L’intrusa
La signora Annamaria Siniboldi Castigliano in
Ramino si spense serenamente nel proprio letto all’età di centodue anni alle
prime ore dell’alba del venti di aprile, giorno della Pasqua di Resurrezione.
Le due badanti di nazionalità romena
che l’accudivano amorevolmente da svariati anni, Alina e Catinca giurarono in
lacrime che fosse ancora calda, quando si erano recate come ogni mattina alle
otto per accudirla. Disperate, dovevano aver svegliato il marito, il senatore
Mario Ramino, perché se l’erano visto entrare nella stanza in pigiama. A questo
punto, benché la notizia non fosse giunta del tutto inattesa stante l’età della
Siniboldi Castigliano, si innescarono un susseguirsi di eventi, alcuni sì
pianificati secondo il buon senso e l’uso comune, altri non del tutto scontati
e prevedibili, per non dire sconvolgenti.
La signora Siniboldi Castigliano,
nata nel 1912, era stata donna bellissima, di nobili natali, dalla vita
intensa, dinamica, per certi versi frenetica. Il suo primo marito, il pittore
francese Jean Philippe Christianne, di vent’anni più grande, durante un
soggiorno a Forlì l’aveva notata e voluta, procace sedicenne, dapprima per
modella, subito dopo in moglie.
Matrimonio felice ma breve il
loro. La primogenita Corinne di cinque anni, il piccolo Giacomo ancora in
fasce, e Jean Philippe se n’era andato, portato via da una polmonite
fulminante.
Annamaria aveva amato intensamente
Jean Philippe; e la sua natura romantica l’indusse a considerare, malgrado
all’epoca avesse appena ventiquattro anni, che quando fosse giunto il suo
momento avrebbe voluto riposargli accanto. Così aveva avviato le procedure per
la costruzione di una cappella funeraria e conosciuto Ettore Vianotti,
architetto giovane ma ambizioso, dotato di indubbia genialità, messosi
alacremente all’opera. L’architetto Vianotti le propose alcune soluzioni, tutte
assai valide, per il futuro monumento funebre e il susseguirsi degli incontri
per discutere il progetto sfociarono, quasi come le acque di un placido fiume
nelle acque burrascose dell’oceano, in una passione incontrollabile; tant’è che
Ettore e Annamaria convolarono a nozze nel 1939, giusto a tempo per mettere al
mondo Benito e Rosa, prima che Ettore venisse chiamato a combattere sul fronte
russo.
La costruzione della cappella – un
monumento elegante col tetto a falde e sul frontone il bassorilievo di un
angelo che scendeva in volo a confortare le anime dei trapassati – venne
completata a tempo per accoglierlo alla fine del conflitto mondiale.
Dal suo terzo e attuale marito, il
senatore Mario Ramino, di ben vent’anni più giovane, questo, l’Annamaria
Siniboldi Castigliano non ebbe figli, accogliendo comunque amorevolmente Marco,
nato dal primo matrimonio del senatore.
Ora, il venti di aprile, giorno
della Pasqua di resurrezione, alla sua morte, la Siniboldi Castigliano lasciava
un patrimonio considerevole in immobili locati e titoli di Stato, oltre
all’appartamento di pregio che abitava in centro di Forlì; patrimonio equamente
ripartito fra tutti gli aventi diritto così come disposto da documento
testamentario redatto innanzi a notaio in piena facoltà di intendere e volere.
Le peripezie, anche drammatiche,
che sopravvennero alla sua dipartita, non furono quindi da imputare a incuria o
negligenza, ma a una casualità sconcertante e del tutto fortuita.
L’ottantaduenne senatore dormiva nella stanza
attigua. Si svegliava ogni mattina intorno alle sei ma si attardava ad
ascoltare i rumori e le voci delle due badanti che accudivano sua moglie
filtrate dai muri. Poi l’andava a trovare, poiché la lucidità di pensiero non
aveva abbandonato la Siniboldi Castigliano, e parlottavano un po’.
Quella mattina le grida e i pianti
che gli pervennero attraverso la parete divisoria furono più che eloquenti. In
pantofole e pigiama entrò nella stanza accanto. Annamaria, era ormai
trapassata. Pallida e serena aveva infine trovato riposo dalla sua lunga
intensa esistenza terrena. Ora c’era da attivare tutte quelle procedure che
tante volte avevano pianificato assieme, quelle che fra loro avevano sempre
chiamato le tre telefonate.
Il senatore aveva baciato sua
moglie sulla fronte e si era ritirato nello studio.
Per primo aveva informato don
Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia in Forlì affinché
intervenisse per l’ultimo Sacramento; poi suo figlio Marco perché estendesse la
notizia ai figlioli di Annamaria e parenti tutti; infine la premiata ditta
F.lli Taburri, con la quale erano stati presi accordi, Annamaria vivente, circa
l’ultima cerimonia e l’allestimento della dimora finale.
Daniel Mihalake, cinquantatre anni, nativo di
Slobozia, Romania, trasferitosi a Forlì da clandestino nel 1996, era un uomo felice.
Faceva parte di quella schiera dell’umanità che, dopo averne passate tante e
trovata infine una certa tranquillità, ebbene questa tranquillità la apprezza.
Lavorava per la Zanzini Marmi e il ventidue aprile, insieme al giovane Florin,
suo compaesano, ma immigrato in tempi recenti, avevano l’incarico di rimuovere
la lastra provvisoria del loculo vuoto.
Daniel conosceva perfettamente il
cimitero e non ebbe difficoltà a trovare la cappella. Appoggiarono le borse con
gli attrezzi e si accomodarono sui gradini. Erano le dieci, un solicello
gradevole illuminava l’angelo a volo radente scolpito sul prospetto e loro due
a quell’ora facevano colazione. Scartarono i panini imbottiti e stapparono le
birre.
Fra loro parlavano rumeno.
«Lo senti questo odore!?» disse
Florin arricciando il naso, dopo aver dato il primo morso.
Daniel annusò l’aria: «Non sento
niente».
Florin disse: «Di cadavere».
Anche Daniel l’individuò. E gli
venne da pensare che nel cimitero quell’odore mai l’aveva avvertito. A bordo
cunetta di qualche strada campestre la carogna d’un cane travolto da un’auto
l’aveva a volte fatto deviare, ma nel cimitero mai. Comunque fece spallucce e
sollecitò il ragazzo a sbrigarsi.
Entrarono nella cappella.
La lastra da rimuovere era quella
centrale sul lato destro rispetto all’ingresso, di fronte al piccolo altare, la
terza dal basso. La signora Annamaria Siniboldi Castigliano aveva riservato a
se stessa il posto centrale, gli altri tutti occupati, tranne quello a fianco,
destinato al senatore. Sarebbero stati tutti vicini, lei e i suoi tre mariti,
una grande serena famiglia allargata. Dei figli, all’epoca, non si era preoccupata.
Il capo squadra si era raccomandato.
La lastra era da rimuovere intera. Quindi i due operai si misero all’opera. Ma
appena la smossero, il tanfo tolse loro il respiro. Mollarono la presa e il
marmo gli sfuggì fracassandosi. La nicchia doveva essere vuota, invece, nella
penombra, videro dapprima la massa dei capelli di un rosso violento,
innaturale, poi, più che vederli, indovinarono i volumi pallidi indistinti
della schiena e delle natiche che affioravano dal gioco d’ombre là in fondo.
Uscirono correndo, schiacciati
dalla visione e dal fetore insopportabile. Il giovane Florin si accasciò per
vomitare; Daniel, appoggiatosi a una croce, inspirò aria più volte per potersi
riprendere. Poi chiamò il capo squadra col cellulare.
Angelo Taburri, contitolare assieme al
fratello Santo dell’omonima premiata ditta di onoranze funebri, appena
informato via telefono dal capo squadra della Zanzini Marmi circa l’incredibile
ritrovamento di un cadavere nella tomba, fattosi convinto, dal tono e dalla
concitazione dell’interlocutore che non trattavasi di uno scherzo, si affrettò
a sua volta a comporre, nell’ordine, i numeri telefonici del pronto intervento
delle Forze dell’ordine, del senatore Mario Ramino, che però non era
raggiungibile in quanto assorbito dalla Funzione d’addio alla di lui consorte
nella chiesa di santa Lucia, e del parroco don Pasquino Bonsangue, il quale,
impegnato a commemorare le innumerevoli doti morali, in vita, della defunta,
non rispose.
A questo punto che fare?
Telefonò al più anziano tra i portantini
e a seguire agli altri. Ma, a quanto sembrava, la chiesa di santa Lucia si
trovava in un cono d’ombra dei ripetitori telefonici e gli fu impossibile
avvertire.
Ecco dunque che il corteo funebre,
ignaro, lasciò la chiesa e si avviò per il cimitero. Vi giunse coi rintocchi di
mezzogiorno, e fu non poco lo sconcerto allorché si fece incontro al feretro il
maresciallo dei carabinieri Luigi Indaga col braccio levato a intimare l’alt.
Altri due militari stavano a lato della porta della cappella dei Siniboldi
Castigliano, quasi un picchetto d’onore. Sulle prime Mario Ramino sospettò una
qualche forma di iniziativa istituzionale apprestata per riguardo alla propria
funzione senatoriale; oppure a una celebrazione cittadina in ossequio alla
ultracentenaria nobildonna Annamaria Siniboldi Castigliano; d’altra parte, le
parole del maresciallo Indaga furono nient’affatto chiarificatrici: «Fermi là.
Nessuno può entrare. La Cappella è sotto sequestro».
L’avvio della carriera politica del senatore
risaliva alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, allorché poco più
che ventenne si era iscritto all’allora partito di maggioranza. Da buon
diplomatico aveva saputo barcamenarsi nei vari scenari e tenersi a galla
durante gli sconvolgimenti della vita politica italiana; aveva conosciuto gli
anni incerti del dopoguerra, apprezzato la stabilità indotta dal boom economico
degli anni sessanta, trepidato per le gambizzazioni brigatiste degli anni
settanta, osservato senza toccarla la pece untuosa della corruzione e assistito
agli scandali affiorati nel periodo di Tangentopoli,
fino a giungere agli attuali stravolgimenti della seconda repubblica. Non
aveva posseduto l’irruenza del condottiero e nemmeno la sudditanza del
portaborse; dato sempre ragione a tutti e criticato nessuno. In vetta non ci si
era arrampicato; qualche volta si era lasciato tirare, altre volte qualcuno
l’aveva sospinto. Se non aveva brillato, nemmeno era mai rimasto completamente
nell’ombra.
Ormai da qualche anno, sebbene la
sua funzione politica non avesse decadenza, conduceva vita da pensionato,
limitando i viaggi a Roma a quelle rare occasioni in cui la sua presenza era
ritenuta indispensabile dal partito.
Alle due di pomeriggio del ventidue
aprile, superato l’iniziale disappunto alla vista dei carabinieri che
sbarravano la strada al corteo, viste vane le proteste e trattenuta l’ira, si
era sottomesso a ricoverare le spoglie di Annamaria nel deposito cimiteriale.
Dopo di che, accomiatatosi da parenti e amici sconcertati, forte della propria
influenza politica si era ritirato nello studio e messo mano all’apparecchio
telefonico. Esigo, era stato
l’intercalare che aveva contrassegnato ogni telefonata.
Alle ore diciotto del ventitre aprile, nel
soggiorno a terzo piano di palazzo Siniboldi Castigliano, il senatore Mario
Ramino era l’unico in piedi. Su uno dei divani sedevano nell’ordine, il
colonnello dei carabinieri Antonio Cercabene, il maresciallo Luigi Indaga, il
giudice per le Indagini preliminari Matteo Orripilante e il Pubblico Ministero
Gaetano Lamartana; sull’altro, don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di
santa Lucia, l’avvocato Osvaldo Girovenale, legale di fiducia del senatore, il
professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico; il quale era intervenuto assieme
al collaboratore Sirio Bonanni, un giovanotto con la faccia da pugile di
borgata.
«È spaventoso» esclamò il
senatore, trattenendo le gambe dal rimettersi a camminare avanti e indietro
come aveva fatto sinora «mi state dicendo che nel loculo destinato a mia moglie
è stato rinvenuto il cadavere di una prostituta… e senza niente addosso?»
«Purtroppo è così» rispose il
giudice Gaetano Lamartana.
«E come c’è finita lì dentro?» insistette
il senatore.
Gaetano Lamartana esitava.
«Veramente…» accennava al
professor Urbani e a Sirio cercando di non farsi notare dagli interessati; i
quali sedevano sul divano contrapposto «il segreto istruttorio…»
«Ma quale segreto…» esplose il
senatore «il professor Urbani ha tutta la mia fiducia ed è qui per mia
richiesta. Esigo che ascolti e che prenda parte alle indagini.»
A testa bassa Lamartana lanciò uno
sguardo furtivo in direzione del collega Orripilante e del colonnello
Cercabene. Il fatto che entrambi evitassero di guardarlo l’interpretò come
un’autorizzazione a procedere.
«Quand’è così» disse «lascio la
parola al maresciallo Indaga.»
Tutte le teste si voltarono verso
il maresciallo, che si schiarì la voce:
«Senatore, mi scuso per quanto
accaduto nella giornata di ieri, ma nel momento in cui sopraggiungeva il corteo
funebre erano in corso gli accertamenti del medico legale, nonché i rilievi dei
tecnici della Scientifica. Abbiamo dato il massimo impulso alle indagini e
identificato il cadavere occultato nel loculo. Non fosse stata la concomitanza
del funerale sarebbero forse passati anni prima che venisse scoperto, e a quel
punto sarebbe risultato pressoché impossibile il riconoscimento. Invece, a una
settimana dalla morte, tramite le impronte digitali è stato possibile risalire
all’identità della sventurata. Trattasi di Ajkina Glioshci, di nazionalità
albanese, trentadue anni, più volte fermata per prostituzione. È stata
pugnalata ripetutamente con un coltello a serramanico sul quale, oltre a tracce
di sangue della vittima c’erano le impronte dell’assassino, che è stato
prontamente individuato e tratto in arresto. Si tratta di tale Alessandro
Pastone, vent’anni, esercente, insieme al padre, uno dei chioschi di fiori
antistanti il cimitero».
«Questo significa» si intromise
l’avvocato Girovenale «che il caso è chiuso e potete dissequestrare e rendere
agibile il Monumento funerario della famiglia Siniboldi Castigliano…!?»
«Certamente!» esultò il giudice
Lamartana.
«Ha sentito don Pasquino» fu
felice il senatore «finalmente potremo accompagnare Annamaria alla sua ultima
dimora.»
«Quanto pesa questo giovanotto?» chiese
Sirio.
«Prego…? Come…? Cosa…?» gli venne
chiesto da più parti. Giudici e carabinieri lo fissavano indignati.
«Alessandro Pastone, il fioraio
arrestato, quanto pesa?» ripetette Sirio.
«Bah…» il maresciallo incassava la
testa nelle spalle, storceva la bocca «sui sessanta chili.»
«Pochi, per uno che avrebbe
rimosso la lastra di marmo che faceva da coperchio alla tomba, sollevato il
corpo senza vita di Ajkina… quanti… cinquanta…? sessanta chili anche lei? Fino
a oltre un metro di altezza, e infine ricollocato la lapide.»
Il giudice Lamartana voleva
tagliar corto. Come si permetteva questo ragazzino!?
«Avrà avuto un complice, magari il
padre…»
Sirio non sembrò aver rilevato
l’interruzione: «Senza contare il sangue freddo necessario… Risultano
precedenti penali a suo carico?»
Il giudice Lamartana si sentì
investito in prima persona e prese la parola: «Del tutto sconosciuto fino a
oggi… Ma che c’entra?!»
«C’erano le loro impronte,
dell’uno o dell’altro, sul marmo o comunque nella cappella funeraria?»
«Ma no, ma no… E questo che vuol
dire? Le avranno pulite, è ovvio. Qui i riscontri probatori sono
inequivocabili. Il giovane fioraio aveva intrattenuto rapporti sessuali con la
Ajkina proprio la sera in cui è stata uccisa, come appurato dalle tracce del
DNA ritrovate in fase di esame autoptico; l’arma del delitto, il coltello a
serramanico, recava le sue impronte; abbiamo la testimonianza di altre due
prostitute che li hanno visti assieme; e nel furgone del fioraio,
verosimilmente utilizzato per accedere al cimitero senza destare sospetti,
c’erano tracce del sangue della vittima; a noi bastano le prove, le
speculazioni non ci interessano, caro signore.»
«Impronte digitali nel furgone?»
«Solo dell’imputato e del padre…
Recenti, dice la Scientifica…»
«In che senso recenti? Il furgone
era stato lavato?»
«No, lavato no. Volante e maniglie
strofinati…»
«Come per cancellare le impronte?»
«Forse. O forse semplicemente per
una pulizia sommaria. Non ravvedo alcuna importanza in questa cosa.»
Il senatore voltava la testa da
Sirio a Lamartana quasi assistesse a una partita di tennis.
Adesso la battuta era a Sirio: «Dov’è stato trovato esattamente il coltello?
Era nascosto?»
Lamartana, adesso, era
spazientito: «Nascosto? Fai tu. Stava nello spazio tra il sedile e la leva del
cambio».
«Quindi nell’abitacolo; e non
dentro al cassone. E sui sedili… tracce di sangue?»
«No, no… niente.»
«Strano, le pare?»
Lamartana era irritato: «Perché strano. L’avrà uccisa fuori e poi
caricata nel cassone, dove invece c’erano le tracce del suo sangue».
«E per tornare all’arma. Queste
impronte… erano sull’impugnatura?»
Lamartana sbuffò: «No. Su alcune
lame. Il manico era stato pulito».
«Incredibile. Ha ripulito dalle
impronte l’arma del delitto, il proprio coltello, per poi lasciarlo nel proprio
furgone! Come fare un tratto di penna sul proprio autografo per renderlo
invisibile…»
«Adesso basta» Lamartana batté la
mano sul bracciolo del divano «non permetto a chicchessia, ancor più a uno
studentello di serie C di criticare l’operato dei magistrati e delle forze
dell’ordine.»
Sirio scosse la testa.
«Ma allora perché?» disse come a
se stesso.
«Perché cosa?» domandò il
senatore.
«Perché un fioraio ventenne di
cinquanta chili dovrebbe pugnalare una prostituta albanese, caricarne il corpo
sul proprio furgone e nasconderlo in una tomba vuota? Insomma, quale sarebbe il
movente?»
Il giudice Lamartana si agitò e mosse
per aria le mani come a dire ma falla
finita!
Invece il senatore insistette:
«Già, perché?»
Siccome il Pubblico ministero si
era ritirato braccia conserte, rispose il maresciallo Indaga, rivolgendosi
direttamente al senatore.
«Si verificano in continuazione
alterchi e risse in quell’ambiente, per i motivi più svariati e spesso futili…
il cliente insoddisfatto che non vuol pagare, la mercenaria che rifiuta
prestazioni particolari o pretende troppo… Che importanza può avere? E poi non
dimentichiamo le testimonianze di due altre prostitute che li hanno visti
assieme, l’Ajkina con Alessandro Pastone, appartati nel furgone da fioraio.
Infine posso dirvi che il ragazzo è disturbato…»
Il maresciallo si picchiettò la
tempia: «Ha comportamenti a dir poco stravaganti. Al momento dell’arresto si
dibatteva e urlava; in pratica finora non siamo riusciti a interrogarlo, ha
scatti d’ira senza controllo. Può essere stato uno scatto di questi a fargli
pugnalare l’Ajkina. Mi sembra del tutto inutile cercare un movente che abbia un
senso».
Detto questo si alzò; prontamente
imitato dagli altri del suo schieramento-
«Senatore…» salutarono a turno.
Porsero la mano agli ospiti del divano opposto, tutti tranne Lamartana, che si
finse occupatissimo a lisciarsi le sgualciture della giacca. Il senatore li accompagnò alla porta.
Alle undici di
mattina di giovedì ventiquattro una Mercedes GLC azzurra tirata a lustro entrò
nel parcheggio antistante il cimitero a bassa velocità. I chioschi dei fiorai
erano allineati sulla sinistra; il sole proiettava le ombre allungate degli
alberi sulle pareti di lamiera e sull’asfalto. La Mercedes accostò al
marciapiede e l’avvocato Osvaldo Girovenale spense il motore.
La sera precedente, usciti gli
altri ospiti, il senatore aveva pregato don Pasquino, l’avvocato Girovenale,
l’amico Urbani e il suo giovane assistente Sirio Bonanni di trattenersi ancora
un po’. Appariva provato.
«Ho bisogno di qualcosa di forte»
aveva detto svitando il tappo a una bottiglia di Johnnie Walker Black. Ne aveva versato dosi abbondanti in cinque
bicchieri e li aveva distribuiti agli ospiti.
«Tutta questa faccenda mi ha
sconvolto.»
Aveva detto, dopo un lungo sorso.
Quindi si era rivolto a Urbani:
«Anselmo, mi sembra di capire che
tu e il tuo assistente siate scettici sulle conclusioni che concernono
l’assassinio della… Ajkina…?»
Urbani aveva sorseggiato il
whiskey e sollecitato Sirio con lo sguardo.
«Ci sono delle incongruenze che
meriterebbero di essere indagate» disse Sirio.
Il senatore faceva rotolare il
bicchiere fra i palmi delle mani.
«Trentadue anni» sembrava parlasse
tra sé «l’età di mia nipote, una ragazzina in definitiva… Non fosse per la coincidenza
incredibile del funerale di Annamaria, sarebbe rimasta dentro quella tomba chi
sa quanto, dimenticata, senza più nemmeno un nome. Forse è il momento
drammatico che sto vivendo, però mi sgomenta tutto questo.»
«Si tratta di un sentimento di
cristiana carità. Comprensibilissimo» affermò don Pasquino torcendosi le mani.
«Ho deciso» disse il senatore. Si
rivolse al professor Urbani: «Anselmo, sei uno studioso di criminologia,
conosco le tue qualità investigative e siamo amici da tanto tempo, vorrei che
andassi a fondo in questa indagine».
Urbani assentiva con la testa:
«Certo, certo… Ma avremo bisogno di ufficialità».
Il senatore corrucciò la fronte:
«Vale a dire?»
«La legge italiana» disse il
professor Urbani spostandosi al bordo del divano «consente alla difesa di svolgere
indagini. Capisce bene che nessun cittadino è autorizzato ad andare in giro a
far domande… Ma potremmo se rappresentassimo l’accusato.»
«Il giovane fioraio? Voi siete
convinti che non sia colpevole?»
«Ravvisiamo fondati dubbi» rispose
Sirio «non è un pregiudicato, difficile credere possa aver avuto il sangue
freddo di pugnalarla e subito dopo andare a nasconderla in una tomba. Un
occultamento così fantasioso stona con l’ipotesi di un omicidio a caldo, per
come ce l’ha illustrato il giudice Lamartana. A sentir lui, al di fuori di una
qualsiasi motivazione plausibile, il giovane fioraio l’avrebbe pugnalata in un
impeto d’ira incontrollabile. Ma, se così fosse l’avrebbe dovuta abbandonare lì
dov’era e sarebbe scappato. Invece si ravvisa del sangue freddo in ogni
circostanza. Le impronte cancellate sull’impugnatura del coltello, e poi il
fatto che la vittima sia stata denudata. Tutto fa ritenere che l’assassino si
sia prodigato di occultare qualsiasi traccia potesse far risalire alla sua
identità e lasciato invece ben visibili quelle che rimandavano al giovane
fioraio. Perché? L’accortezza di qualcuno abituato a muoversi nel torbido, abituato
a ingegnarsi di rimanere nascosto, sarei propenso a ritenere. Ma per toglierci
ogni dubbio e farci un’opinione obiettiva sarebbe utile incontrarlo, questo
Alessandro Pastone.»
«Ah… capisco… E come si può fare?»
L’avvocato Girovenale si schiarì
la voce: «Se io fossi il legale di Alessandro Pastone tutto sarebbe
consequenziale».
«Giusto. Mi sta bene. Procediamo
in questo senso. Resta inteso che mi farò carico dei costi relativi.»
«Perseguire la verità è un atto
cristiano» aveva aggiunto don Pasquino «è il fondamento della giustizia: la verità.»
«Ecco, dovrebbe
essere quello» disse il professor Urbani.
Il banco dei fiori era il terzo
della fila, dal lato verso le campagne. Poche altre vetture sostavano nel
parcheggio, qualche donna attraversava la strada per dirigersi al cancello
monumentale del cimitero.
La mole considerevole
dell’avvocato Osvaldo Girovenale, intorno alle undici di giovedì ventiquattro
aprile, sbarcò dalla Mercedes GLC azzurra tirata a lustro e si avviò verso il
chiosco, seguito dal professor Urbani e da Sirio.
Il fioraio, un uomo stempiato
intorno al metro e cinquanta che indossava un camice grigio, smise di
riordinare i vasi sulla rastrelliera e mosse un passo incontro ai visitatori.
«Lei si chiama Duilio Pastone?» esordì
l’avvocato Girovenale.
Il fioraio tese la mano: «Sì… e
voi…?»
L’avvocato si presentò e presentò
il professore e Sirio: «Vorremmo scambiare qualche parola».
«A che proposito?»
«Circa l’arresto di suo figlio, o
meglio, pianificare una linea di difesa. Ma non qui, in mezzo alla strada. Le
dispiacerebbe seguirci?»
Con l’espressione confusa Duilio
Pastone tolse il camice grigio e l’appoggiò alla rastrelliera, quindi informò
la donna del gazebo accanto che si allontanava e li seguì.
Trovarono posto a un tavolino esterno sotto il tendone di un
bar.
L’avvocato raccontò del funerale
interrotto e della decisione del senatore di affidare al professor Urbani,
valente criminologo, e al suo assistente, l’incarico di svolgere indagini per
conto della difesa.
«Come mai questo senatore si
preoccupa della sorte di mio figlio?» chiese il fioraio.
«Il ritrovamento del cadavere
della ragazza assassinata all’interno della tomba destinata alla moglie l’ha
scosso e non è convinto della colpevolezza di suo figlio» spiegò l’avvocato.
«Alessandro è innocente» protestò
Duilio Pastone.
Sirio disse: «Ne siamo tutti
persuasi, e lei deve aiutarci a dimostrarlo. Ci parli di lui e dei suoi
rapporti con la ragazza, Ajkina».
«Alessandro è un ragazzo semplice» disse Duilio Pastone «il suo
corpo ha vent’anni ma la testa è rimasta a quando ne aveva dieci, undici.
Semplice. Ajkina l’aveva preso in simpatia. Si fermava sempre quando passava di
qui. Smontava dalla bicicletta e si mettevano a chiacchierare… e ridevano. A me
faceva piacere. Li stavo a guardare ed ero felice della felicità di mio figlio.
Un po’ mi illudevo che fosse un giovanotto normale, che sta dietro alle ragazze
e le corteggia… quasi ci fosse la possibilità che un giorno trovasse quella
giusta da sposare. Certe volte mi chiedevo perché lo facesse Ajkina. Sì, va
bene, la simpatia nei confronti di Alessandro… Ma non basta. Penso piuttosto
che si sentisse di fare una cosa pulita, nell’abbrutimento del suo mestiere,
una specie di redenzione, o di penitenza. Quel giorno se ne sono andati col
furgone, come faceva qualche volta Ajkina, che si metteva al volante – perché
Alessandro sa guidare, come tanti ragazzini di dieci anni, ma non gli danno la
patente – e se l’è portato nella boscaglia, lungo la strada più avanti del
chiosco. Sono tornati… ma non allegri come le altre volte… non so… comunque
Ajkina poi è andata via a lavorare e io con mio figlio, visto che ormai erano
più o meno le sette di sera, siamo rincasati.»
«Col furgone?» chiese Sirio.
«No, abitiamo a circa un
chilometro. Il furgone lo lasciamo sempre al parcheggio e ci spostiamo con le
biciclette.»
«Il furgone l’avete lasciato e
ritrovato chiuso?»
«Credo di sì… Non ci ho fatto caso,
non ricordo. È passata una settimana.»
«Lo sa che i carabinieri hanno
trovato tracce del sangue di Ajkina nel furgone?»
«No. Non ne sapevo niente. Si sono
presentati ieri intorno alle tre del pomeriggio e si son portato via il
furgone, sequestrato, hanno detto, ma di questo fatto del sangue non ne sapevo
niente. Una vettura con a bordo due carabinieri è rimasta nel parcheggio
davanti al nostro chiosco e un paio d’ore più tardi è venuto un maresciallo e
ha caricato Alessandro… per accertamenti,
così ha detto, e se lo son portato via ammanettato. Alessandro strillava di
paura e io li ho seguiti fino alla caserma e ho aspettato finché non mi hanno
cacciato via a mezzanotte; poi ci sono tornato stamattina presto, ma nessuno mi
ha spiegato né perché né percome. E questo è tutto.»
«A me dovranno spiegare» disse
l’avvocato Girovenale «e come se dovranno.»
Sirio riprese: «Alessandro aveva
un coltello a serramanico?»
«Sì, a più lame, come questo» Duilio
Pastone lo cavò di tasca e sfilò un paio di lame «lo usiamo sul lavoro, al
chiosco dei fiori e anche in campagna.»
«Quello di Alessandro dov’è?»
«Non saprei… perché me lo chiede?»
«L’hanno trovato i carabinieri nel
vostro furgone, e ci hanno trovato le impronte di Alessandro e il sangue della
vittima.»
«Le impronte di mio figlio è ovvio
che ci fossero: era suo…! Ma allora è per questo che l’hanno arrestato? No, no,
impossibile, sono pazzi se credono che l’ha uccisa lui.»
Sirio aggiunse: «Duilio, Ajkina si
confidava con voi? Può dirci se aveva un protettore, delle amiche… qualche
particolare della sua vita privata?»
«Mi era simpatica quella
ragazzina, sorridente, allegra… un po’ chiassosa, anche, ma chiacchierava di
frivolezze, di sé stessa mai. Una volta gliel’ho chiesto io, se non aveva
paura, di notte, a incontrarsi con degli sconosciuti… e lei s’è messa a ridere.
So difendermi, ha detto. E quindi no, non credo avesse un uomo del genere,
anche perché arrivava e se ne andava da sola, con la bicicletta… No, no,
nessuno.»
Duilio Pastone fece dei ghirigori
col dito sul tavolo.
«Una volta» disse «la borsetta
l’aveva dimenticata aperta. All’interno ho visto una pistola, piccola, col calcio bianco… Ecco, questo… Ma non mi viene
a mente nient’altro.»
La caserma dei carabinieri capitanata dal
maresciallo Luigi Indaga era una palazzina a due piani circondata da un cortile
recintato. Nel proprio ufficio a primo piano il maresciallo disse Avanti! e guardò l’orologio.
«L’una precisa, che puntualità» sorrise
al giudice per le indagini preliminari Matteo Orripilante, mentre il brigadiere
apriva per lasciar passare l’avvocato Girovenale, i due consulenti della difesa
e Duilio Pastone.
Il pubblico ministero Gaetano
Lamartana brillava per la propria assenza.
L’incontro era stato fissato sin
dal mattino, per cui l’avvocato Girovenale, dopo un rapido scambio di strette
di mano, sollecitò di procedere subito all’interrogatorio.
«Ho qualche perplessità circa la
presenza del signor Pastone» disse il giudice.
«La sua presenza è indispensabile»
insistette l’avvocato «ai fini procedurali la consideri un incidente probatorio. Mi spiego, l’imputato è affetto da ritardo
mentale lieve…»
«Non ne so niente. Agli atti non
risulta…»
«Si tratta, ripeto, di ritardo
mentale di lieve entità, e la presenza del padre non può che risultare utile ai
fini dell’interrogatorio dell’imputato. Lo consideri un testimone, se
preferisce. Sono certo che il Senatore…»
«Va bene, va bene, ho capito»
tagliò corto il giudice «procediamo. Ma si ricordi avvocato, che ne
effettueremo la registrazione audiovisiva.»
«Certamente…»
Si avviarono lungo il corridoio,
in fila indiana dietro al maresciallo Indaga, fino alla stanza degli
interrogatori. Prima di entrare, attraverso il cristallo unidirezionale,
osservarono l’imputato all’interno, seduto a un tavolo a centro stanza,
ammanettato. Un brigadiere, in piedi accanto alla porta, lo sorvegliava.
Il giovane Alessandro Pastone,
barba folta nera e capelli crespi aveva la corporatura esile del padre. Teneva
lo sguardo fisso sul ripiano del tavolo.
«Perché ha le manette?» chiese
l’avvocato.
«Ve l’ho detto, ha scatti d’ira
improvvisi. È una precauzione necessaria.»
«Gli faccia togliere le manette
prima che entriamo. Ne rispondo io» disse l’avvocato Osvaldo Girovenale; il
giudice Matteo Orripilante fece un cenno affermativo al maresciallo che si
avvicinò al microfono e impartì l’ordine al brigadiere nella stanza al di là
del cristallo.
Appena Duilio Pastone varcò la
soglia suo figlio gli si gettò tra le braccia: «Papà». E si mise a piangere. Un
ventenne con la barba folta che piangeva come un bambino di undici anni.
Con parole e carezze Duilio riuscì
a calmarlo e sedette accanto a lui. Gli altri occuparono delle sedie pieghevoli
attorno al tavolo, Sirio all’altro lato di Alessandro.
«Questi signori» disse Duilio al
figlio «ti debbono fare delle domande.»
Alessandro, a occhi bassi, si
guardò attorno imbronciato, con la testa appoggiata alla spalla del padre:
«Perché?»
Duilio Pastone si guardava attorno
smarrito.
Intervenne Sirio: «Tu vuoi bene ad
Ajkina?»
Alessandro si riscosse, gli occhi
trovarono luce: «Ajkina? Certo, lei mi ama».
«Bene» disse Sirio «puoi raccontarci
che è successo nel bosco l’ultima volta?»
«Lei rideva» disse Alessandro «era
felice, era tanto felice. Perché era l’ultima volta che ci vedevamo, perché
doveva tornare a casa sua in Albania…»
«Ah…» s’intromise il giudice
Orripilante «e tu ti sei arrabbiato e l’hai picchiata…»
«Per favore…!» intervenne
l’avvocato Girovenale.
Sirio parlò ad Alessandro col tono
che si usa con una ragazzino:
«Rispondi al signore, ti sei
arrabbiato?»
«No. Ajkina era contenta e siccome
era contenta anch’io ero contento.»
«E poi cos’è successo?» ha chiesto
ancora Sirio.
«Ajkina rideva e diceva che il suo
paese è sopra una montagna e d’inverno nevica sempre. Quando era piccola suo
padre se la metteva sulle spalle e salivano fin sopra alla montagna. E nello
zaino suo padre metteva i panini e il plaid, e quando arrivavano in cima
facevano il picnic e poi giocavano a rincorrersi o a nascondino. Lei si
ricordava queste cose, me le raccontava e rideva ed era felice perché suo padre
l’aveva chiamata al telefono per chiederle di tornare. Adesso è vecchio, ha
detto Ajkina, e ha bisogno di me. E lei era contenta di tornare e avrebbe
accompagnato lei il suo papà sulla montagna. E un po’ rideva e un po’ piangeva,
mentre mi diceva queste cose. E poi si è avvicinato un signore.»
«Un signore?» ha chiesto Sirio.
«Sì, è sceso da una Range Rover ed
è venuto a bussarci al finestrino.»
«Com’era questo signore?»
«Aveva la faccia arrabbiata.»
«Sì, ma era alto, basso… com’era
vestito?»
«Era alto. Con la pancia e il
petto come le donne. E con la barba. E coi jeans e la maglietta a strisce
colorate macchiata di sudore sotto le ascelle. Ajkina ha premuto il pulsante
che blocca le portiere e quello lì ha dato una manata sul parabrezza.»
«Hai notato qualcosa di
particolare in lui?»
«Sì. L’orecchino, e un teschio
tatuato sul braccio, qui. E aveva la faccia sudata.»
«E poi?»
«Si è messo a strillare.»
«Ah. E che diceva?»
«Non lo so. Parlava albanese, e
Ajkina gli ha risposto in albanese anche lei.»
«Accidenti!» imprecò il giudice
Matteo Orripilante «sarebbe stato utile conoscere il tenore dell’alterco.»
«Alessandro ha una memoria
eccezionale» spiegò Duilio Pastone. Si rivolse al figlio: «Alessandro, ripeti
le parole esatte che si sono detti».
«Bitch, ky është paralajmërimi i fundit, nëse nuk më sillni ato para që
jeni të vdekur sot.»
«Un traduttore» gridò il giudice
«cercatemi un traduttore.»
«Puttana, questo è l’ultimo
avvertimento, se non mi porti entro oggi quei soldi sei morta» disse Sirio. E
poi ad Alessandro: «E Ajkina che gli ha risposto?»
«Ajkina ha preso la pistola da
dentro la borsetta e gliel’ha puntata alla faccia davanti al finestrino chiuso.
Poi ha detto: Nëse po të shoh përsëri do
të të qëlloj. Dhe ti e di që nuk po tallesh.»
«Se ti rivedo ti sparo. E lo sai
che non scherzo» tradusse Sirio.
Sirio accarezzò i capelli crespi
del giovanotto di vent’anni con la barba incolta:
«Bravo Alessandro, sei stato molto
bravo. Adesso dimmi un’altra cosa, perché lo so che hai una memoria
eccezionale, dimmi la targa della Range Rover».
E Alessandro gliela disse.
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