Era nato
nel ’66 in una casa che affacciava sulla via Prenestina, di fronte al quartiere
del Quarticciolo. La strada faceva da confine.
Di
là della strada aveva imparato come si ruba, si spaccia e si uccide. Di qua
come essere anonimo. Adesso, a cinquant’anni, un paio di accoltellamenti mai
scoperti, un inizio da protettore, svariati scippi e furti d’appartamento,
aveva messo su una piccola organizzazione di spaccio e il tutto con ancora la
fedina penale pulita e sconosciuto dal fisco. E per questo lo chiamavano Dritto.
Il
Dritto occupava una casa popolare del
Comune, ma messa su bene ed era soddisfatto di dov’era arrivato.
Erano
quasi le due.
Appoggiato
alla spalliera del letto si stava facendo una partita a poker sul tablet. Vinceva.
Il
cellulare silenziato si illuminò sul comodino.
Roberto
non si preoccupò di trattenere la voce, tanto Marta, che dormiva sul bordo del
letto girata di spalle non la svegliavano nemmeno le granate di un attacco dei
Marines.
Riconobbe
il numero.
«Che
succede?» chiese.
«Senti
Robe’» attaccò la voce del Cioffo «non t’arrabbiare…»
Roberto
si fece attento.
«Allora?»
lo incitò, visto che non parlava.
«Ti
volevo spiegare… per quella faccenda della consegna… mi ha telefonato Aldo, ce
l’ha con me ma io i soldi li ho portati al treno come al solito…»
«Che
soldi?»
«Glieli
ho dati tutti… al ferroviere, come le altre volte. Tu mi conosci…»
Roberto
bestemmiò.
Chiuse
col Cioffo e chiamò subito Aldo.
«Ho
sentito adesso il bolognese, farfugliava dei soldi, ma che… mi nascondi
qualcosa?»
«Ah…
Roberto, t’avrei chiamato… ma niente, niente, sistemo tutto in giornata…»
«E
sarebbe? Spiegami un po’…?!»
«Be’,
dentro allo zaino che m’ha passato il ferroviere i soldi non c’erano…»
«E
dici niente!? Parliamo di centomila euro, mica di una lira…! Ma non avevi
controllato?»
«Stavamo
sul marciapiede della stazione Termini… un sacco di gente, poliziotti, quelli
dell’antiterrorismo colle mitragliatrici… ci ho dato un’occhiata come al
solito, sopra c’erano soldi… invece sotto…»
«Tutte
chiacchiere» Roberto era furioso «quello che so io è che i soldi se li è fregati uno di voi tre, o il bolognese,
o il ferroviere o tu.»
«No,
io no. Ma che, sospetti pure di me?»
«È
stata tua questa bell’idea di far fare i trasporti al ferroviere. Adesso
sbrogliatela e riportami i soldi miei.»
«Be’,
per un anno ti è andata più che bene mi pare, hai risparmiato bei quattrini su
ogni viaggio; consegne in giornata e niente rischi, niente cani antidroga,
niente posti di blocco, niente corrieri che spariscono coi soldi o la polvere…»
Aldo
stava quasi urlando e Roberto sibilò: «I miei soldi sono spariti mi pare…»
«Ma
questo ferroviere mica è del giro, mica se ne scappa in Brasile; questo ci ha
una casa e una moglie… e dove scappa? I soldi me li ridà. Ci vado io a casa sua
e me li faccio ridare.»
Gianna come ogni
volta era uscita senza svegliarlo. Sirio si avvicinò alla finestra. Fuori un
nebbiasco denso nascondeva il prato e le case al di là della strada. Doveva
essere in facoltà per le undici ed erano le otto, aveva tutto il tempo per un’oretta
di footing e una doccia; indossò tuta
e scarpe sportive e il K-way incerato. Il piccolo cancello in fondo al
vialetto, al solito era aperto, perché la molla di richiamo era rotta. Uscito sul
marciapiede tirò il cappuccio sulla testa e prese in direzione del parco
comunale. Seguiva sempre lo stesso percorso, e incontrava più o meno le stesse
persone. Due donne sulla sessantina che in tenuta ginnica procedevano a passo
veloce chiacchierando fra loro, per lo più di ricette di cucina; l’addetto
comunale col carrettino che vuotava i cestini dei rifiuti, l’altro che
ramazzava le foglie; l’anziano col colletto del cappotto tirato sopra le
orecchie e il cappello stile borsalino che camminava adagio e incitava il
cagnetto bianco; la ragazza atletica dalle lunghe falcate che nell’incrociarlo
gli sorrideva sempre.
Nelle
mattinate nebbiose i rumori si diffondevano trattenuti, come nell’ovatta. Le
voci delle due sessantenni affiorarono assieme alle loro sagome annebbiate; gli
addetti del comune rimanevano ombre silenziose emerse e riassorbite; lo
scricchiolio della ghiaia calpestata dalla ragazza atletica si confuse con
quello prodotto da Sirio.
Il
timer gli segnalò che era tempo di rientrare e Sirio imboccò il viale centrale
che conduceva all’uscita.
Fuori
dal parco la nebbia si era alzata, un quattro o cinque operaie col camice
grigio che sporgeva da sotto le giacche a vento o i cappotti pedalavano verso
lo stabilimento che sorgeva poco più avanti. Un furgone azzurro col portellone
posteriore spalancato sostava davanti al negozio di generi alimentari, il
garzone trasportava all’interno le ceste del pane; automobili ben poche. Sirio
svoltò nella traversa in direzione di casa e accanto gli sfilò una Smart
azzurra col tettuccio verniciato di rosso. Sirio lesse la targa.
La Smart di Gianna!
Il
furgone bianco della Ford sopraggiunse subito dopo. Accelerò fino a speronare
la Smart e la sospinse contro le auto in sosta.
La
scena che seguì si svolse in pochi secondi. Dal furgone saltò a terra un giovanotto
in calzoni e giubbotto jeans, spalancò lo sportello della Smart e tornò di
corsa impugnando le cinghie di uno zainetto scolastico nero. In quel breve
tragitto guardò nello zainetto e lo gettò a terra. Salì al posto di guida, manovrò
per districarsi e accelerò lasciandosi dietro una scia scura di gasolio
bruciato.
Pochi
secondi. Come se il mondo attorno si fosse fermato. Sirio mandò a mente il
numero di targa del furgone bianco e corse verso la Smart di Gianna.
Il
corpo, in quel che rimaneva della piccola autovettura, era schiacciato tra lo
schienale e lo sterzo. Un ciuffo di capelli biondi affiorava dall’airbag
esploso. Vi si intravvedeva un minuscolo orecchino di Swarovski. Il taglio
lungo il collo al disotto della barba non era compatibile con l’incidente, ma
con la lama di un coltello sì.
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