lunedì 12 ottobre 2020

La virgola della Sibilla - Racconto




La virgola della Sibilla

 

 

In alto a sinistra, il simbolo a forma di fiamma e la dicitura “Carabinieri” attestavano l’autenticità del filmato. In basso a destra la data: 23 aprile, l’ora e i minuti (14:05) e lo scorrere dei secondi. La telecamera stava inquadrando il pianerottolo di una rampa di scale e l’esterno della porta blindata di un appartamento. Chi la stava utilizzando la faceva zumare sul pulsante del campanello e la targhetta: “Int. 6 – Antonio Debresci”.

Una voce fuori campo diceva: «È questa casa sua, signor Debresci?»

La telecamera si spostò di scatto su chi aveva parlato e inquadrò un uomo in divisa, con i baffi e le basette brizzolate, con i gradi di maresciallo dei carabinieri. Accanto a lui, un uomo magro sulla trentina con una voglia a forma di fragola sulla tempia, fece un cenno affermativo con la testa: «Sì».

«Ha con sé le chiavi?»

«Sì» ripetette l’uomo giovane.

La telecamera venne puntata sulla mano di Antonio Debresci che estraeva dalla tasca dei pantaloni una chiave di sicurezza. La tenne sospesa, aveva l’impugnatura di plastica azzurra, di quelle intercambiabili.

«Apra» disse il maresciallo.

Antonio Debresci fece ruotare la chiave nel cilindro e spinse l’anta.

Dentro era buio.

«Faccia strada, signor Debresci, e accenda le luci.»

La telecamera era puntata verso l’interno dell’appartamento. Per qualche attimo la nuca e le spalle di Debresci riempirono l’inqua­dratura. Poi Debresci ruotò il busto per arrivare all’interruttore e improvvisa la luce illuminò l’ambente. L’immagine si spostò in una carrellata circolare e inquadrò un uomo seduto su una seggiola da cucina al centro della stanza. Nello specchio alle sue spalle si vedevano i nodi delle funi che lo tenevano aderente alla spalliera, la testa gli ciondolava sul petto. Sulla tovaglia a fiori che ricopriva il piccolo tavolo di fianco a lui era appoggiato qualcosa. Quando l’obbiettivo ingrandì i dettagli, si poté riconoscere una doppietta. Le due canne e la cassa erano state tagliate.

Si avvertì un conato fuori campo.

La telecamera ruotò per inquadrare Antonio Debresci che si piegava in avanti per vomitare, poi, come per un ripensamento, tornò di scatto sull’uomo seduto e zumò.

L’uomo seduto non aveva la faccia.

  

Undici mesi dopo.

 La lettera, consegnatagli nella mattinata del diciotto marzo, era contenuta in una busta inviatagli dai suoi genitori. Padre Salvatore Meraci, giovane prete da poco assegnato alla parrocchia di Santa Lucia in Forlì, si rigirò fra le mani per l’ennesima volta la seconda busta e tornò a leggerne il mittente: “Antonio Debresci, c/o Avv. Giovanni Capurno, via Aspromonte, 14, 90134 Palermo”.

Padre Salvatore aveva conosciuto sui banchi delle scuole medie, a Roma, un Antonio Debresci. Ma era stato una ventina d’anni prima, e da allora si erano persi di vista. Davvero non sapeva spiegarsi come Antonio, oggi, volesse mettersi in contatto con un ex compagno di classe, dopo così tanto tempo.

La lettera, inoltre, scritta a mano, con parole sparse in maiuscolo, era a dir poco demenziale. 

Palermo, 13 marzo.

Caro Salvatore, amico mio, ultima spes, cerca di capirmi, ricordi i pomeriggi a studiare il latino e le lingue morte e sconosciute? Ora sto impazzendo. QUESTA MIA vita È un REBUS. Devo confessarti che sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO.  NON POSSO CHIEDERE PERDONO A DIO PER QUESTO DELITTO. Non ho più altri cui potermi rivolgere… ed ho pensato a te. Vorrei poterti dire di più, se il destino mi aiuterà ti fornirò un altro messaggio. Ma non so se avrò la forza di scriverlo. Ti prego non dimenticarmi.

Il tuo amico… (seguiva una firma illeggibile).

“P.S.1: SIMPATICI ricordi. Morse e fuggi era il nostro motto, ricordi?

“P.S.2: Oggi è il 13… il 13 che si ripete. Codice 13, come dimenticarlo. 

L’indirizzo comunque non lasciava dubbi: era proprio per lui, inviata presso l’abitazione dei suoi genitori a Roma; che evidentemente l’amico Antonio Debresci non aveva dimenticato.

  

Padre Salvatore non sapeva risolversi se gettarla nella spazzatura e non pensarci più oppure… già, oppure che?

Chiese il parere del parroco.

Don Pasquino si rigirò lettera e busta per le mani. Lesse e rilesse.

«So io come fare» disse infine, e richiamò dalla rubrica del cellulare il numero del professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico. Gli spiegò il fatto. 

«Vediamo…!» Disse il professore.

Siccome abitava a due passi, fece la strada a piedi fino alla canonica.

«Mi sembra la lettera di un mentecatto… o di un mitomane. Io non ci darei peso più di tanto, ma, a scanso di qualsiasi scrupolo di coscienza voglio sentire l’opinione di Sirio.»

  

«Chiarissima!» Affermò Sirio.

Sei occhi lo fissavano quasi fosse stato un prestigiatore che annunciava di voler estrarre una tigre dal cilindro. 

«Caro Salvatore amico mio non ha bisogno di commenti mi pare; eravate amici o no?»

«Be’, sì, studiavamo insieme, il pomeriggio, quasi sempre a casa dei miei. Facevamo le scuole medie, lui aveva la passione dei linguaggi più inusuali. Ricordo che aveva studiato i sistemi di crittografia dei codici in uso presso i vari eserciti durante il corso dell’ultima guerra. Aveva una curiosità incredibile… se non comprendeva qualcosa ci si intestardiva fino a venirne a capo. Intelligente, sì, molto intelligente.»

«Bene. Quindi se si rivolge a lei in quanto ultima spes, ultima speranza, possiamo credergli; e prendere sul serio l’invocazione cerca di capirmi! Bene, capirlo, ma come? Ce lo spiega: le lingue morte e… soprattutto, sconosciute! Le parole, ora sto impazzendo, non necessitano di commenti. Ma perché impazzisce? Ce lo dice subito, però prima ci fornisce la “chiave” di lettura per accedere al messaggio: le prime parole scritte in maiuscolo. Proviamo a leggerle a se stanti: Questa mia è un rebus. La lettera, quindi, deve essere interpretata come un arcano il cui vero significato è nascosto. Andiamo avanti: Sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. Perché la virgola dopo uomo, quando la sua posizione naturale sarebbe prima della parola NON che segue?»

Si fermò e rivolse lo sguardo dall’uno all’altro dei tre.

«A questo punto devo raccontarvi una storia, che forse già conoscete ma è utile evocare.»


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"Indagini sulla morte di Betty"

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