lunedì 21 dicembre 2020

Mistersmit - Racconto

 



Mistersmit

Sirio, il cannone del Gianicolo aveva sparato da non più di dieci minuti, abbandonò il tavolino del bar titolato a Trilussa e tenne dietro ai due giovani che svoltavano nel vicolo.

Il ragazzo si chiamava Dario, la ragazza Ginestra.

Dario andava avanti a passo veloce trascinando la ragazza per il polso. Ginestra aveva un vistoso ematoma sullo zigomo, il braccio destro abbandonato. Non protestava, con le gambe legnose cercava di tener dietro al compagno.

L’acciottolato sconnesso e grigio odorava di urina stantia e muffa ancestrale. Il sole non lo lambiva da quando esisteva; da secoli si fermava alle mansarde senza mai arrivare laggiù. Un topo che rovistava in una busta abbandonata di rifiuti, sgusciò via assorbito da un tombino della strada.

Davanti a un portoncino Dario e Ginestra si fermarono; e mentre il ragazzo armeggiava con le chiavi per aprire, lei si appoggiò al muro, riversò all’indietro la testa contro la parete.

Sirio li raggiunse e disse:

«L’avete ucciso voi, Mistersmit?»

  

Primo carnevale, cominciò a leggere Sirio “Io uccido”, il libro di Faletti. Con la professione che si era scelto cosa meglio di un thriller, per sdrammatizzare?

Sirio si trovava a Roma per un convegno. Sarebbe iniziato domani, patrocinato dal Ministero degli Interni e avrebbe riunito i massimi esperti del campo. Dibattiti e interventi sarebbero stati incentrati sul tema Criminalità organizzata, trasformazioni nei metodi criminali, i curatori avevano pensato anche a un sottotitolo: Camuffamento dell’alibi. L’intervento di Sirio era programmato per la terza giornata dei lavori.

Per adesso Sirio, a un tavolino all’ombra di un bar titolato a Trilussa, si godeva il tepore di un luglio clemente, mitigato dai leggeri aliti della tramontana che in qualche modo riusciva a districarsi per i vicoli della vecchia Trastevere. La giornata era magnifica, il cielo di una trasparenza incredibile; il grigio dei cubetti di selce rimandava riflessi giallastri di luce, ombre nette si stagliavano sulle facciate delle palazzine di fronte.

Un movimento richiamò l’attenzione di Sirio. Ebbe la fugace visione di una testa che si ritraeva dietro un comignolo.

  

Il morto nella sedia pieghevole con le testa reclinata sulla spalliera fissava il cielo terso di luglio con gli occhi sbarrati.

Che fosse morto non potevano esserci dubbi. Certi mosconi col dorso lucido verde si contendevano sciamando la bavetta giallognola rappresa sul mento, gli formicolavano sulla lingua e uscivano dalla cavità oscura della bocca come carbonai alla fine del turno.

Mollica, accovacciato sul bordo del tetto a tegole, ebbe una smorfia di disgusto e distolse lo sguardo.

Nella vecchia Trastevere le case si susseguivano attaccate muro a muro, disegnavano vicoli, contornavano cortili e Mollica, spostandosi per i tetti, conosceva ogni percorso tra Porta Portese e il Gianicolo, fra piazza Trilussa e le Mura Aureliane. Ci si spostava come un altro va dalla cucina al soggiorno.

Molti dei residenti li conosceva per nome, gli capitava di coglierli, sempre accucciato dietro i comignoli o i muretti degli abbaini, mentre si spostavano in casa o discorrevano sulle terrazze. Ma lui, Mollica, i residenti li rispettava. Andava invece in cerca dei provvisori, i turisti che più o meno in ogni stagione affittavano i miniappartamenti ricavati dalle mansarde e dai lavatoi di condominio.

Il morto era un residente. Per le viuzze attorno lo conoscevano un po’ tutti, perché era un tipo col sorriso e la battuta pronta. E gli piaceva fare scherzi.

Si serviva dalla panetteria del sor Giorgione, prendeva il primo cappuccino al bar di Beppo, l’aperitivo delle sei alla caffetteria all’angolo con via della Renella e cenava da Gaspare l’Amatriciano, sempre allo stesso tavolo. Per Trastevere lo chiamavano Mistersmit, perché il cognome, più russo che americano, era impronunciabile e anzi, i trasteverini veri, quelli di sette generazioni e qualcuno della vecchia guardia, credendolo nomignolo di mala, lo chiamavano Er Mistersmit.

Mistersmit stava in Italia da chi sa quanto, c’era chi diceva dalla guerra; non risultava avesse mai lavorato, ciò non di meno campava bene, di rendita, si sussurrava; capiva il romanesco meglio di chi c’era nato, ma parlava l’italiano ancora come un inglese.

Mollica si fece forza per guardarlo. Sangue non ne vedeva. Forse un infarto.

Che faccio? Si chiese. Niente, si rispose. Lui, Mollica, non era qui, accovacciato sullo scivolo delle tegole a reggersi al comignolo. Che avrebbe potuto dire? Che girava per i tetti in cerca di collane da rubare alle tedesche, portafogli agli americani o Nikon ai giapponesi?

No che non poteva.

Stava per girarsi e gli cadde l’attenzione sulla valigetta ventiquattrore appoggiata sul tavolino accanto al morto. Preso da Mistersmit nemmeno l’aveva notata. Era aperta, come in certe scene di film di spionaggio o di scambio soldi-droga, dove il cattivo che compra la tiene a coperchio sollevato per far vedere il contenuto al cattivo che vende. E proprio come in quei film, conteneva mazzette di dollari nuovi, fascettate e impilate l’una accanto all’altra.

Almeno un milione di dollari, a dar retta ai film.

Che faccio? Tornò a chiedersi Mollica.

Per entrare nelle case usava dei guanti di tela da giardiniere – con quelli in lattice gli sudavano le mani – li indossò. C’era un morto, e stavolta più che mai non poteva permettersi di lasciare tracce. Stava per calarsi sul terrazzino quando dall’interno gli arrivò un rumore di mobili spostati.

Mollica si ritirò dietro al comignolo e attese.

  

Era stata una visione fugace, forse l’ombra di qualche uccello in picchiata, e Sirio ritornò al suo libro:

“L’uomo è uno e nessuno. Porta da anni la faccia appiccicata alla testa e l’ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale pesa di più”.

Una folla variopinta di turisti in maniche corte proiettava ombre pesanti sul selciato a cubetti. Ragazze bionde in minigonne sgargianti, t-shirt colorate. Risate ai tavoli accanto. Una donna grassa dal passo trafelato con a tracolla una ingombrante borsa sponsorizzata da un supermarket attraversò la strada e girò la chiave nel portone più avanti.

«Ah Elèna» la bloccò il sessantenne che usciva «sale da Mistermit?»

«Come tutti i mercoledì» disse la donna che si chiamava Elèna, aveva un accento slavo.

«Dev’essere uscito presto, perché non ho sentito rumori, da sopra.»

La donna era entrata, il sessantenne veniva verso il bar.

«Hai visto Mistersmit?» chiese a uno seduto a un tavolo che leggeva il giornale.

«No, oggi no. Vedrai che è qualcuno dei suoi scherzi.»

Il sessantenne possedeva una voce vibrante.

«Nico, un caffè» chiese al cameriere che si era affacciato sulla porta del bar, poi sedette al tavolino di quello col giornale.

“Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo…” riprese Sirio la lettura del suo libro.

 

 

Elèna Masknova entrò con le chiavi e appoggiò la borsetta sul divano. Era in ritardo e andava di fretta. Appena le dieci e già il caldo era insopportabile. Nel sollevare le sedie avvertì il proprio sudore. Sempre di corsa da una casa all’altra, aveva già fatto due servizi e nemmeno il tempo di darsi una lavata sotto le ascelle. Da Mistersmit si faceva pagare due ore, però più di una non la faceva mai. Finito qui era attesa da una che si spacciava per Contessa e abitava sull’altra sponda del Tevere. Se fosse contessa davvero Elèna non lo sapeva, ma pagava bene e solo questo le importava.

Elèna, suonati cinquant’anni, alla morte della madre aveva finalmente trovato il coraggio di scappare sia da Ulzyn, il villaggio miserabile dov’era nata e suo malgrado costretta a vivere, che dalla miseria in cui la costringeva un marito sfaccendato e arrogante. A Roma aveva trovato lavoro, una certa tranquillità, e un uomo che la trattava in maniera decente; però la miseria ancora le faceva paura.

Elèna afferrò le sedie per la spalliera e le rigirò sul tavolo, poi si affrettò verso il ripostiglio in cui Mistersmit nascondeva le ramazze, recuperò lo spazzolone e riempì il secchio con l’acqua. Mistersmit non si era mai lamentato se gli faceva trovare un lavoro affrettato, e nemmeno quella volta che gli aveva frantumato il vaso di cristallo. L’unico oggetto cui sembrava tenere era una brutta maschera di cartapesta appesa nel soggiorno, un naso nero penzolante e due buchi al posto degli occhi. Una volta l’aveva tirata per le lunghe perché, diceva lui, non l’aveva spolverata. Così ci passò di fretta il panno e si mise a lavare il pavimento.

Si faceva tardi e sudava per il caldo e la fretta. Evitò di spostare le poltrone e girò attorno al tappeto; arrivò alla vetrata che dava sul terrazzo. Tirò le tende e lo vide. Vide Mistersmit nella sedia da regista azzurra col pomo d’Adamo quasi fuori dal bianco esangue della pelle e le mani abbandonate in grembo. Elèna era di religione ortodossa, e dopo il primo attimo di smarrimento si segnò sulla fronte e sul petto. Poi vide la valigetta aperta e vide i soldi, tanti soldi quanti non sapeva immaginare.

Girò la maniglia della vetrata e sentì che qualcuno entrava dalla porta.

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