Il poligono irregolare
Giovedì.
«Da queste parti ci abita una che conosco, si chiama Lisa» disse Ric
accanto al casco a barchetta di Marc.
Marc diede gas e fece impennare il
motorino, così Ric, che stava dietro, dovette abbracciarlo per non cadere.
In verità Marc si chiamava Marco e Ric
Enrico. Questa cosa dei nomi americani se l’era inventata qualcuno a inizio
anno scolastico e tutti l’avevano ripresa, anche qualche professore
progressista come il Tullio; la vecchia Triburzi invece, quella quasi
pretendeva che le dessero del lei. Il Tullio era giovane, era al primo anno di
insegnamento e li aveva messi al banco assieme, Ric e Marc.
Il motorino tornò sulle due ruote e Marc
chiese, girando un po’ la testa: «Ah… e com’è questa Lisetta?»
Marc era alto e robusto, dimostrava
diciott’anni invece dei quindici che aveva. Era alto, robusto e prepotente; il
duro della classe, quello che non aveva paura nemmeno del preside e che se non
gli andava di entrare se ne rimaneva a fumare appoggiato al muro accanto al
portone della scuola sfidando con lo sguardo la Triburzi, e anche il preside, a
dirgli qualcosa. Invece Ric non arrivava al metro e mezzo e pesava
quarantacinque chili. Ric si era trasferito da Bologna quest’anno e il Tullio,
il primo giorno, l’aveva messo al banco con Marc, dal momento che con lui
nessuno ci resisteva e stava solo. Invece loro due erano diventati amici e si
dividevano le sigarette di tabacco che comprava Ric e gli spinelli che Marc
rubava a suo padre. Sniffare non sniffavano, anche se Marc avrebbe potuto
attingere dalla scorta di suo padre; non sniffavano perché Marc non voleva
diventare come sua madre, che era più il tempo che passava al centro di
recupero di quello che stava a casa.
«È bionda… ha dodici anni» rispose Ric.
Che intendesse Marc l’aveva capito, ma non gli andava di raccontargli che era
magra, piatta e con l’apparecchio per i denti.
«Ah… e i suoi lavorano?»
Ric rispose senza rifletterci: «Sì,
tutt’e due». Poi capì il motivo vero della domanda e si pentì di avergliene
parlato.
Alle due del pomeriggio, in aprile,
Forlì dormicchiava, e per la zona dei villini avevano incontrato solo un paio
di ragazze in bicicletta e un vecchio col cane al guinzaglio; dai villini
arrivava soltanto il frusciare degli alberi e nessun altro sospiro.
«Be’» disse Marc «se abita qui, almeno è
ricca. L’andiamo a trovare?»
Ric non sapeva come uscirne.
«Ma no» disse «oggi non mi va, qualche
altra volta semmai…»
«Te la vuoi spassare da solo, eh macho» sghignazzò Marc.
Ric gli fece una risata accanto al
casco, voleva essere una risata da macho vero, ma non gli venne
troppo bene.
Marc diede gas e Ric dovette affrettarsi
ad abbracciarlo.
Il motorino si impennò un’altra volta.
Sirio, alle due del pomeriggio, ritornava a piedi
verso casa. Era giovedì, aveva pranzato alla mensa dell’università e pregustava
di andarsene in riviera per godersi un pomeriggio da Pasqualone e riflettere
sul caso del brevetto trafugato; il quale, così lineare nell’esposizione
dell’industriale Matteo Massolombardo, secondo Sirio presentava non secondari e
inquietanti risvolti morbosi. Ci rimuginava da lunedì sera, quando erano usciti
dalla riunione e Urbani aveva esclamato: «Finalmente un incarico semplice, ce lo
risolviamo in una settimana… mi sembrano quasi soldi rubati».
Poi,
siccome glielo aveva promesso, intorno alle otto doveva essere di nuovo a Forlì
per assistere alla semifinale del torneo di scacchi. Il professor Urbani gareggiava per accaparrarsi il titolo, per il
terzo anno consecutivo, e non gli avrebbe perdonato una defezione.
I
due adolescenti sul motorino uscirono dalla traversa giusto davanti a lui.
Quello alla guida robusto, con la fibbia del casco ciondoloni; l’altro minuto,
col naso a punta e gli occhi un po’ sporgenti; entrambi portavano al lobo
sinistro un orecchino, identici fra loro, due piccoli rubini sicuramente di
valore, sicuramente appartenuti a una donna. Sirio ragionò rapidamente sul
ventaglio di implicazioni possibili per cui gli orecchini di una donna fossero
finiti al lobo di due adolescenti. Imboccato il viale costeggiato dai villini
il motorino si impennò e percorse alcuni metri sulla ruota posteriore, col
ragazzo seduto dietro che abbracciava l’altro per non essere sbalzato di sella.
Sirio memorizzò la targa.
Lo stabilimento balneare di Pasqualone a Cesenatico in
aprile era chiuso. Ma Pasqualone teneva aperto il chiosco bar tutto l’anno, e a
richiesta faceva anche da mangiare. Ci campava.
Sirio
ci andava perfino d’inverno, se il tempo era buono e non aveva impegni. Ci si
trovava bene e Pasqualone, napoletano verace, era simpatico e metteva
buonumore.
Invece
quel giovedì tirava vento di tramontana sul litorale di Cesenatico, e Sirio
aveva chiesto a Pasqualone di sistemargli la sdraio da spiaggia in un cantuccio
del locale da cui, attraverso i vetri della portafinestra, poteva scorgere il
mare in burrasca.
Il
chiosco era fatto di robusta muratura e all’interno il frastuono dei marosi e
il sibilo del vento arrivavano attutiti.
Seduto
nella sdraio Sirio aveva ricostruito ogni dettaglio, ogni impressione
dell’incontro nell’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo.
Sirio
non credeva che la verità sia quella che ci si mostra, anzi, spesso è quella
che ci viene nascosta. La verità svelata, che concerneva l’ambito economico,
era il furto del brevetto da parte di un’azienda concorrente di un prodotto di
proprietà della Massolombardo
Farmaceutica. Le verità nascoste, al momento, rivestivano un carattere per
così dire… sentimentale. Ma soldi e sesso vanno spesso a braccetto, si sa.
Quanto
poi alla verità bell’e pronta del dipendente sorpreso a carpire i segreti
aziendali riversandoli su una pennetta USB… be’, troppo lineare, troppo
semplice per non meritare una verifica.
Non
c’erano altri avventori e Pasqualone, finito di lustrare il ripiano del banco,
riempì due bicchieri e venne da Sirio.
«Whiskey,
professore, di quello buono; ma ditemi, che vi succede? oggi non siete del vostro
solito umore.»
«Segga
accanto a me Pasqualone, le vorrei raccontare una storia, della quale,
purtroppo, non conosco ancora il finale. Le va di sentirla, o ha da fare?»
«Da
fare? No, no, con questo tempo non entrerà nessuno.»
Pasqualone
aprì una seconda sdraio accanto a Sirio e riuscì ad incastrarcisi.
«Tutto
comincia col furto di una molecola.»
«Una
molecola, professo’?»
«Già,
un integratore per gli sportivi…»
«E
chi l’ha rubato?»
«È quanto dobbiamo scoprire, caro
Pasqualone. Ma cominciamo dall’inizio.»
Il lunedì
precedente.
La
segretaria bionda e perfetta che aveva aperto sovrastava il professore di tutta
la testa.
«Puntualissimi»
sorrise lanciando un’occhiata all’orologio digitale appeso sopra il tornello
per le presenze dei dipendenti, che in quel momento era scattato a segnare le 19:01 di Lun. 12 Apr. «Sono tutti di là. Faccio strada.»
Le
mannequin sulla passerella spostano avanti il piede in modo da appoggiarlo su
una linea all’interno dell’altro. Dà loro eleganza. E comporta lo spostamento di
lato dell’anca, molto seducente; specie se osservato di spalle. Ebbene la
segretaria, più sobria, allineava il tacco del piede che spingeva avanti alla
punta dell’altro, senza per questo risultare meno seducente o elegante; cosa
che Sirio poté apprezzare per il breve tratto del corridoio in cui li
precedette.
L’ufficio
dell’industriale Matteo Massolombardo era vasto e luminoso. L’ampia finestra
affacciava sullo stabilimento e due basse ciminiere dissolvevano nell’aria un
filamento di fumo bianco. Al di qua di una scrivania di ultima generazione col
piano di cristallo tanto lucido da credere che fosse refrattario alla polvere,
sedevano un uomo atletico sui quaranta e una donna molto bella, che si
voltarono subito verso la porta, due sorrisi da Beautiful della prima stagione televisiva. L’industriale
Massolombardo, doppiopetto gessato, capelli sale e pepe ancora folti pettinati
indietro, si alzò dalla scrivania e venne ad abbracciare il professore, suo
vecchio compagno di scuola.
La
stessa età eppure così diversi.
Il
professore, la testa con qualche capello bianco all’intorno appoggiata su un
corpo a forma di uovo, presentò Sirio come: «Il mio assistente».
L’industriale
appoggiò la mano sulla spalla della bella signora dallo splendido sorriso: «Mia
moglie Eleonora, nonché Presidente della Massolombardo
Farmaceutica e socio di maggioranza», quindi su quella del quarantenne
atletico «e Giorgio Dediscentis, il mio legale, nonché amico».
Tutti
presero posto attorno allo scrittoio, il professore al centro, l’avvocato e la
bella moglie alla sua sinistra e Sirio a destra, un po’ arretrato, in quanto Assistente; mentre la segretaria bionda,
a un cenno d’assenso di Matteo Massolombardo faceva la spola fra un tavolino
imbandito e gli ospiti per porgere tazzine di caffè, liquori e pasticcini, impegnata
nell’esercizio impossibile di non voltare le spalle a nessuno mentre si
chinava. Nel porgere l’ultima tazzina, quella destinata al titolare, si protese
verso lo scrittoio nello spazio ristretto fra le sedie di Urbani e Dediscentis.
Nessuno avrebbe dovuto vedere, e nessuno avrebbe potuto vedere la mano di
Dediscentis infilarsi sotto la gonna e indugiare in una carezza sulle belle
gambe, se non Sirio, dalla sua posizione arretrata.
«Cercherò
di essere breve» esordì Matteo Massolombardo girando il cucchiaino nel caffè e
rivolgendosi al professore «come sai noi produciamo essenzialmente integratori
per lo sport. È un mercato inflazionato, per cui è inevitabile scontrarsi con
una concorrenza spietata. La soluzione è distinguersi, rinverdire, prendere le
distanze dagli altri produttori, soprattutto rinnovare l’offerta. Così, circa
un anno fa ho incaricato il nostro settore di ricerca affinché studiasse una
nuova miscela energizzante da destinare agli sportivi. Un investimento di ordine
economico considerevole, giunto finalmente a maturazione e pronto a ripagarci
con risultati concreti.»
La
segretaria bionda prese a ritirare tazzine e bicchieri.
Questa
volta, per raggiungere Massolombardo, girò attorno allo scrittoio.
Esiste
una distanza minima, una specie di aura individuale che viene inconsapevolmente
rispettata. Varia in base a motivi legati alla cultura del posto. Negli Stati
Uniti è stimata intorno ai centoventi centimetri, in Italia scende a circa
sessanta fra gli estranei per arrivare a quaranta fra conoscenti e amici. Il
contatto fisico, al difuori delle strette di mano e degli abbracci di saluto è
limitato ai familiari o alle persone intime. Nel prendere la tazzina la
segretaria bionda appoggiò il seno alla spalla di Massolombardo, e lui non si
ritrasse. Forse non se ne rese conto, perché stava dicendo:
«Ebbene,
finalmente il nuovo prodotto era pronto; decidemmo di chiamarlo Besmance, avevamo anche lo slogan, The best for your performance, se non
che, al momento di depositare la richiesta di brevetto scoprimmo che era stata
presentata la settimana precedente un’istanza per la nostra stessa molecola dalla
Interium, un’azienda nostra concorrente.»
«Spionaggio
industriale» esclamò il professore.
«Bravo»
si diede una pacca sul ginocchio Massolombardo «più precisamente furto di informazioni aziendali riservate…»
«Che
intendi?» domandò il professore.
«Che non c’è stato spionaggio
dall’esterno, la nostra molecola è stata trafugata da qualcuno all’interno. E
sappiamo anche chi è.»
Sempre
giovedì.
Nel
parco comunale che delimitava il quartiere dei villini era vietato introdurre
motocicli. Marc, questo era certo, il motorino incustodito non lo lasciava;
così si fermarono alla prima panchina, ombreggiata da un pino, in modo da
tenerlo d’occhio; sedettero sulla spalliera e appoggiarono i piedi sulla
seduta, le guance sui pugni, i gomiti sulle ginocchia. Ogni tanto passava
qualcuno in pantaloncini e canotta e correndo faceva scricchiolare la ghiaia,
ma per lo più era silenzio, il ronzio del trafficò, al di là della siepe lungo
il perimetro, quasi non arrivava. Avevano mangiato un panino fuori dalla
bottega del pane e Ric aveva pagato le birre; un paio se l’erano scolate mentre
mangiavano e la terza era posata vicino ai piedi fra loro; ogni tanto si
chinavano a prenderla e mandavano giù un sorso, a turno. Poi riappoggiavano le
guance sui pugni.
Un
po’ veniva sonno.
Ric
pensava a Lisa, la ragazzina che abitava ai villini. L’aveva conosciuta
l’estate precedente al lido, avevano gli ombrelloni vicini e i genitori avevano
preso discorso e anche loro due si erano parlati e avevano fatto il bagno
assieme. Negli ultimi giorni erano anche usciti, con altri ragazzi che
conosceva lei, a prendere il gelato e passeggiare sul lungomare. A Ric un po’
gli piaceva, ma non le aveva detto niente. All’inizio perché gli sembrava
presto, poi perché a giorni si sarebbero separati; lui per tornare a Bologna, lei
a Forlì. Ric si diceva che si sarebbero potuti sentire, scambiarsi le foto
tramite WhatsApp come facevano un po’ tutti… ma quando poi stava con lei
rimandava e insomma non gliel’aveva detto.
A
settembre la famiglia di Ric si era trasferita a Forlì.
Sua
madre, infermiera, aveva finalmente ottenuto il trasferimento e sarebbe potuta
stare vicina ai genitori, anziani, che non stavano troppo bene; e suo padre,
che era magazziniere, avrebbe pendolato da Forlì a Imola che tanto già
pendolava da Bologna e, fatti i conti, ci voleva stesso tempo e stessa spesa.
Così
un pomeriggio che Ric stava con la madre fuori dal centro commerciale vicino al
Parco della Resistenza avevano incontrato la madre di Lisetta. Come stai? Come mai qui…? Insomma erano
finiti a casa sua a prendere il tè. E Ric aveva rivisto Lisa, si erano chiusi
nella sua cameretta e lei gli aveva mostrato sul tablet le fotografie
dell’estate e gli aveva fatto leggere certe poesie che ogni tanto scriveva lei,
perché le piaceva scriverle.
Poi
non si erano più rivisti.
Sua
madre qualche volta nominava la madre di Lisa e di andarli a trovare, ma suo
padre non era propenso, diceva che non
gli pareva il caso, che gli sembravano gente snob, e lui col marito di lei non
ci si ritrovava perché non c’erano argomenti in comune.
Così
non se n’era fatto niente.
Adesso
pensava di potarci andare con Marc, e fantasticava di come sarebbe stato e di
che si sarebbero detti… ma poi no, non era una buona idea di andarci con Marc.
Arrivarono
due guardie del comune, due donne, con la divisa bianca e il berretto; una era
robusta e la divisa le schiacciava il seno, l’altra magra, col naso a becco.
Indossavano i guanti di garza bianca. Quella robusta fece di no col dito e Ric
capì e si lasciò scivolare fino a sedersi per bene; e subito invidiò Marc, che
al solito se n’era fregato, da vero macho.
Le
due vigilesse fecero finta di nulla e tirarono dritto chiacchierando fra loro.
Marc
gli bussò sulla spalla e gli porse uno spinello. Accese il suo con l’accendino
e glielo passò.
«Che
dici, ci andiamo dalla tua amichetta del villino?»
Il
sapore del fumo era dolce, e gli dava subito alla testa… un passero saltellò
sulla ghiaia qualche metro più in là e gli sembrò molto buffo, gli venne da
ridere.
«No,
no, oggi no. Qualche altro giorno ci andiamo.»
Dovette
scivolare in avanti per poter appoggiare la testa alla spalliera. Guardò Marc,
che sembrava una torre puntata verso il cielo, stava aspirando con la testa
rivolta verso l’alto, teneva dentro il fumo e poi ne soffiava un poco guardando
in su.
Ric
chiuse gli occhi, perché gli veniva da vomitare, ma non poteva farlo, perché
sarebbe stata la fine anche con Marc, così prese aria e tenne gli occhi chiusi,
sperando di riprendersi presto. Sentì Marc che diceva:
«E
che fanno i genitori della tua amichetta, che vivono ai villini?»
«I
ricercatori.»
«E
che mestiere è? Ci si guadagna bene?»
«Boh? Una casa farmaceutica, forse
inventano medicine.»
Pasqualone vuotò il bicchiere in un sorso.
«Professo’,
ma che… la segretaria se l’intende con l’avvocato e pure col principale? Un
triangolo insomma.»
«Sembrerebbe…
Ma cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate. Erano soltanto
impressioni, al momento.»
«Se
lo dite voi…!»
Pasqualone si grattò la tempia: «Ma poi,
se hanno scoperto il ladro, dal professore amico vostro, che vogliono? Andate
avanti professo’, che sta cosa va chiarita».
La segretaria bionda aveva passato una cartella al
professore.
«È
tutto nel dossier» aveva detto l’industriale Matteo Massolombardo indicando la
cartella, quindi aveva teso la mano verso l’avvocato Giorgio Dediscentis, come
a dire: Tocca a te.
La
segretaria bionda già pronta alle spalle dell’avvocato con un personal computer
acceso glielo passò.
«Guardate!»
Dediscentis
aveva una voce profonda e carezzevole. Scandiva ogni parola come concentrato
affinché avesse la giusta intonazione. Premette il tasto di invio e rivolse lo schermo verso il
professor Urbani.
Un
uomo dall’ampia stempiatura, in camice da laboratorio, era ripreso dall’alto. A
bordo immagine la stampigliatura della data di una diecina di giorni prima e
l’orario: 17:58.
«Quest’uomo
si chiama Antonio Diroberto, è il tecnico cui era stato affidato l’incarico di
realizzare la molecola. Bene, sul suo monitor potete vedere che sta copiando la
cartella del Besmance su una pennetta
USB.»
Dediscentis
zumò in maniera tale che potessero distinguere i dettagli.
«Bene,
adesso ponete attenzione alla telefonata che sta per ricevere.»
Sul
tavolo del tecnico di laboratorio ronzò un telefono cellulare, invisibile,
perché l’uomo col suo corpo lo copriva alla telecamera: «Pronto».
L’uomo
ascoltò. Poi disse: «Sto copiando adesso il file».
Ascoltò.
«Va
bene, te lo porto subito.»
Dediscentis
mise in pausa.
«Come
vedete» disse «abbiamo il colpevole.»
«Perché
non lo denunciate?» chiese il professor Urbani.
«Non
possiamo esibire questa prova. Le leggi sulla privacy ci vietano di effettuare
riprese video dei dipendenti durante il lavoro. Ma…»
Era
il re dell’oratoria Dediscentis, aveva pensato Sirio, perfino le pause a effetto.
Dediscentis
riprese, riavviando la registrazione:
«Come
potete notare, il tecnico Antonio Diroberto risponde alla telefonata alle
diciotto e zero due, ed estrae la memoria USB alle diciotto e zero quattro.
Tutto quello che accade dalle diciotto, termine dell’orario di lavoro, in poi,
può essere oggetto di prova a carico. Ma c’è di più…» altra pausa a effetto,
prolungata, interminabile «il tecnico Antonio Diroberto, da quel giorno, non si
è più presentato al lavoro. È scomparso!»
Il
professor Anselmo Urbani si schiarì la voce: «In conclusione cosa vi aspettate
che io faccia?»
L’industriale
Matteo Massolombardo disse: «Anselmo, la Massalombardo
Farm ha investito capitali ingenti in questo progetto. Se non torniamo in
possesso della formula e avviamo la produzione si rischia la bancarotta. Questo
significa che il ladro, quell’analista, deve essere giudicato colpevole, in
modo tale da indurre la Interium a
restituire il brevetto.»
«Capisce
professore l’importanza della cosa?» si intromise la bella signora Eleonora.
L’avvocato,
per non essere da meno, scattò in piedi; sembrava volesse gridare Vostro onore mi oppongo. Brandiva il portatile
come Mosè le Tavole della legge.
«Dobbiamo
inchiodare quest’uomo! Vogliamo una perizia autorevole e circostanziata da
presentare nel momento in cui decideremo di adire le vie legali! Il suo
incarico consiste in questo!»
Il
piano di cristallo refrattario alla polvere era sostenuto da lucentissime gambe
di acciaio: Specchi.
Nessuno
avrebbe dovuto vedere, nessuno avrebbe potuto vedere se la gamba più prossima
alla signora Eleonora non l’avesse riflessa mentre infilava la mano sotto il
cavallo dei calzoni dell’avvocato, in un gesto intimo, orgoglioso e complice.
E Sirio la vide.
Pasqualone si menò una fragorosa pacca sulla coscia.
«Professo’,
ma allora la moglie se l’intende coll’avvocato! Un altro triangolo!»
Nella
foga scosse il proprio bicchiere, che era vuoto, l’appoggiò e prese quello di
Sirio, che era pieno. Lo vuotò d’un sorso. Si puntò entrambi gli indici alle
tempie.
«Insomma,
se capisco bene. La segretaria se l’intende col principale e l’avvocato. L’avvocato
con la moglie del principale e la sua segretaria; il principale… altro che
triangoli, questo è un politico irrazionale! No. Com’è che si dice, professo’?»
«Poligono
irregolare.»
«Ecco,
bravo, quello! E poi c’è la faccenda del furto della molecola.»
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