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Antaprima:
1.
Trenta
Tornesi era una proprietà terriera di svariati ettari. Si
estendeva su una fascia compresa fra il litorale palermitano e il versante
settentrionale della catena montuosa delle Madonie. La gente del luogo
raccontava che quel nome veniva dalla somma pagata da un antenato lontano di
don Calogero Mugnuso per l’acquisto del primo piccolo podere, al quale, di
generazione in generazione e con metodi più o meno leciti erano stati accorpati
nuovi appezzamenti. Lontano da orecchie indiscrete si sussurrava che il venditore
fosse stato trovato ucciso da un colpo di lupara, la mattina successiva alla
firma del contratto. Le indagini dei Carabinieri Reali avevano appurato che il
denaro era sparito, trafugato da ignoti. Le malelingue locali insinuavano che Trenta Tornesi suonava assai prossimo a Trenta Denari, il prezzo del tradimento.
Negli anni il possedimento era diventato un piccolo feudo. Attorno alla villa
padronale erano sorte le abitazioni dei parenti prossimi del vecchio Mugnuso e
poi le casette dei lavoranti e le stalle, i fienili e i magazzini, i caseifici,
le cantine e i frantoi. Perfino una chiesetta privata. Un muro difendeva i
possedimenti per l’intero perimetro e l’unico accesso, ben sorvegliato, era da
un cancello all’estremità occidentale, rivolto verso Palermo e il mare.
Penetrare in quel fortilizio e ancor più
raggiungere la casa colonica senza essere notati era impossibile.
Quel mercoledì, dunque, era giorno di lutto. Santo era morto e Adelina sparita. Gli
uomini mandati da don Calogero a Palermo erano tornati dicendo che la casa
della madre era vuota. I vicini l’avevano vista salire su un’auto assieme alla
figlia e ai due picciriddri di Turi,
nessuno aveva saputo dire dove fossero dirette. Per don Calogero era stato
facile fare due più due. Quella aveva programmato tutto per tempo e il motivo
era chiaro: la vendetta.
Ma
se di vendetta si vive, di vendetta si muore, si disse.
Accantonò il pensiero, aveva problemi più
immediati da risolvere. Si era appena affacciato Totonno ad annunciargli
l’arrivo del dottor Seggiu, il medico di famiglia.
Don Calogero uscì sul patio in tempo per
vederlo scendere dalla Mercedes. Magro e con i radi capelli lunghi passati
dietro le orecchie, dimostrava appieno i suoi settanta e più anni. Alle undici
di mattina, malgrado il cielo limpido e il sole siciliano, sembrò rabbrividire.
Gli uomini del borgo, in piccoli gruppi
sparsi per l’aia, stavano a osservare in silenzio, vestiti di scuro e col nodo
della cravatta ancora quello dell’ultimo funerale. Erano stati esentati dal
lavoro, per la triste occasione, dopo aver munto le bestie, naturalmente, che
non si poteva lasciarle muggire con le mammelle gonfie, sul punto di scoppiare.
«Mi dispiace,» disse il medico, «ma… come fu?
Solo ieri lo lasciai che stava… diciamo bene, in fase di ripresa, per così
dire.»
Don Calogero gli strinse la mano, allargò le
braccia, affranto.
«Infarto, sospetto io. Ma venite, giudicate voi.»
Lo guidò alla cappella allestita a camera
ardente. Le ante della porta erano coperte da un drappo nero, i lembi laterali
fermati al centro da un cordone dorato. Santuzzo era stato vestito e composto sulla
panca rivestita di velluto, la testa verso l’altare. Quattro ceri ardevano sui
quattro spigoli del letto. Donna Rosalia, accanto al capezzale, fissava il
vuoto con gli occhi asciutti. I banchi erano stati spostati, e le donne del
borgo, tutte in nero, stavano sedute lungo le pareti e snocciolavano il
rosario. Alla vista del medico si alzarono. Un’occhiata eloquente di don
Calogero bastò a farle uscire a testa china.
«Mi dispiace assai,» strinse il dottor Seggiu
la mano di donna Rosalia, «facemmo l’impossibile per lui, ma dopo
quell’avventura… il cuore non ha retto.»
Una madre non riconosce ragioni dinanzi alla
morte di un figlio. Liberò la mano e uscì a testa bassa anche lei.
Il medico si rivolse verso la salma.
«Be’… don Calogero perdonatemi,» esclamò
cavando di tasca lo stetoscopio, «devo farlo.»
Finse di auscoltare un cuore che taceva.
«Infarto,» diagnosticò, «senza dubbio,
infarto. Rilascerò subito il certificato di morte.»
Si avviarono alla porta.
Le donne rientrarono.
«Dottore, un caffè?» chiese donna Rosalia, in
piedi sul piccolo sagrato, «o forse un liquore?»
«Grazie, grazie di cuore, come avessi
accettato, ma vado di corsa,» si accomiatò il medico. Si strinse addosso lo scollo
della giacca e si avviò verso la macchina.
Il brusio sommesso dei braccianti subito
tacque. Gli uomini si spostarono per far spazio alla Mercedes che manovrava
avanti e indietro e ripartiva. In silenzio sbirciavano verso il padrone, che
indugiava, che si tastava le tasche, recuperava il telefonino e rispondeva.
«Va bene,» disse.
Fece qualche passo sullo spiazzo inghiaiato,
incontro alla macchina del parrino, che
arrivava lungo il viale coi cipressi.
Don Giusto aveva la faccia contrita già sulla
Panda celeste. Quando scese, sembrava lui stesso sul punto di stramazzare colto
da infarto. Strinse la mano a don Calogero e la scosse, quasi in lacrime.
«Appena adesso ho saputo e subito mi
precipitai. Ma come fu?»
«Infarto, mi disse il dottor Seggiu, infarto.
Ma venite, vi accompagno.»
Le donne si alzarono, donna Rosalia baciò la
mano al prete. Un chierico di forse dieci, undici anni li aveva seguiti,
reggendo l’ampolla e il turibolo.
«Figlia mia che strazio, per una madre,»
accarezzò don Giusto il capo chino di donna Rosalia.
«Che il Signore, nella Sua infinità pietà, ti
accolga fra le sue braccia,» concluse poi, disegnando un ampio segno di croce
rivolto al defunto.
Tutti i presenti, anche quelli rimasti fuori
dalla cappella, si inginocchiarono e fecero compostamente il segno di croce,
primo fra tutti don Calogero, che uomo di fede era stato sempre. Poi don Giusto
prese dalle mani del chierichetto l’ampolla dell’olio benedetto e unse in
successione la fronte, gli occhi, la bocca e le mani del defunto, mondandolo
dai peccati, quindi recitò il Pater
Noster, accompagnato dai presenti, infine asperse incenso girando attorno
alla salma per formare una croce.
«Adesso è nella pace del Signore,» appoggiò
le mani sulle spalle di donna Rosalia, in un rispettoso abbraccio a distanza.
«Don Calogero perdonatemi, devo scappare,» si
diresse alla macchina seguito dal ragazzino.
La polvere sollevata dalla Panda non era
ancora ricaduta che il cellulare di don Calogero annunciò un nuovo arrivo.
L’avvocato Mario Cartacianca, prossimo ai
sessanta, pizzo e stempiatura alla Luigi Pirandello, ma notevolmente più grasso
e panciuto, aveva rappresentato in più occasioni, oltre ad altre famiglie
notabili del palermitano, sia i Mugnuso che gli amici dei Mugnuso, per cui si
considerava buon amico di don Calogero, quasi di famiglia.
Si calò con un certo sforzo dal SUV
della Mercedes e pestò la ghiaia per andare a stringergli la mano.
«Che notizia terribile,» scosse la testa, «ma
ditemi, dov’è?»
Gli uomini sull’aia fecero spazio e i due si
avviarono alla cappella. Cartacianca, devoto anche lui, si segnò e, per quel
poco che poteva, si genuflesse. Si affrettò poi verso donna Rosalia.
«Che strazio! Che dolore!»
Fissò il morto a lungo, con le manone
intrecciate davanti alla pancia piena. Quando poi uscì, don Calogero stava rispondendo
al telefono.
«Certo,» diceva, «lasciateli passare… tutti,
certo, tutti. E che volete scatenare la terza guerra mondiale?»
Pochi minuti, e una processione di macchine
della polizia e dei carabinieri riempì il cortile, dalla cappella fino alla
stalla giù in fondo.
«E questi che vogliono,» bisbigliò l’avvocato
senza muovere le labbra.
«Forse capitate a proposito,» mormorò a sua
volta don Calogero, guardando fisso davanti a sé, «ma stiamo a sentire… di
certo invenzioni, favolette per picciriddri
ci vengono a raccontare.»
«Ho capito! Contate su di me…»
Da una vettura senza insegne, scese il
giudice Cordaci. Un sessantenne coi baffetti e i capelli crespi e schiariti e
le sopracciglia irsute, la faccia pallida da malato.
Si guardò attorno, preoccupato
dall’assembramento di tanti uomini, quindi si rivolse a Don Calogero e
all’avvocato, rimasti in attesa.
«Ho un mandato di comparizione per…» esordì,
subito bloccato dal vocione di Cartacianca.
«E per un mandato di comparizione vi
presentate con tutta sta parata da filmi americano?»
L’avvocato aveva accennato col capo allo
schieramento delle autopattuglie e agli agenti che ne erano discesi.
Don Calogero sbirciò verso i braccianti, che
guardavano attenti la scena, e trattenne l’avvocato per il gomito.
«Giudice, forse è meglio se ne parliamo in
casa,» disse.
Si avviò verso il casolare, con l’avvocato a
fianco. Il magistrato e un maresciallo dei carabinieri gli tennero dietro.
Entrarono nel salotto, dove Assuntina, la sua
ultima figlia, stava rassettando. Le ordinò di preparare il caffè e indicò le
poltrone e il divano al giudice e al maresciallo, che declinarono l’invito.
Rimasero tutti in piedi.
«Dunque,» si rivolse a Cordaci, «dicevate, un
mandato di comparizione…»
«Sì, per Santo Mugnuso.»
E Cartacianca, subito: «Di che si tratta?»
«Vorrei incontrarlo. Consegnerò l’avviso
direttamente a lui.»
L’avvocato trattenne una risata: «Suvvia
giudice, sono il suo legale e lo rappresento. Lui adesso non può darvi ascolto,
dite pure a me, di che si tratta?»
Le tende erano accostate per via del lutto e
le persiane chiuse, ma da fuori, attraverso le ante socchiuse delle finestre,
arrivava il brusio dei braccianti radunati di fronte ai poliziotti. Si
percepiva la tensione di due schieramenti contrapposti che non si avevano in
simpatia.
Il pensiero dovette attraversare anche il
giudice, perché disse: «Sapete che il vostro uomo al cancello ha un’arma, nella
guardiola?»
«Arma? Che arma? Un bazooka? Una
mitragliatrice?» scherzò l’avvocato.
«Un fucile.»
«Ah, sì, la doppietta di Nittuzzu,» gli
rivolse un sorriso aperto don Calogero, «sapete, Nittuzzu cacciatore è, bravo picciotto, dotato di regolare porto
d’armi. Nella proprietà, lo tiene, al sicuro, a norma di legge, e dopo il
servizio gli piace sparare qualche colpo ai passeri.»
«E ci sono altri… cacciatori, qui fuori?»
«Forse, ma oggi non è giorno di caccia,
abbiamo altri pensieri,» scosse la testa Calogero.
«Torniamo a noi,» intervenne l’avvocato.
Cordaci sospirò. Lanciò un’occhiata d’intesa
al maresciallo, che disse: «Conoscete il cantiere per la costruzione della
variante autostradale che si trova in località Contenero?»
«Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai
visto,» l’avvocato era pensoso, «voi, don Calogero?»
«No, no, io esco poco…»
«Ma perché lo chiedete?» insistette l’avvocato.
Il maresciallo attese un cenno di assenso del
magistrato, prima di rispondere: «A noi risulta che Santo Mugnuso è precipitato
in un foro per le palificate di fondazione, ieri a sera, in quel cantiere».
L’avvocato Cartacianca si mise a ridere:
«Precipitato? Cantiere? I Mugnuso agricoltori sono, mica manovali dei
cantieri…»
«C’è un testimone.»
«Testimoni? Quanti ne vuole ce ne sono, che
l’hanno visto qui a Tornesi,»
l’avvocato tese la mano verso il brusio sommesso che entrava da fuori.
«Siete stato male informato,» tagliò corto
don Calogero, «e comunque mio figghiu,
in questo momento, impossibilitato è, di rispondere alle vostre domande. Ma
venite, vi porto da lui.»
Uscirono in fila indiana, don Calogero in
testa, l’avvocato in coda, ignorando Assuntina che appoggiava sul tavolo la
guantiera coi caffè. Gli uomini nel cortile si ritrassero come le acque del mar
Rosso davanti a Mosè, all’avanzare del padrino. I quattro entrarono nella
cappella e si fermarono a piedi della salma, zittendo le preghiere delle donne
in lutto.
Il maresciallo tolse il berretto, il giudice
contemplò il morto per qualche momento, poi uscirono.
«Dunque non è sopravvissuto alla caduta,»
esclamò a bassa voce il giudice, per non farsi sentire da quanti li circondavano.
«Ma quando mai…» don Calogero avrebbe voluto
ridere, si rese conto invece d’aver fatto una smorfia, «infarto, fu, abbiamo il
certificato del dottor Seggiu.»
Il giudice, infastidito, scosse le spalle.
«Dovrete spiegarmi,» sibilò.
«A disposizione,» fu sarcastico Cartacianca.
«Servo vostro,» usò don Calogero quell’antica
espressione, ma senza mettervi astio, ironia o reverenza.
Aspettò che fosse risalito in macchina
assieme al maresciallo con tutta la sua truppa e che si fossero avviati, prima
di rivolgersi all’avvocato.
«Be’, se vi stavate annoiando, da adesso
avrete qualcosa da fare.»
«Dovere mio, don Calogero.»
Cartacianca gli strinse la mano con
espressione di circostanza e si arrampicò sul SUV. Si
avviò, tenendo dietro a debita distanza al serpentone celeste e azzurro delle
macchine con le sirene sul tettuccio.
Non passò mezz’ora e i braccianti tornarono a
voltarsi con gli occhi curiosi. Un Van nero da noleggio con i vetri oscurati
risaliva piano il viale alberato, lasciando dietro di sé una nuvoletta di
polvere. Il veicolo superò la cappella e si arrestò davanti a don Calogero, che
aspettava in piedi sul gradino più basso della villa. Ormai era l’una dopo
mezzogiorno, le donne del pianto e i braccianti si erano alternati per il pranzo.
Il padrino aveva visto picciriddri e fimmene portare provviste alla sua casa,
accolte da Assuntina, che, meschina,
ringraziava con gli occhi mesti; ma né lui né donna Rosalia avevano ancora
mangiato.
E lui di certo non ne sentiva il bisogno.
Uscì l’autista e fece scorrere il portellone
posteriore.
Ne discese Doriana, in nero, con gli
occhiali scuri. Perfetta in ogni dettaglio. Senza voltarsi verso gli uomini che
l'osservavano ammirati andò ad abbracciare lo zio.
«Figghia,»
la strinse a sé il padrino, «andiamo, vieni a salutare Santuzzo.»
Nessuno aveva mai visto piangere un Mugnuso e
lei non pianse. Baciò la zia, fissò per qualche momento le spoglie mortali del
cugino e uscì assieme a don Calogero. Entrarono in casa.
«Come fu?» gli chiese, sedendosi sul divano e
accavallando le gambe.
Don Calogero ammirò la sua creatura. Adesso,
morto Enzuzzu, morto anche Santo, non gli rimaneva che lei per portare avanti
quanto aveva realizzato in quella sua vita ormai agli sgoccioli. Assuntina non
sarebbe mai stata in grado di prendere in mano l’azienda di Trenta Tornesi e tanto meno la Strober Holding. Oh, certo, l’aveva
fatta studiare nelle scuole migliori, tutti i suoi figli avevano avuto il
meglio dell’istruzione, perché don Calogero, che invece si era fermato alle
classi dell’obbligo, capiva che il mondo va avanti veloce e che senza
istruzione il cervello, anche se è buono, non basta per tenere il passo.
Ma, a proposito di Assuntina, sapeva che non
si trattava di testa, che quella l’aveva, si trattava di fegato, di coraggio, che invece le mancava. Come mancava al marito,
suo genero, al quale peraltro faceva difetto anche la testa.
Invece Doriana era perfetta.
Lei aspettava che rispondesse. Invece lui
cavò di tasca una carta d’identità stropicciata e gliela porse.
«Cos’è?» chiese, prendendola.
«La teneva in sacchetta Santuzzo, quando me lo riportarono.»
«Il professore di Forlì!» sgranò gli occhi,
«l’aveva stanato, quindi.»
Santo era andato per ben due volte a cercarlo
a casa sua, a Forlì, per pareggiare il conto di Enzo, invece quello stava in
Sicilia!
«Già,» rispose a sua nipote.
«Ma come andarono i fatti?»
«Ti raccontai di quello spione, il
giornalista…»
«Giulio Cassioro…»
«Lui! Be’, una spia era, una biscia della
specie peggiore. Aveva scoperto il magazzino con le scorie e lo teneva
d’occhio. Ha seguito il camion coi barili
fino al cantiere.»
«Ho capito, e poi?»
«Poi, mi domandi? E che poteva succedere,
Santuzzo se ne accorse! Il disgraziato pricipitò
in uno dei pozzi delle fondazioni e amen.»
«E il professore si trovava lì?»
«No, arrivò dopo. Totonno e Tabbuto mi
raccontarono tutto. U professuri ci
tese un’imboscata a mio figghiu, e lo
fece cadere dentro alla buca delle fondazioni, poi scappò via…»
«Santo è dunque caduto in quel foro. E poi?»
«Il pozzo non era profondo e la terra era
smossa. Lo tirarono fuori e me lo riportarono. Il dottore lo visitò, disse che
si sarebbe ripreso. Adelina rimase per assisterlo.»
«Invece l’ha avvelenato. Ma perché?»
«Per vendicare Turi, la bottana! Ingannò pure me, con quella faccia da santa.»
Gli vibrò la voce. Strinse il pugno per
controllare l’ira e l’emozione.
«Forse non ti dissi,» riprese con voce ferma,
«che Turi si era fatto fottere i
soldi dell’ultimo carico…»
«Cinquecentomila euro?»
«Eh… capisti?
Che doveva fare Santuzzu… dirgli grazie? Lo mandò a travagghiare al cantiere e lui, meschino,
poco pratico era, perse l’equilibrio e precipitò. Per farla breve, figghia mia, una di quelle buche la
tomba di Turi è diventata.»
«E la moglie s’è vendicata su Santo.»
Assuntina fece capolino dallo spiraglio della
porta: «Papà, è in tavola… si è fatto tardi, i picciriddri hanno fame».
«Falli
mangiare,» agitò la mano verso di lei, «fai mangiare anche tua madre. Io e
Doriana ancora cose da dirci, teniamo. Mangiate, mangiate, noi veniamo dopo.»