Il vortice
Fernando
Carofigghio era sagrestano della chiesa di Santa Lucia da oltre quarant’anni,
cioè da quando l’allora parroco don Simplicio l’aveva preso a svolgere quel
servizio dopo l’incidente di motocicletta che gli aveva offeso la gamba
sinistra. Alle diciannove e trenta del ventitré di dicembre, antivigilia di
Natale, uscì claudicando dalla sagrestia, che aveva riordinato e pulito, e si
avviò verso la prima bussola. Meccanicamente diede un’occhiata intorno per
accertarsi che non ci fosse più nessuno e passando accanto ai confessionali
scostò le tende. Una volta ci si erano nascosti due fidanzatini a
sbaciucchiarsi, un’altra ci aveva sorpreso un paio di ladruncoli in attesa che
chiudesse. Sprangò la porta esterna e passò a verificare la bussola successiva.
Tirò i catenacci anche alla seconda porta e si voltò per ritornare alla
sagrestia. Era stanco, infreddolito e voleva soltanto andarsene a casa.
Ritornando verso l’altar maggiore lo vide.
Vide il vecchio Aldo Conversi disteso supino sul terz’ultimo
banco, i piedi divaricati come Charlot. Gli occhi sgranati fissavano il
soffitto, il collo era stranamente gonfio sotto il mento, dove una bavetta
giallognola gli si era aggrumata. Una linea rossastra di sangue rappreso gli
segnava la guancia dal naso giù fino all’orecchio.
Indossava i guanti, notò il sagrestano.
Il vecchio Conversi era sempre stato magrissimo, ma adesso, col
cappotto e la giacca che ricadevano aperti, sembrava che la camicia contenesse un
fagotto schiacciato.
Se n’era rimasto una manciata di secondi a fissare il
cadavere, e gli era venuto da pensare, chi sa poi perché, che il morto non
portava il cappello. E questo pensiero del cappello lo riscosse.
Trascinando la gamba offesa si affrettò verso la sagrestia e
l’uscita.
Dimenticò di coprirsi.
E fuori nevicava in abbondanza. Gli intrise di gelo il
pullover. Un vento dispettoso faceva mulinare i fiocchi in aria come in una
sorta di danza scompigliata. Il sagrestano uscì d’impeto, sul marciapiede
scivolò sulla gamba rigida, si riprese sull’altra; i lampioni stradali si specchiavano
nella neve sciolta; si slanciò per attraversare senza prestare attenzione. Non
si avvide del motociclista che sopraggiungeva a bassa velocità.
Quell’anno
il ventitré di dicembre, antivigilia di Natale, cadeva di lunedì. Alle
diciannove e trenta Sirio Bonanni e il professor Anselmo Urbani si trovavano
nella canonica di don Pasquino Bonsangue, al primo piano di una palazzina
dirimpetto alla chiesa di Santa Lucia. Fuori dai vetri appannati, fiocchi di
nevischio si intravvedevano alla luce dei lampioni stradali.
Don Pasquino, un sessantenne basso di statura e col volto
magro attraversato dalle rughe, aveva ereditato dalla madre triestina la
carnagione chiara, che lasciava trasparire le venuzze sulle gote, e dal padre
il temperamento partenopeo, che quelle gote infiammava se trascendeva dalla
virtù della Temperanza. Parroco della
piccola diocesi da circa un anno, si ostinava a sfidare il professor Urbani al
gioco degli scacchi, uscendone continuamente sconfitto.
«Eh, professore» disse don Pasquino con la sua cadenza di
Trieste «così le mangio la regina. Vuol ritirare la mossa?»
Sirio, che a quell’epoca si trovava al quarto anno di
facoltà, in una poltroncina a due passi dal tavolo degli sfidanti stava
studiando un volume dal titolo Teoria e
applicazione delle tecniche per l'investigazione scientifica, argomento che
avrebbe dovuto sostenere nel prossimo esame, subito dopo la pausa per le
festività natalizie. Sollevò gli occhi sulla scacchiera, memorizzò la posizione
dei pezzi e si concentrò sul viso del suo amico, il professor Urbani.
Le espressioni del volto sono veicolate da circa quarantatré
muscoli facciali, per lo più volontari, altri inconsapevoli. Un attore è capace
di padroneggiarne una parte, riuscendo a fingere in maniera più o meno
credibile la felicità, il dolore, la sorpresa e tutta una gamma di sentimenti,
ma non può controllarli tutti. Sirio, per sua dote naturale oltre che per
conoscenza didattica, sapeva cogliere le sfumature invisibili delle espressioni
sincere.
Urbani fingeva disappunto – borbottò qualcosa di
incomprensibile – ma tra sé gongolava la vecchia volpe, stringendo nel pugno il
pizzetto candido della barba e lisciandoselo verso il basso, gli occhi che
scattavano tra i pezzi sulla scacchiera.
«No, no» disse Urbani al parroco «in questo gioco le mosse
non si ritirano e chi sbaglia deve pagare.»
«Quand’è così!» disse don Pasquino, e sostituì la regina
nera di Urbani con la propria.
Sirio non aveva mai visto il professor Urbani perdere una
partita. Sulla scacchiera aveva preparato una trappola, una trappola
sofisticata che nel gergo degli appassionati si chiama Vortice. Consiste nel mettere sotto scacco contemporaneamente sia
il re che un altro pezzo dell’avversario, il quale, per salvare la partita deve
rinunciare al pezzo minore. Così facendo però si sottopone a un successivo
scacco doppio, e poi a un altro, e via di seguito, in un vortice appunto, una
sorta di maledizione che pezzo dopo pezzo decima il suo esercito costringendolo
a capitolare.
Urbani si leccò il labbro come un bambino che pregusta la
marmellata.
«Eh, don Pasquino» disse «meglio un eccesso di prudenza che
uno scrupolo di coscienza.»
Spostò il cavallo e lo posizionò a difesa del proprio Re; quindi a sua volta disse: «Scacco».
Don Pasquino fece una faccia sorpresa e scontenta.
D’improvviso si rese conto che per salvare il proprio Re avrebbe a sua volta perso la Regina.
Mise in salvo il Re, e, una mossa
dopo l’altra, il Cavallo nero di
Urbani, continuando a saltellare sui riquadri della scacchiera, lo privò in
successione, oltre che della Regina appunto,
anche di un Alfiere e due Torri.
Don Pasquino non aveva più esercito.
Il sangue napoletano che gli scorreva nelle vene gli
imporporò il viso. Sfogò il malcontento sul proprio Re innocente ribaltandolo sulla scacchiera e si protese verso il
rivale.
«Lei è il demonio…» gli sibilò a un palmo dalla faccia.
Sirio si era accostato alla finestra. Riconobbe la figura
del sagrestano che usciva di corsa dalla porta della sagrestia, senza cappotto,
benché nevicasse in abbondanza e un vento
dispettoso facesse mulinare i fiocchi in aria come in una sorta di danza
scompigliata. Il sagrestano uscì d’impeto e si slanciò per attraversare. Un
motociclista sopraggiungeva, a bassa velocità, caracollò per evitarlo, gli
mostrò il pugno, urlò qualcosa che Sirio non poté afferrare e proseguì
scuotendo la testa.
Il trillo insistente del citofono distolse don Pasquino e il
professore dalle loro contese sulla partita.
Don
Pasquino Bonsangue, al cospetto della morte, si segnò. Il sagrestano, dopo
essersi fatto il segno della croce anche lui, rimase un passo indietro, con le
spalle dimesse. Il professor Urbani, valente criminologo, raccomandò: «Teniamoci
a distanza. Evitiamo di inquinare la scena del delitto. I carabinieri saranno
qui a momenti».
Don Pasquino avrebbe voluto proporre una preghiera, per
quell’anima appena tornata alla casa del Signore. Invece Sirio lo precedette:
«Erano in due».
Guardava, o più propriamente studiava da una certa distanza le
spoglie mortali del povero Aldo Conversi disteso sulla panca.
«Da cosa lo deduci?» gli chiese il professor Urbani.
«Lo hanno trascinato» rispose Sirio facendo scorrere due
dita sul palmo dell’altra mano «guardi le scarpe professore, hanno le punte
graffiate. Uno dei due è un gigante.»
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