lunedì 13 gennaio 2025

Romanzo - Mia è la vendetta

 



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Antaprima:

1.

 Il 18 novembre aveva svegliato Trenta Tornesi con le campane a morto.

Trenta Tornesi era una proprietà terriera di svariati ettari. Si estendeva su una fascia compresa fra il litorale palermitano e il versante settentrionale della catena montuosa delle Madonie. La gente del luogo raccontava che quel nome veniva dalla somma pagata da un antenato lontano di don Calogero Mugnuso per l’acquisto del primo piccolo podere, al quale, di generazione in generazione e con metodi più o meno leciti erano stati accorpati nuovi appezzamenti. Lontano da orecchie indiscrete si sussurrava che il venditore fosse stato trovato ucciso da un colpo di lupara, la mattina successiva alla firma del contratto. Le indagini dei Carabinieri Reali avevano appurato che il denaro era sparito, trafugato da ignoti. Le malelingue locali insinuavano che Trenta Tornesi suonava assai prossimo a Trenta Denari, il prezzo del tradimento. Negli anni il possedimento era diventato un piccolo feudo. Attorno alla villa padronale erano sorte le abitazioni dei parenti prossimi del vecchio Mugnuso e poi le casette dei lavoranti e le stalle, i fienili e i magazzini, i caseifici, le cantine e i frantoi. Perfino una chiesetta privata. Un muro difendeva i possedimenti per l’intero perimetro e l’unico accesso, ben sorvegliato, era da un cancello all’estremità occidentale, rivolto verso Palermo e il mare.

Penetrare in quel fortilizio e ancor più raggiungere la casa colonica senza essere notati era impossibile.

Quel mercoledì, dunque, era giorno di lutto. Santo era morto e Adelina sparita. Gli uomini mandati da don Calogero a Palermo erano tornati dicendo che la casa della madre era vuota. I vicini l’avevano vista salire su un’auto assieme alla figlia e ai due picciriddri di Turi, nessuno aveva saputo dire dove fossero dirette. Per don Calogero era stato facile fare due più due. Quella aveva programmato tutto per tempo e il motivo era chiaro: la vendetta.

Ma se di vendetta si vive, di vendetta si muore, si disse.

Accantonò il pensiero, aveva problemi più immediati da risolvere. Si era appena affacciato Totonno ad annunciargli l’arrivo del dottor Seggiu, il medico di famiglia.

Don Calogero uscì sul patio in tempo per vederlo scendere dalla Mercedes. Magro e con i radi capelli lunghi passati dietro le orecchie, dimostrava appieno i suoi settanta e più anni. Alle undici di mattina, malgrado il cielo limpido e il sole siciliano, sembrò rabbrividire.

Gli uomini del borgo, in piccoli gruppi sparsi per l’aia, stavano a osservare in silenzio, vestiti di scuro e col nodo della cravatta ancora quello dell’ultimo funerale. Erano stati esentati dal lavoro, per la triste occasione, dopo aver munto le bestie, naturalmente, che non si poteva lasciarle muggire con le mammelle gonfie, sul punto di scoppiare.

«Mi dispiace,» disse il medico, «ma… come fu? Solo ieri lo lasciai che stava… diciamo bene, in fase di ripresa, per così dire.»

Don Calogero gli strinse la mano, allargò le braccia, affranto.

«Infarto, sospetto io. Ma venite, giudicate voi.»

Lo guidò alla cappella allestita a camera ardente. Le ante della porta erano coperte da un drappo nero, i lembi laterali fermati al centro da un cordone dorato.  Santuzzo era stato vestito e composto sulla panca rivestita di velluto, la testa verso l’altare. Quattro ceri ardevano sui quattro spigoli del letto. Donna Rosalia, accanto al capezzale, fissava il vuoto con gli occhi asciutti. I banchi erano stati spostati, e le donne del borgo, tutte in nero, stavano sedute lungo le pareti e snocciolavano il rosario. Alla vista del medico si alzarono. Un’occhiata eloquente di don Calogero bastò a farle uscire a testa china.

«Mi dispiace assai,» strinse il dottor Seggiu la mano di donna Rosalia, «facemmo l’impossibile per lui, ma dopo quell’avventura… il cuore non ha retto.»

Una madre non riconosce ragioni dinanzi alla morte di un figlio. Liberò la mano e uscì a testa bassa anche lei.

Il medico si rivolse verso la salma.

«Be’… don Calogero perdonatemi,» esclamò cavando di tasca lo stetoscopio, «devo farlo.»

Finse di auscoltare un cuore che taceva.

«Infarto,» diagnosticò, «senza dubbio, infarto. Rilascerò subito il certificato di morte.»

Si avviarono alla porta.

Le donne rientrarono.

«Dottore, un caffè?» chiese donna Rosalia, in piedi sul piccolo sagrato, «o forse un liquore?»

«Grazie, grazie di cuore, come avessi accettato, ma vado di corsa,» si accomiatò il medico. Si strinse addosso lo scollo della giacca e si avviò verso la macchina.

Il brusio sommesso dei braccianti subito tacque. Gli uomini si spostarono per far spazio alla Mercedes che manovrava avanti e indietro e ripartiva. In silenzio sbirciavano verso il padrone, che indugiava, che si tastava le tasche, recuperava il telefonino e rispondeva.

«Va bene,» disse.

Fece qualche passo sullo spiazzo inghiaiato, incontro alla macchina del parrino, che arrivava lungo il viale coi cipressi.

Don Giusto aveva la faccia contrita già sulla Panda celeste. Quando scese, sembrava lui stesso sul punto di stramazzare colto da infarto. Strinse la mano a don Calogero e la scosse, quasi in lacrime.

«Appena adesso ho saputo e subito mi precipitai. Ma come fu?»

«Infarto, mi disse il dottor Seggiu, infarto. Ma venite, vi accompagno.»

Le donne si alzarono, donna Rosalia baciò la mano al prete. Un chierico di forse dieci, undici anni li aveva seguiti, reggendo l’ampolla e il turibolo.

«Figlia mia che strazio, per una madre,» accarezzò don Giusto il capo chino di donna Rosalia.

«Che il Signore, nella Sua infinità pietà, ti accolga fra le sue braccia,» concluse poi, disegnando un ampio segno di croce rivolto al defunto.

Tutti i presenti, anche quelli rimasti fuori dalla cappella, si inginocchiarono e fecero compostamente il segno di croce, primo fra tutti don Calogero, che uomo di fede era stato sempre. Poi don Giusto prese dalle mani del chierichetto l’ampolla dell’olio benedetto e unse in successione la fronte, gli occhi, la bocca e le mani del defunto, mondandolo dai peccati, quindi recitò il Pater Noster, accompagnato dai presenti, infine asperse incenso girando attorno alla salma per formare una croce.

«Adesso è nella pace del Signore,» appoggiò le mani sulle spalle di donna Rosalia, in un rispettoso abbraccio a distanza.

«Don Calogero perdonatemi, devo scappare,» si diresse alla macchina seguito dal ragazzino.

La polvere sollevata dalla Panda non era ancora ricaduta che il cellulare di don Calogero annunciò un nuovo arrivo.

L’avvocato Mario Cartacianca, prossimo ai sessanta, pizzo e stempiatura alla Luigi Pirandello, ma notevolmente più grasso e panciuto, aveva rappresentato in più occasioni, oltre ad altre famiglie notabili del palermitano, sia i Mugnuso che gli amici dei Mugnuso, per cui si considerava buon amico di don Calogero, quasi di famiglia.

Si calò con un certo sforzo dal SUV della Mercedes e pestò la ghiaia per andare a stringergli la mano.

«Che notizia terribile,» scosse la testa, «ma ditemi, dov’è?»

Gli uomini sull’aia fecero spazio e i due si avviarono alla cappella. Cartacianca, devoto anche lui, si segnò e, per quel poco che poteva, si genuflesse. Si affrettò poi verso donna Rosalia.

«Che strazio! Che dolore!»

Fissò il morto a lungo, con le manone intrecciate davanti alla pancia piena. Quando poi uscì, don Calogero stava rispondendo al telefono.

«Certo,» diceva, «lasciateli passare… tutti, certo, tutti. E che volete scatenare la terza guerra mondiale?»

Pochi minuti, e una processione di macchine della polizia e dei carabinieri riempì il cortile, dalla cappella fino alla stalla giù in fondo.

«E questi che vogliono,» bisbigliò l’avvocato senza muovere le labbra.

«Forse capitate a proposito,» mormorò a sua volta don Calogero, guardando fisso davanti a sé, «ma stiamo a sentire… di certo invenzioni, favolette per picciriddri ci vengono a raccontare.»

«Ho capito! Contate su di me…»

Da una vettura senza insegne, scese il giudice Cordaci. Un sessantenne coi baffetti e i capelli crespi e schiariti e le sopracciglia irsute, la faccia pallida da malato.

Si guardò attorno, preoccupato dall’assembramento di tanti uomini, quindi si rivolse a Don Calogero e all’avvocato, rimasti in attesa.

«Ho un mandato di comparizione per…» esordì, subito bloccato dal vocione di Cartacianca.

«E per un mandato di comparizione vi presentate con tutta sta parata da filmi americano?»

L’avvocato aveva accennato col capo allo schieramento delle autopattuglie e agli agenti che ne erano discesi.

Don Calogero sbirciò verso i braccianti, che guardavano attenti la scena, e trattenne l’avvocato per il gomito.

«Giudice, forse è meglio se ne parliamo in casa,» disse.

Si avviò verso il casolare, con l’avvocato a fianco. Il magistrato e un maresciallo dei carabinieri gli tennero dietro.

Entrarono nel salotto, dove Assuntina, la sua ultima figlia, stava rassettando. Le ordinò di preparare il caffè e indicò le poltrone e il divano al giudice e al maresciallo, che declinarono l’invito. Rimasero tutti in piedi.

«Dunque,» si rivolse a Cordaci, «dicevate, un mandato di comparizione…»

«Sì, per Santo Mugnuso.»

E Cartacianca, subito: «Di che si tratta?»

«Vorrei incontrarlo. Consegnerò l’avviso direttamente a lui.»

L’avvocato trattenne una risata: «Suvvia giudice, sono il suo legale e lo rappresento. Lui adesso non può darvi ascolto, dite pure a me, di che si tratta?»

Le tende erano accostate per via del lutto e le persiane chiuse, ma da fuori, attraverso le ante socchiuse delle finestre, arrivava il brusio dei braccianti radunati di fronte ai poliziotti. Si percepiva la tensione di due schieramenti contrapposti che non si avevano in simpatia.

Il pensiero dovette attraversare anche il giudice, perché disse: «Sapete che il vostro uomo al cancello ha un’arma, nella guardiola?»

«Arma? Che arma? Un bazooka? Una mitragliatrice?» scherzò l’avvocato.

«Un fucile.»

«Ah, sì, la doppietta di Nittuzzu,» gli rivolse un sorriso aperto don Calogero, «sapete, Nittuzzu cacciatore è, bravo picciotto, dotato di regolare porto d’armi. Nella proprietà, lo tiene, al sicuro, a norma di legge, e dopo il servizio gli piace sparare qualche colpo ai passeri.»

«E ci sono altri… cacciatori, qui fuori?»

«Forse, ma oggi non è giorno di caccia, abbiamo altri pensieri,» scosse la testa Calogero.

«Torniamo a noi,» intervenne l’avvocato.

Cordaci sospirò. Lanciò un’occhiata d’intesa al maresciallo, che disse: «Conoscete il cantiere per la costruzione della variante autostradale che si trova in località Contenero?»

«Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai visto,» l’avvocato era pensoso, «voi, don Calogero?»

«No, no, io esco poco…»

«Ma perché lo chiedete?» insistette  l’avvocato.

Il maresciallo attese un cenno di assenso del magistrato, prima di rispondere: «A noi risulta che Santo Mugnuso è precipitato in un foro per le palificate di fondazione, ieri a sera, in quel cantiere».

L’avvocato Cartacianca si mise a ridere: «Precipitato? Cantiere? I Mugnuso agricoltori sono, mica manovali dei cantieri…»

«C’è un testimone.»

«Testimoni? Quanti ne vuole ce ne sono, che l’hanno visto qui a Tornesi,» l’avvocato tese la mano verso il brusio sommesso che entrava da fuori.

«Siete stato male informato,» tagliò corto don Calogero, «e comunque mio figghiu, in questo momento, impossibilitato è, di rispondere alle vostre domande. Ma venite, vi porto da lui.»

Uscirono in fila indiana, don Calogero in testa, l’avvocato in coda, ignorando Assuntina che appoggiava sul tavolo la guantiera coi caffè. Gli uomini nel cortile si ritrassero come le acque del mar Rosso davanti a Mosè, all’avanzare del padrino. I quattro entrarono nella cappella e si fermarono a piedi della salma, zittendo le preghiere delle donne in lutto.

Il maresciallo tolse il berretto, il giudice contemplò il morto per qualche momento, poi uscirono.

«Dunque non è sopravvissuto alla caduta,» esclamò a bassa voce il giudice, per non farsi sentire da quanti li circondavano.

«Ma quando mai…» don Calogero avrebbe voluto ridere, si rese conto invece d’aver fatto una smorfia, «infarto, fu, abbiamo il certificato del dottor Seggiu.»

Il giudice, infastidito, scosse le spalle.

«Dovrete spiegarmi,» sibilò.

«A disposizione,» fu sarcastico Cartacianca.

«Servo vostro,» usò don Calogero quell’antica espressione, ma senza mettervi astio, ironia o reverenza.

Aspettò che fosse risalito in macchina assieme al maresciallo con tutta la sua truppa e che si fossero avviati, prima di rivolgersi all’avvocato.

«Be’, se vi stavate annoiando, da adesso avrete qualcosa da fare.»

«Dovere mio, don Calogero.»

Cartacianca gli strinse la mano con espressione di circostanza e si arrampicò sul SUV. Si avviò, tenendo dietro a debita distanza al serpentone celeste e azzurro delle macchine con le sirene sul tettuccio.

Non passò mezz’ora e i braccianti tornarono a voltarsi con gli occhi curiosi. Un Van nero da noleggio con i vetri oscurati risaliva piano il viale alberato, lasciando dietro di sé una nuvoletta di polvere. Il veicolo superò la cappella e si arrestò davanti a don Calogero, che aspettava in piedi sul gradino più basso della villa. Ormai era l’una dopo mezzogiorno, le donne del pianto e i braccianti si erano alternati per il pranzo. Il padrino aveva visto picciriddri e fimmene portare provviste alla sua casa, accolte da Assuntina, che, meschina, ringraziava con gli occhi mesti; ma né lui né donna Rosalia avevano ancora mangiato.

E lui di certo non ne sentiva il bisogno.

Uscì l’autista e fece scorrere il portellone posteriore.

Ne discese Doriana,  in nero, con gli occhiali scuri. Perfetta in ogni dettaglio. Senza voltarsi verso gli uomini che l'osservavano ammirati andò ad abbracciare lo zio.

«Figghia,» la strinse a sé il padrino, «andiamo, vieni a salutare Santuzzo.»

Nessuno aveva mai visto piangere un Mugnuso e lei non pianse. Baciò la zia, fissò per qualche momento le spoglie mortali del cugino e uscì assieme a don Calogero. Entrarono in casa.

«Come fu?» gli chiese, sedendosi sul divano e accavallando le gambe.

Don Calogero ammirò la sua creatura. Adesso, morto Enzuzzu, morto anche Santo, non gli rimaneva che lei per portare avanti quanto aveva realizzato in quella sua vita ormai agli sgoccioli. Assuntina non sarebbe mai stata in grado di prendere in mano l’azienda di Trenta Tornesi e tanto meno la Strober Holding. Oh, certo, l’aveva fatta studiare nelle scuole migliori, tutti i suoi figli avevano avuto il meglio dell’istruzione, perché don Calogero, che invece si era fermato alle classi dell’obbligo, capiva che il mondo va avanti veloce e che senza istruzione il cervello, anche se è buono, non basta per tenere il passo.

Ma, a proposito di Assuntina, sapeva che non si trattava di testa, che quella l’aveva, si trattava di fegato, di coraggio, che invece le mancava. Come mancava al marito, suo genero, al quale peraltro faceva difetto anche la testa.

Invece Doriana era perfetta.

Lei aspettava che rispondesse. Invece lui cavò di tasca una carta d’identità stropicciata e gliela porse.

«Cos’è?» chiese, prendendola.

«La teneva in sacchetta Santuzzo, quando me lo riportarono.»

«Il professore di Forlì!» sgranò gli occhi, «l’aveva stanato, quindi.»

Santo era andato per ben due volte a cercarlo a casa sua, a Forlì, per pareggiare il conto di Enzo, invece quello stava in Sicilia!

«Già,» rispose a sua nipote.

«Ma come andarono i fatti?»

«Ti raccontai di quello spione, il giornalista…»

«Giulio Cassioro…»

«Lui! Be’, una spia era, una biscia della specie peggiore. Aveva scoperto il magazzino con le scorie e lo teneva d’occhio. Ha seguito il camion coi barili fino al cantiere.» 

«Ho capito, e poi?»

«Poi, mi domandi? E che poteva succedere, Santuzzo se ne accorse! Il disgraziato pricipitò in uno dei pozzi delle fondazioni e amen.»

«E il professore si trovava lì?»

«No, arrivò dopo. Totonno e Tabbuto mi raccontarono tutto. U professuri ci tese un’imboscata a mio figghiu, e lo fece cadere dentro alla buca delle fondazioni, poi scappò via…»

«Santo è dunque caduto in quel foro. E poi?»

«Il pozzo non era profondo e la terra era smossa. Lo tirarono fuori e me lo riportarono. Il dottore lo visitò, disse che si sarebbe ripreso. Adelina rimase per assisterlo.»

«Invece l’ha avvelenato. Ma perché?»

«Per vendicare Turi, la bottana! Ingannò pure me, con quella faccia da santa.»

Gli vibrò la voce. Strinse il pugno per controllare l’ira e l’emozione.

«Forse non ti dissi,» riprese con voce ferma, «che Turi si era fatto fottere i soldi dell’ultimo carico…»

«Cinquecentomila euro?»

«Eh… capisti? Che doveva fare Santuzzu… dirgli grazie? Lo mandò a travagghiare al cantiere e lui, meschino, poco pratico era, perse l’equilibrio e precipitò. Per farla breve, figghia mia, una di quelle buche la tomba di Turi è diventata.»

«E la moglie s’è vendicata su Santo.»

Assuntina fece capolino dallo spiraglio della porta: «Papà, è in tavola… si è fatto tardi, i picciriddri hanno fame».

«Falli mangiare,» agitò la mano verso di lei, «fai mangiare anche tua madre. Io e Doriana ancora cose da dirci, teniamo. Mangiate, mangiate, noi veniamo dopo.»


Racconto

La vita nuova - Romanzo

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