La virgola della Sibilla
In alto
a sinistra, il simbolo a forma di fiamma e la dicitura “Carabinieri”
attestavano l’autenticità del filmato. In basso a destra la data: 23 aprile,
l’ora e i minuti (14:05) e lo scorrere dei secondi. La telecamera stava inquadrando
il pianerottolo di una rampa di scale e l’esterno della porta blindata di un
appartamento. Chi la stava utilizzando la faceva zumare sul pulsante del
campanello e la targhetta: “Int. 6 – Antonio Debresci”.
Una voce fuori campo diceva: «È questa casa sua, signor Debresci?»
La telecamera si spostò di scatto su chi aveva parlato e
inquadrò un uomo in divisa, con i baffi e le basette brizzolate, con i gradi di
maresciallo dei carabinieri. Accanto a lui, un uomo magro sulla trentina con
una voglia a forma di fragola sulla tempia, fece un cenno affermativo con la
testa: «Sì».
«Ha con sé le chiavi?»
«Sì» ripetette l’uomo giovane.
La telecamera venne puntata sulla mano di Antonio Debresci
che estraeva dalla tasca dei pantaloni una chiave di sicurezza. La tenne sospesa,
aveva l’impugnatura di plastica azzurra, di quelle intercambiabili.
«Apra» disse il maresciallo.
Antonio Debresci fece ruotare la chiave nel cilindro e
spinse l’anta.
Dentro era buio.
«Faccia strada, signor Debresci, e accenda le luci.»
La telecamera era puntata verso l’interno dell’appartamento.
Per qualche attimo la nuca e le spalle di Debresci riempirono l’inquadratura.
Poi Debresci ruotò il busto per arrivare all’interruttore e improvvisa la luce
illuminò l’ambente. L’immagine si spostò in una carrellata circolare e inquadrò
un uomo seduto su una seggiola da cucina al centro della stanza. Nello specchio
alle sue spalle si vedevano i nodi delle funi che lo tenevano aderente alla
spalliera, la testa gli ciondolava sul petto. Sulla tovaglia a fiori che
ricopriva il piccolo tavolo di fianco a lui era appoggiato qualcosa. Quando
l’obbiettivo ingrandì i dettagli, si poté riconoscere una doppietta. Le due
canne e la cassa erano state tagliate.
Si avvertì un conato fuori campo.
La telecamera ruotò per inquadrare Antonio Debresci che si
piegava in avanti per vomitare, poi, come per un ripensamento, tornò di scatto
sull’uomo seduto e zumò.
L’uomo seduto non aveva la faccia.
Undici mesi dopo.
Padre Salvatore aveva conosciuto sui banchi delle scuole
medie, a Roma, un Antonio Debresci. Ma era stato una ventina d’anni prima, e da
allora si erano persi di vista. Davvero non sapeva spiegarsi come Antonio,
oggi, volesse mettersi in contatto con un ex compagno di classe, dopo così
tanto tempo.
La lettera, inoltre, scritta a mano, con parole sparse in maiuscolo, era a dir poco demenziale.
“Palermo, 13 marzo.
Caro
Salvatore, amico mio, ultima spes,
cerca di capirmi, ricordi i pomeriggi a studiare il latino e le lingue morte e
sconosciute? Ora sto impazzendo. QUESTA MIA vita È un REBUS. Devo confessarti
che sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. NON POSSO CHIEDERE PERDONO A DIO PER QUESTO
DELITTO. Non ho più altri cui potermi rivolgere… ed ho pensato a te. Vorrei
poterti dire di più, se il destino mi aiuterà ti fornirò un altro messaggio. Ma
non so se avrò la forza di scriverlo. Ti prego non dimenticarmi.
Il
tuo amico… (seguiva una firma illeggibile).
“P.S.1:
SIMPATICI ricordi. Morse e fuggi era il nostro motto, ricordi?
“P.S.2:
Oggi è il 13… il 13 che si ripete. Codice 13, come dimenticarlo.”
L’indirizzo comunque non lasciava dubbi: era proprio per
lui, inviata presso l’abitazione dei suoi genitori a Roma; che evidentemente
l’amico Antonio Debresci non aveva dimenticato.
Padre
Salvatore non sapeva risolversi se gettarla nella spazzatura e non pensarci più
oppure… già, oppure che?
Chiese il parere del parroco.
Don Pasquino si rigirò lettera e busta per le mani. Lesse e
rilesse.
«So io come fare» disse infine, e richiamò dalla rubrica del
cellulare il numero del professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico. Gli
spiegò il fatto.
«Vediamo…!» Disse il professore.
Siccome abitava a due passi, fece la strada a piedi fino
alla canonica.
«Mi sembra la lettera di un mentecatto… o di un mitomane. Io
non ci darei peso più di tanto, ma, a scanso di qualsiasi scrupolo di coscienza
voglio sentire l’opinione di Sirio.»
«Chiarissima!»
Affermò Sirio.
Sei occhi lo fissavano quasi fosse stato un prestigiatore
che annunciava di voler estrarre una tigre dal cilindro.
«Caro Salvatore amico
mio non ha bisogno di commenti mi pare; eravate amici o no?»
«Be’, sì, studiavamo insieme, il pomeriggio, quasi sempre a
casa dei miei. Facevamo le scuole medie, lui aveva la passione dei linguaggi
più inusuali. Ricordo che aveva studiato i sistemi di crittografia dei codici
in uso presso i vari eserciti durante il corso dell’ultima guerra. Aveva una
curiosità incredibile… se non comprendeva qualcosa ci si intestardiva fino a venirne
a capo. Intelligente, sì, molto intelligente.»
«Bene. Quindi se si rivolge a lei in quanto ultima spes, ultima speranza, possiamo
credergli; e prendere sul serio l’invocazione cerca di capirmi! Bene, capirlo, ma come? Ce lo spiega: le lingue morte e… soprattutto, sconosciute! Le parole, ora sto impazzendo, non necessitano di
commenti. Ma perché impazzisce? Ce lo dice subito, però prima ci fornisce la
“chiave” di lettura per accedere al messaggio: le prime parole scritte in
maiuscolo. Proviamo a leggerle a se stanti: Questa
mia è un rebus. La lettera, quindi, deve essere interpretata come un arcano
il cui vero significato è nascosto. Andiamo avanti: Sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. Perché la virgola
dopo uomo, quando la sua posizione naturale sarebbe prima della parola NON che segue?»
Si fermò e rivolse lo sguardo dall’uno all’altro dei tre.
«A questo punto devo raccontarvi una storia, che forse già
conoscete ma è utile evocare.»
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