giovedì 11 maggio 2023

Un caso anomalo - Racconto


 

Un caso anomalo

1

 

Il mese di giugno del duemilacinque era stato particolarmente torrido, in Sicilia, e non sembrava che luglio sarebbe stato da meno. Molti corsi d’acqua si erano prosciugati, la siccità danneggiava le colture e, fatto curioso, nelle zone rurali, specie in prossimità di fattorie, stalle o altri assembramenti di bestiame, malgrado le ripetute disinfestazioni si verificava una recrudescenza allarmante di Calliphora vomitoria, più comunemente detto moscone della carne.

Nel resto d’Italia, tutto questo arrivava attraverso i notiziari.

A Forlì, alle due del pomeriggio, il professor Anselmo Urbani, disteso sul divano, che giusto il giorno precedente aveva spostato sotto il getto del condizionatore, spense la televisione e si tirò su a sedere.

Il medico, dopo aver sbuffato alla lettura degli esami ematici, gli aveva raccomandato di evitare la pennichella postprandiale e di soprassedere al consumo di carni rosse, alcoolici e dolciumi e, soprattutto, di fare ogni giorno una passeggiata di almeno un’ora, preferibilmente fuori di città, immerso nella natura, se voleva abbassare colesterolo, glicemia e tutta una serie di valori – che aveva enumerato con sadico puntiglio – pena più serie patologie che, dietro l’angolo, in agguato, lo aspettavano.

Urbani strinse i pugni e allargò le braccia, stirandosi con quanta più energia gli fu possibile (era pur sempre attività fisica… o no?), quindi si avvicinò alla finestra, che stava esattamente sotto la bocchetta dell’aria gelida. Fuori la calura riverberava lungo la fascia d’asfalto della strada, oltre gli zampilli intermittenti che irrigavano il prato all’inglese. Il professore sbuffò, decidendo di rinviare la passeggiata a dopo il tramonto, quindi, con calma, si spostò verso il tavolo a centro stanza, sul quale, rincasando dal lavoro, aveva abbandonato la corrispondenza arrivata quella mattina.

La lettera, ripiegata due volte all’uso commerciale e contenuta in una busta con la finestra trasparente, proveniva da Palermo. Al disotto delle intestazioni affiancate del Ministero della Giustizia e della Regione Sicilia, che sponsorizzavano l’iniziativa, così recitava: “Oggetto: Seminario sulle procedure atte a contrastare la criminalità organizzata”.

Urbani lesse rapidamente il testo:

“Egregio professore, facendo seguito ai contatti telefonici intercorsi, confermiamo che il Suo intervento è programmato per lunedì 11 luglio p.v. alle ore… In attesa di incontrarLa… Cordialmente…”

Al foglio erano spillati i biglietti aerei e la prenotazione per due stanze presso il Superior Hotel di Palermo.

Il professore se ne era completamente dimenticato.

Con preoccupazione tornò a guardare, fuori dalla finestra, la luce incandescente che colorava di arancione la chioma del pino davanti alla casa. E si trovava a Forlì, figuriamoci cosa poteva essere Palermo! Poi il discorso… roba del mese passato! A proposito, che ne era stato del discorso?

Chiamò Sirio.

Si erano lasciati non più di tre ora prima, in facoltà, dopo una lezione sugli alibi contraffatti e i moventi fuorvianti.

«Dove sei?» quasi l’aggredì, quando rispose.

«In riviera.»

Immaginò il corpo tonico del suo allievo disteso al sole.

«Che fai?»

«Sdraiato su un telo.»

Ho indovinato! Si congratulò con se stesso.

Qualche giorno prima, aveva sorpreso una studentessa del terzo anno mentre gli strapazzava il naso da pugile. Immaginò che fossero insieme.

«Con chi?» domandò, curioso.

«Con… Professore, perché tutte queste domande?»

Urbani, lisciandosi il pizzo bianco della barba, sorrise fra sé per la propria arguzia.

«È arrivato l’invito a quel seminario sulla mafia,» spiegò allo studente, «non ricordo dove ho messo il discorso che avevo preparato.»

«Non può ricordarlo,» giunse, dopo una risata, la voce del suo giovane amico, «perché non ha preparato alcun discorso.»

Gli sovvenne che il ragazzo si era offerto di redigerlo al posto suo. Finse di non averlo mai dimenticato:

«Appunto… quando me lo porti?»

«Già fatto,» esclamò il suo allievo preferito, «l’ha infilato nel primo cassetto dello scrittoio, nello studio.»

Urbani, fingendo un black-out per non doversi giustificare, chiuse la comunicazione.


 

2

Nella vasta sala conferenze del Superior Hotel di Palermo, Sirio aveva preso posto in una poltrona d’angolo dell’ultima fila, da cui abbracciava l’ambiente intero. Nel prestare orecchio ai relatori che a turno si spostavano dal lungo tavolo fino al leggio, replicati sul maxi schermo affisso alla parete di fondo, osservava i presenti, li catalogava, li suddivideva per gruppi omogenei. Personalità politiche occupavano la prima e la seconda fila, rigorosamente in ordine di importanza nella gerarchia nazionale, regionale e comunale; rappresentanti delle varie forze di polizia, di cui alcuni in uniforme; poi cronisti, sia di testate nazionali che locali, fra i quali spiccavano più o meno noti volti del piccolo schermo.

Il relatore di turno, fra altri luoghi comuni, allarmismi e assicurazioni circa le incisive azioni di controffensiva delle Istituzioni, si accalorava, affermando come la criminalità organizzata quasi ostentasse i propri crimini, incurante delle leggi e con disprezzo spudorato nei confronti della giustizia e dello Stato.

Sirio notò il giornalista, sui cinquanta, baffetti sottili e occhiali cerchiati di nero. Sedeva con le gambe accavallate e le braccia conserte in una poltrona lungo il corridoio. Lo notò per via della custodia a tracolla marchiata Nikon e per il fatto che, al contrario di altri suoi colleghi, non effettuava riprese né scattava fotografie dell’evento; anzi, sembrava, non tanto annoiarsi, quanto subirlo.

Dal palco venne annunciato un break coffee: potevano accomodarsi nella sala adiacente.

Sirio e Urbani si ritrovarono accanto a un maresciallo dei carabinieri in divisa, in fila al tavolo del buffet, un cinquantenne con i baffi folti, curati, con i capelli segnati dalle prime striature.

«Io la conosco,» disse a Urbani, voltandosi, dopo aver ordinato un caffè. Urbani rimase a osservarlo interdetto, tenendo in equilibrio un cumulo di pasticcini, in bilico nel piatto che sosteneva all’altezza del mento.

«Lei non può ricordare,» gli venne in soccorso il maresciallo, «sedevamo vicini alla prima dell’Aida, al teatro comunale di Bologna, due anni fa. Ci siamo presentati e abbiamo scambiato qualche commento durante l’intervallo, nel foyer. Io mi chiamo Achille Preposti e lei è il professor Urbani, se non ricordo male.»

«Una memoria notevole,» ricambiò il sorriso il professore, con il piatto nella destra e un pasticcino tra il pollice e l’indice della sinistra, agitandosi nell’impossibile tentativo di porgergli la mano.

Sirio notò il cronista con la macchina fotografica a tracolla che si avvicinava.

«Ah, il maresciallo Preposti…» disse, ignorando sia il professore che Sirio.

L’altro ne sembrò scontento: «Oggi la Nikon è rimasta nella custodia…»

«Non le sfugge niente! D’altra parte, cosa c’era da immortalare? Un susseguirsi di pseudo esperti e tuttologi?»

Preposti si schiarì la voce, rivolgendosi al professore: «Le presento Giulio Cassioro».

Seguirono strette di mano.

Urbani presentò Sirio a entrambi.

«Il prossimo intervento è il suo,» disse Preposti al professore.

«Già,» rispose Urbani, con un sorrisetto schivo che lo fece assomigliare al Poirot degli sceneggiati, «dovrò disquisire di mafia… io che vengo da Forlì.»

Il giornalista sembrò sul punto di intromettersi, ma il trillo di un cellulare e il maresciallo che lo estraeva di tasca, lo bloccarono.

«Pronto,» rispose Preposti, facendo un passo indietro.

Chi era all’altro capo della linea possedeva una voce squillante e concitata: «Maresciallo, abbiamo trovato l’assessore… è morto!»

Preposti sembrò chiudersi attorno al telefono. Si allontanò ancora.

Altri telefoni avevano cominciato a squillare.

Urbani si rivolse al cronista:

«Assessore? Morto?»

Cassioro, adesso, sembrava elettrizzato, si guardava attorno, come assimilando l’animazione che si andava diffondendo nella sala.

«Riccardo Pellosi,» rispose al professore, «era scomparso da alcuni giorni. Venga, lei che proviene da Forlì… se vuole erudirsi sui metodi della mafia. Non si preoccupi per il suo discorso sul palco, tanto qui, fra cinque minuti, non ci sarà più nessuno.»

Infatti la sala si andava vuotando.

Magistrati e funzionari di polizia rispondevano ai telefoni cellulari, si scambiavano commenti, informavano i politici che li assediavano curiosi. I cronisti orecchiavano, chiamavano le redazioni.

A quanto pareva le notizie scorrevano di bocca in bocca a una velocità incredibile e tutti, a quanto pareva, sapevano esattamente cosa fare e dove recarsi.

Sirio e il professore tennero dietro a Cassioro.

«Salite,» disse il giornalista, facendo scattare l’apertura di una Fiat Seicento celeste.

Con qualche contorcimento Sirio riuscì a salire dietro, sul sedile ingombro da scatole e buste in pvc piene di qualcosa. Urbani si compresse al posto del passeggero.

Cassioro partì facendo stridere le ruote sull’asfalto e riuscì, costringendo le autovetture che sopravvenivano a brusche frenate e manovre azzardate, a collocarsi dietro un’autopattuglia dei carabinieri che, lampeggianti e sirena accesi, si stava avviando in quel momento.


 

3

Quando fu chiaro che la piccola Fiat non avrebbe potuto tener dietro alle volanti, Giulio Cassioro chiamò qualcuno col cellulare:

«Dov’è il morto?»

Rimase in ascolto qualche secondo, poi lasciò cadere l’apparecchio sul cruscotto. Il traffico cittadino, che fin quando seguivano i carabinieri si apriva per lasciarli passare, si era richiuso davanti a loro, ma il giornalista, ignorando segnaletica e colore dei semafori, tirava dritto senza rallentare, incurante di clacson, frenate e imprecazioni degli altri automobilisti.

Il professore aveva allentato la cravatta, aveva aperto i primi bottoni della camicia, sudava. Non soltanto, forse, per l’alito ardente che entrava dai finestrini aperti o perché non aveva avuto il tempo di togliere la giacca. Impugnava con la destra la maniglia sotto il tettuccio e con la sinistra distesa cercava di puntellarsi contro il cruscotto della vetturetta.

«Io non volevo venire…» si lamentò.

Raggiunsero una strada fuori città, talmente stretta da non consentire il sorpasso, e dovettero incolonnarsi. Cassioro voltò la testa verso di loro.

«Pellosi è scomparso da tre giorni ed è da tre giorni che lo ripeto: Lo ritrovate imbottito di pallettoni da cinghiale!»

«Come mai questa certezza?» chiese Sirio, sporgendosi nello spazio fra i due sedili anteriori.

«Voce di popolo, voce di Dio,» esclamò il giornalista, «è il mio mestiere. Io ascolto. Su quest’isola non esistono i segreti, le voci scorrono sotto la superficie, come l’acqua dolce di certe sorgenti che affiorano dagli scogli al disotto di quella salata del mare. La distingui ma non la vedi, se la percepisci è solo nella trasparenza. Qui, tutti ascoltano, ma nessuno parla. L’assessore Pellosi, per semplificare, da una parte contraccambiava piaceri a personaggi in odore di mafia, dall’altra vendeva favori ai poveracci… assunzioni in Comune, sovvenzioni statali agli agricoltori, sgravi fiscali… e chi sa cos’altro. La gente parla, fa il passaparola.»

«Un uomo potente…» insinuò Sirio.

«Qui, se hai le protezioni giuste, lo sei, potente!»

«Ma allora, perché ucciderlo?» domandò Urbani.

Cassioro, affrontando una curva senza rallentare, disse:

«È tutto da scoprire. Di sicuro ha fatto uno sgarbo a qualcuno che conta, non so se mi spiego… e badate bene che io non ho paura a pronunciare la parola mafia. Ma ecco, siamo arrivati».


 

 

4

Autovetture e furgoni con le sigle delle reti televisive sostavano lungo le siepi che costeggiavano i due bordi della strada. Un cordone di poliziotti impediva l’accesso a un viottolo sterrato che si inoltrava nella campagna.

«Stampa,» esibì il tesserino Cassioro.

Il poliziotto si limitò a fargli un cenno col mento.

«Laggiù, con gli altri».

Raggiunsero un ponticello.

Fra i parapetti di mattoni, era assembrata una piccola folla. I cronisti puntavano telecamere e macchine fotografiche provviste di teleobiettivo verso un punto preciso, nel greto del torrente in secca.

Sirio e Urbani seguirono Cassioro.

Il professore aveva lasciato la giacca sul sedile e aveva rimboccato le maniche della camicia chiazzata di sudore. Si deterse la faccia col fazzoletto.

«Che ci faccio qui?» sospirò.

Il letto del torrente, largo circa quattro metri, che d’inverno doveva portare acque impetuose, era ridotto a una pietraia che riverberava sotto il sole allo zenit.

A circa quindici metri, il corpo dell’assessore giaceva fra i ciottoli, coperto da un panno bianco. Un uomo dalla corporatura possente a giudicare dal gonfiore in corrispondenza dello stomaco. Dal panno sporgevano ginocchia, caviglie e piedi enormi. Alcuni agenti del RIS, in tuta, guanti e calzari bianchi, si muovevano lì attorno. Più oltre, a distanza, Sirio riconobbe il maresciallo Preposti assieme ad altri agenti in divisa e ad alcuni personaggi in borghese, probabilmente i magistrati. Altri poliziotti perlustravano gli argini, chinandosi a scrutare tra la vegetazione.

Giulio Cassioro, montato il teleobiettivo, scattava in successione. Per liberarsi le mani aveva ceduto il binocolo a Sirio. Urbani, qualche passo dietro la folla stipata dei giornalisti, si limitava a sbuffare e ad asciugarsi la fronte col fazzoletto. Gli inviati dei telegiornali sceglievano le inquadrature e parlavano ai microfoni, davanti alle telecamere.

Sirio puntò il binocolo. Il lenzuolo che copriva il cadavere era punteggiato di grossi mosconi verdi. Sciamavano, si ammassavano sulle macchie scure del sangue, che spiccavano all’altezza del torace e delle mani del morto, si infilavano o fuggivano dai lembi. Una donna in tuta bianca con la stampigliatura dei RIS si chinò per fotografare qualcosa fra la ghiaia. Sirio la seguì col cannocchiale, mentre raccoglieva l’oggetto, qualcosa di pendulo, che inseriva in una bustina trasparente per i reperti.

Non era riuscito a distinguere.

«Ha raccolto un bracciale,» disse Cassioro spostando il teleobiettivo della Nikon, come se gli avesse letto nel pensiero, «al computer vedremo meglio.»

Un elicottero della polizia stava sorvolando la zona e perlustrava le due sponde. Durante uno dei passaggi discese sulla perpendicolare del cadavere, stazionò qualche attimo, poi riprese quota e proseguì.

Trascorsa un’oretta, sul ponticello l’attenzione andava scemando, molti parlottavano ai cellulari, altri scambiavano commenti. Urbani si sventolava col fazzoletto, seduto su un masso all’ombra di un ulivo. Cassioro seguitava imperterrito a fotografare.

«Lo portano via,» disse qualcuno.

I barellieri si stavano avvicinando al cadavere, incespicando nei ciottoli. Erano le due del pomeriggio, la temperatura superava i quaranta gradi, i mosconi ronzavano sulla piccola folla ammassata, che adesso tornava a interessarsi di quanto si svolgeva nella pietraia.

I barellieri appoggiarono la lettiga e rimossero il lenzuolo.

Alcuni poliziotti si erano schierati per formare un schermo, ma il ponticello si trovava più in alto di loro. I Clik degli otturatori continuarono a susseguirsi in un crescendo frenetico.

Poi qualcuno, fra quelli che osservavano la scena, si voltò di scatto, ci furono esclamazioni di raccapriccio.

Mosconi verdi sciamarono dal sangue aggrumato sui moncherini delle mani amputate.


 

5

L’ambulanza si era allontanata sobbalzando, seguita da alcune autopattuglie e da qualche veicolo senza insegne. Il maresciallo Achille Preposti seguitava a dare indicazioni ai vari agenti ancora impegnati a individuare eventuali tracce. Quando infine andò verso il ponticello, i cronisti lo circondarono.

Sirio e il professore, che finalmente aveva rinunciato all’ombra dell’ulivo per avvicinarsi, si tennero qualche passo indietro; Giulio Cassioro predispose lo smartphone alla registrazione.

Ci fu un concitato susseguirsi di domande:

«Come è stato ucciso?»

«Avete ritrovato l’arma?»

«A quando risale la morte?»

«Avete dei sospetti?»

Il maresciallo attese che facessero silenzio, scostò i microfoni più pressanti, lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro:

«Signori, posso dirvi ben poco, come vedete le indagini sono appena all’inizio. È stato ucciso da un unico colpo di pistola al cuore, sparato a bruciapelo… e l’arma non è stata ritrovata».

«Avete dei sospetti?» insistette il cronista molto giovane che aveva parlato poco prima.

Il maresciallo evitò di guardarlo, qualche suo collega non poté trattenere un sorriso, un poliziotto scosse la testa.

«Ma la morte,» chiese un altro del gruppo, «a quando risale?»

Preposti si voltò verso di lui, un reporter sulla sessantina.

«Sarà necessario attendere i risultati dell’autopsia.»

«È morto qui o ce l’hanno portato?» chiese l’inviata di una TV locale.

«Siamo propensi a ritenere che sia stato ucciso altrove e che poi il corpo sia stato abbandonato dove l’avete visto. C’è un viottolo sterrato che corre lungo il greto del fiume, lo attraversa e prosegue sull’altro versante. Sul terreno soffice e nella sabbia ci sono diverse tracce di pneumatici. Però, per saperne di più, bisognerà aspettare i risultati delle indagini scientifiche.»

La voce acuta della cronista di una televisione nazionale sovrastò quella degli altri:

«Le mani, perché mutilargli le mani?».

Il maresciallo le concesse un sorriso condiscendente: «Questo, al momento, nessuno può saperlo, se non l’autore del crimine».

«Ma… sono state ritrovate?» insistette lei, con una smorfia di disgusto.

«No,» rispose il maresciallo, «no, le mani non erano vicino al corpo e non sono state trovate, come non è stato rinvenuto lo strumento utilizzato per mozzarle; probabilmente una mannaia o un grosso coltello da macellaio, a giudicare dai tagli netti sui polsi.»

Le risposte del maresciallo, notò Sirio, pur non essendo evasive, erano sempre ponderate.

Giulio Cassioro si fece spazio fra i colleghi.

Seguì un attimo di silenzio rispettoso.

«Il movente,» disse, «da tempo, da più parti, si bisbiglia che l’assessore fosse in odore di mafia. Pensa che avesse fatto qualche sgarro alla Cupola e, per questo, le mani troncate?»

Era chiaro, il giornalista più che una domanda, stava cercando di far passare una sua ipotesi, ma il maresciallo non cadde nel tranello:

«Ripeto, le indagini sono appena all’inizio. Qualsiasi congettura rimane da dimostrare. Adesso vogliate scusarmi, non posso aggiungere altro».

Si stava avviando verso l’auto di servizio, seguito dai suoi uomini, quando li levò, sopra al brusio diffuso, la voce acerba dell’inviato molto giovane:

«Avete dei sospetti?»


 

6

Sirio era scettico, circa l’opinione di Giulio Cassioro.

Il giornalista propendeva per l’omicidio di mafia, motivando la mutilazione inferta al cadavere come un messaggio, un monito per chi in futuro l’avesse avversata.

«I criminali comuni,» insistette Cassioro, mentre nella piccola Fiat procedevano per tornare all’hotel Superior, «camuffano il delitto, seminano false piste, si nascondono. Invece mafia e terrorismo lo ostentano, la prima in segno di disprezzo nei confronti dello Stato, l’altro mirando a soppiantarlo. I crimini perpetrati dalle organizzazioni mafiose, per tornare al nostro caso, sono eclatanti, per dimostrare potere ed esprimere disprezzo, se non derisione, nei confronti della legge costituita.»

«È una visione, rispettabile, ma esclusivamente da cronista,» replicò Sirio, «un investigatore non può avere opinioni preconcette.»

L’altro si stava infervorando: «Io vivo in questo paese e lo conosco. Qui vigono regole diverse che altrove. L’omertà…».

«Le tre scimmiette,» l’interruppe serafico Urbani.

Finora se n’era rimasto a occhi chiusi appoggiato allo schienale, lasciando che l’aria calda che entrava dai finestrini gli scorresse sul viso. Parlò senza spostarsi, muovendo appena le labbra:

«Non vedo, non sento e non parlo. Le mani mozzate… un monito minaccioso, come il sasso in bocca per le spie o i genitali strappati ai molestatori. È questo che intende? Ma allora, perché il colpo di pistola e non di lupara?».

«I tempi cambiano, evolvono,» rispose Cassioro.

«Eh no,» il tono perentorio dell’esclamazione strideva con l’immobilità rilassata del professore, «eh no, se le mani mozzate volevano essere una firma, l’uso dell’arma sbagliata la cancella. Anzi fa pensare che l’omicida stia tentando di mascherare il movente, per precostruirsi un alibi. Come a dire: se sono stati loro, non sono stato io.»

Sirio conosceva il professore da anni, sapeva quanto fosse indolente. Se adesso affrontava la gran fatica di una minilezione di criminologia a quelle temperature da mezzogiorno di fuoco, significava che si era stufato dell’atteggiamento saccente del giornalista. La situazione diventava divertente, gli diede man forte:

«Verrebbe da pensare che dopo averlo ucciso, l’assassino abbia pensato a questo stratagemma per sviare i sospetti. Così come il fatto che abbia trasportato il cadavere nella pietraia… allontanandolo da sé».

Adesso Giulio Cassioro ascoltava. Si distrasse un attimo dalla guida per girare la testa verso Sirio. Annuì pensieroso, come per incitarlo a proseguire.

«Se così fosse,» riprese Sirio, «si tratterebbe di cercare qualcuno che avesse dei conti in sospeso o che odiasse Riccardo Pellosi al punto da ucciderlo. Escluderei si tratti di una donna ed escluderei il concorso di più persone, perché sottintenderebbe una premeditazione e un affiatamento di complici che è difficile immaginare, per una azione tanto cruenta. Quindi un solo uomo, che possegga o abbia accesso a un veicolo in grado di percorrere il tratto sconnesso e pietroso del torrente prosciugato e una forza tale da caricare e poi scaricare il cadavere, nonché la capacità e il sangue freddo di mozzargli le mani con un colpo preciso e netto di una mannaia o altro coltellaccio da macellaio.»

Scese il silenzio.

Il professore era tuttora immobile, il giornalista improvvisamente concentrato nella guida.

«Macellaio…» disse, «vi dispiace se facciamo una deviazione fino a casa mia?»

«Purché abbia il condizionatore acceso,» borbottò il professore.


 

7

La piccola Seicento svoltò in una traversa, addentrandosi in una zona semiperiferica fatta di palazzine modeste circondate da orticelli, infine si infilò, quasi senza rallentare, tra due vetture in sosta davanti a una pasticceria.

«Ecco, siamo arrivati,» annunciò il giornalista scendendo e affrettandosi ad aprile lo sportello al professore. Afferrò la custodia della macchina fotografica e li precedette verso un portoncino scrostato, poco più avanti del negozio; attraversò a passo veloce un androne interno col soffitto a volta annerito; passò attraverso solidi odori stantii di cucinato e superò di slancio il cartello “guasto” appeso alla grata dell’ascensore.

«Io sto al secondo piano,» annunciò senza rallentare, avviandosi per i gradini consumati.

Il professore sbuffò e prese ad arrancare in salita, aggrappandosi al corrimano.

Sul pianerottolo, affacciavano due soli ingressi, l’uno contrapposto all’altro. Grosse maniglie di ferro ritorto, infisse nel legno scuro delle porte, sormontate da una grata semicircolare. Una finestra, al centro, di fronte all’ascensore inservibile, affacciava sul cortile interno. Vialetti sconnessi, qualche alberello d’arancia fra aiuole dimenticate.

«Prego, entrate,» fece strada Cassioro.

Un corridoio quasi buio, benché fosse un pomeriggio assolato di luglio. A destra la cucina. Un tavolo di legno massiccio al centro, seggiole impagliate, una panca sotto la finestra, un frigorifero di forma quasi ovale che risaliva alla preistoria.

«Accomodatevi,» disse il padrone di casa.

Sirio si sentì sospinto indietro nel tempo, quando i nonni, aprendo agli ospiti, li invitavano: Accomodatevi!

Chi lo dice più, al giorno d’oggi?

Di condizionatori nemmeno l’ombra, ma la temperatura risultava accettabile, la calura veniva respinta dallo spessore dei muri.

Giulio stava frugando nel frigo. Appoggiò sul tavolo dei tramezzini imbottiti. Li offrì agli ospiti, che rifiutarono.

Lui invece ne addentò uno.

Attraverso la porta, si vedeva un personal computer acceso, nella camera accanto, appoggiato su un piccolo scrittoio di legno scuro. Urbani si era accomodato a gambe larghe su una seggiola impagliata. In quella posizione, con le spalle alla finestra e la cassapanca sullo sfondo, sembrava in posa per un flash al magnesio.

«Non mi è chiaro perché siamo qui,» si guardò attorno.

«La parola macellaio…» Cassioro ingoiò l’ultimo boccone del tramezzino, «io sono un cronista che non aspetta le notizie, le va a cercare e, mentre frugo, scatto una infinità di fotografie. Venite, voglio farvi vedere una cosa.»

Sirio l’aveva seguito verso il computer, nella stanza accanto; il professore aveva sbuffato, tornando a passarsi il fazzoletto sulla fronte, ma non si era alzato.

«Anni addietro,» spiegò il giornalista, utilizzando il mouse per richiamare delle raccolte fotografiche sullo schermo, «svolsi un’indagine presso il Mattatoio comunale. Qualcuno mi aveva segnalato delle irregolarità e volevo ricavarne un articolo. Le voci parlavano di bestiame, proveniente da aziende agricole non controllate, immesso irregolarmente nel ciclo di macellazione. Tutto questo avveniva fuori dall’orario di attività dell’impianto e persino nottetempo, aggirando così i controlli igienico sanitari. Per prima cosa, ottenuti i permessi, mi recai nella mia veste ufficiale di cronista indipendente… Ah, eccole!»

Cliccò e aprì la raccolta di foto che gli interessava.

In sequenza si succedettero immagini di autocarri con le stampigliature di bovini sulle fiancate, di cortili gremiti di bestiame, di staccionate metalliche per instradarlo alla macellazione, di pareti piastrellate, di banconi col ripiano di marmo, di coltelli e mannaie con lame di varie dimensioni. Cassioro aveva fissato la pistola col punteruolo mentre veniva appoggiata sulla fronte degli animali, il momento in cui stramazzavano a terra, i muletti a forche che trasportavano le carcasse nel reparto scuoiatura e i quarti di bestia, le carni rosse e nude, appesi ai ganci metallici. Infine, cronista puntiglioso, aveva dedicato qualche scatto anche agli ambienti di servizio, alla mensa e agli spogliatoi per il personale. Qualcuno gli aveva mostrato della documentazione amministrativa, che aveva diligentemente fotocopiato e archiviato.

«Tutto eseguito a norma di legge,» commentò, «ma io, non convinto, cominciai ad appostarmi all’esterno e, in effetti, camion entravano e uscivano, fuori dagli orari d’apertura. Purtroppo, non potendo controllare che cosa contenessero, nemmeno potevo provare i miei sospetti. In conclusione, quella inchiesta, fu un fallimento. Però…»

Fece scorrere le sue fotografie sullo schermo, quasi stesse inseguendo un pensiero preciso.

«Però durante uno dei miei appostamenti, mi capitò di sorprendere qualcuno. Eccolo qui, l’assessore Riccardo Pellosi, mentre scende dalla sua Mercedes nel parcheggio del mattatoio.»

Un uomo molto alto e robusto, con grosse labbra sporgenti in un faccione butterato. Nelle inquadrature successive si guardava attorno, infine puntava verso l’edificio.

«Macellaio è stata la parola chiave,» considerò Cassioro, parlando quasi a se stesso.

Urbani, che fino a quel momento era rimasto accanto alla finestra seguendo da lontano seguito i loro commenti, si avvicinò a Sirio, alle spalle del giornalista, che intanto stava aggiungendo:

«Eccolo qui».

Appoggiò il puntatore del mouse sulla faccia dell’uomo, altrettanto gigantesco, con una barbona fulva e folte sopracciglia irsute che, con addosso un lungo grembiule di cuoio, andava incontro all’assessore.

«Mi ricordavo di lui.»

Cassioro si appoggiò allo schienale per voltarsi a guardarli.

«Si chiama Massimiliano Rubichi. Assieme alla moglie abita due camere di un cascinale semidiroccato fuori Palermo. Un tipo litigioso, bevitore e giocatore d’azzardo… con precedenti penali per rissa aggravata e lesioni personali.»

«Sa molte cose, lei,» considerò Sirio.

«Devo saperle. Ho un archivio che alimento in continuazione, contando che un giorno o l’altro mi torni utile per i miei articoli. Guardate.»

Sul personal si succedettero delle immagini.

Pellosi e Rubichi avanzano l’uno verso l’altro, torvi, protesi in avanti; sono di fronte, minacciosi; primissimo piano dei due con le fronti quasi a contatto. L’uomo del mattatoio ha la bocca spalancata: sta urlando. L’assessore gli preme una pistola sotto le costole, l’altro stringe i pugni.

Nelle successive, l’uomo col grembiule di cuoio si sta allontanando, si volta, punta l’indice contro il funzionario.

Sirio fece un gesto con la mano: «Le fotografie non provano nulla, se non un alterco, forse una minaccia dell’assessore nei confronti dell’altro, per via della pistola. Comunque sarebbe opportuno portarle al maresciallo Preposti, chi sa non gli tornino utili».

Cassioro era tornato in cucina e adesso mordeva un secondo tramezzino.

«Come avrete capito non corre buon sangue tra me e il maresciallo…»

«Il motivo?» chiese Sirio.

L’altro parlò con la bocca piena: «Ogni città ha delle zone d’ombra. Luoghi in cui lo spaccio è palese, se non sfacciato; uffici pubblici che fanno della corruzione una prassi; ambienti di lavoro in cui non vengono rispettate le norme di sicurezza… sono sotto gli occhi di tutti ma nessuno le vede. Be’, se un cronista sposta la cenere e scopre i carboni accesi, qualche brutta figura può risultare inevitabile».

Il professore aveva recuperato il proprio posto vicino alla finestra spalancata, si agitò, sbuffò.

«Il maresciallo non mi ha dato l’impressione di una persona superficiale.»

«Non lo è, ne sono convinto, lungi da me il pensare una cosa del genere,» replicò Cassioro mostrando i progressi della masticazione, «né intendo intralciare le indagini. Ma sono un cronista, devo sapere. Prima di consegnare le fotografie voglio verificare una cosa e vi chiedo di aiutarmi…»

Li fissava, adesso, alternativamente.

Il professore guardò l’orologio e sbuffò, Sirio chiese: «Per fare cosa?»

«Una piccola deviazione. Guardate,» sollevò una chiavetta USB, «le foto sono qui dentro. Una piccola deviazione e le portiamo al maresciallo.»

Lo studente interpellò il suo professore con lo sguardo.

Urbani strizzò gli occhi. Se Sirio lo conosceva, e lo conosceva fin troppo bene, la sua indolenza gli stava mostrando lunghe attese su marciapiedi infuocati, in attesa di tassì palermitani privi di climatizzatore, che l’avrebbero condotto attraverso interminabili strade arroventate.

«E sia,» sospirò.

Cassioro, passando accanto al tavolo di cucina, agguantò al volo un paio di tramezzini.


 

8

«Guida tu, per piacere,» aveva detto a Sirio il giornalista, sventolando i tramezzini.

Il professore si era rassegnato a comprimersi sul divano posteriore. Dal sedile del passeggero Cassioro indicava il percorso.

Il casolare sorgeva isolato, a ridosso di una strada che aveva dimenticato l’ultima passata di asfalto. La breccia del sottofondo affiorava, scricchiolava come sgretolandosi sotto le ruote. Procedevano a sobbalzi fra cumuli di rifiuti e scarti di demolizioni edilizie. La vecchia costruzione, un po’ arretrata in quella che un tempo doveva essere stata l’aia, non aveva quasi più traccia di intonaco, le finestre del piano terreno erano state tamponate coi mattoni, le persiane al piano superiore erano sbilenche e mancavano di molte stecche. Da una parte, mezzo nascosta dietro un cespuglio di oleandri abbandonato a se stesso, era parcheggiata una Range Rover marrone con la targa di almeno vent’anni prima.

Cassioro bussò col pugno sulla porta, perché campanelli non c’erano campanelli o batacchi.

«Cu è?!»

Voce di donna, ma greve.

«Mi chiamo Giulio Cassioro e sono un giornalista, apre per piacere?»

«Epperché?»

«Per cortesia, mi apra, devo chiederle una cosa.»

La donna ingombrava completamente il vano della porta. Era alta perfino più di Sirio e pesava almeno centocinquanta chili. Capelli scarmigliati, labbro inferiore sporgente, occhi sospettosi. Assieme a lei uscì il tanfo rancido del cucinato.

«Allora?»

Cassioro era indietreggiato di mezzo passo: «C’è suo marito?».

«No.»

«La Range Rover? Non è la sua?» insistette.

«Col motorino uscì, stamattina presto.»

«Ah, e quando lo possiamo trovare?»

«Tardi, ritorna.»

Cassioro assunse un tono discorsivo, cortese: «Senta signora… in che rapporti era suo marito coll’assessore Pellosi?»

Gli occhi del donnone, da sospettosi, diventarono foschi: «Manco lo conosce… all’assessore, mio marito».

Sirio seguiva da vicino la scena. Da giovane apprendista profiler studiava i messaggi inconsapevoli delle espressioni della gigantessa. Aveva esitato sul verbo! Stava per dire conosceva? Inoltre: troppa precipitazione a disgiungere la parola assessore da marito!

Urbani si era allontanato per rifugiarsi in un cono d’ombra. Senza preavviso il giornalista dispiegò a due mani la foto di Pellosi, quella in cui spingeva la pistola nelle costole del Rubichi, fuori dal mattatoio.

«Perché?» chiese soltanto.

La moglie accennò un mezzo passo indietro.

«A lui ce lo dovete chiedere…» aveva perso baldanza, lo sguardo, da fosco, era adesso intimorito.

«Va bene,» incalzò Cassioro, «quando lo posso trovare?»

«No. Lui qua non ritorna… partito è.»

Si era contraddetta, mentiva.

«E mo andate via.»

Si videro sbattere la porta in faccia.

Il cronista, ripiegando la fotografia, si avviò alla macchina a testa bassa, brontolando. Tenne aperto lo sportello del passeggero per consentire al professore di riprendere posto dietro.

«Guida tu,» porse a Sirio la chiave dell’accensione.

Quando Sirio scorse la mano protesa oltre l’angolo della casa e la pistola puntata, Cassioro si trovava ancora in equilibrio instabile, con un piede dentro la vettura e l’altro a terra.

Il giovane, in rapida successione, ruotò la chiave d’avviamento, premette sul gas e rilasciò la frizione. La piccola Fiat ebbe un sobbalzo in avanti, il finestrino dal lato del passeggero andò in frantumi, Giulio Cassioro cadde scompostamente sul sedile.


 

9

Massimiliano Rubichi venne arrestato alcune ore dopo. Non aveva più la pistola, ma l’esame al guanto di paraffina confermò che aveva sparato. Il proiettile, recuperato nel poggiatesta dell’utilitaria del cronista, risultò essere stato esploso dalla stessa arma che aveva ucciso l’assessore. Anche il bracciale rinvenuto nel greto del torrente apparteneva al dipendente del mattatoio, come dimostrarono le fotografie recuperate dagli inquirenti nella USB di Cassioro. Le successive indagini del maresciallo Preposti risalirono a un cospicuo debito che Rubichi aveva contratto con l’assessore: interessi da usura, che non riusciva a pagare.

L’assassino, nel corso degli interrogatori cui venne sottoposto, confessò che c’era stata una ennesima colluttazione fra lui e l’usuraio. Gli aveva strappato l’arma e gli aveva sparato a bruciapelo.

«E le mani? Perché mozzargliele?» gli era stato chiesto.

Lui aveva spiegato: «Sempre stise pe’ pigghiari e pigghiari, pe’ arraffare denari».

Nella hall del Superior, il maresciallo Preposti, in borghese, guardò il professore e guardò Sirio, sprofondati nelle poltrone di fronte a lui.

Poi disse, girando la testa:

«Non hanno capito… vuoi tradurre tu?»

«Ma sì che capirono, il siciliano lingua internazionale è!»

Cassiolo, sfiorando la benda che gli fasciava la fronte, sorrise.

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Racconto

Violenza privata - Romanzo

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