Un caso anomalo
1
Il
mese di giugno del duemilacinque era stato particolarmente torrido, in Sicilia,
e non sembrava che luglio sarebbe stato da meno. Molti corsi d’acqua si erano
prosciugati, la siccità danneggiava le colture e, fatto curioso, nelle zone
rurali, specie in prossimità di fattorie, stalle o altri assembramenti di
bestiame, malgrado le ripetute disinfestazioni si verificava una recrudescenza
allarmante di Calliphora vomitoria,
più comunemente detto moscone della carne.
Nel resto d’Italia, tutto questo arrivava attraverso
i notiziari.
A Forlì, alle due del pomeriggio, il
professor Anselmo Urbani, disteso sul divano, che giusto il giorno precedente aveva
spostato sotto il getto del condizionatore, spense la televisione e si tirò su
a sedere.
Il medico, dopo aver sbuffato alla lettura
degli esami ematici, gli aveva raccomandato di evitare la pennichella
postprandiale e di soprassedere al consumo di carni rosse, alcoolici e dolciumi
e, soprattutto, di fare ogni giorno una passeggiata di almeno un’ora,
preferibilmente fuori di città, immerso nella natura, se voleva abbassare
colesterolo, glicemia e tutta una serie di valori – che aveva enumerato con
sadico puntiglio – pena più serie patologie che, dietro l’angolo, in agguato, lo
aspettavano.
Urbani strinse i pugni e allargò le braccia,
stirandosi con quanta più energia gli fu possibile (era pur sempre attività
fisica… o no?), quindi si avvicinò alla finestra, che stava esattamente sotto
la bocchetta dell’aria gelida. Fuori la calura riverberava lungo la fascia
d’asfalto della strada, oltre gli zampilli intermittenti che irrigavano il
prato all’inglese. Il professore sbuffò, decidendo di rinviare la passeggiata a
dopo il tramonto, quindi, con calma, si spostò verso il tavolo a centro stanza,
sul quale, rincasando dal lavoro, aveva abbandonato la corrispondenza arrivata quella
mattina.
La lettera, ripiegata due volte all’uso
commerciale e contenuta in una busta con la finestra trasparente, proveniva da
Palermo. Al disotto delle intestazioni affiancate del Ministero della Giustizia e della
Regione Sicilia, che sponsorizzavano l’iniziativa, così recitava: “Oggetto:
Seminario sulle procedure atte a contrastare la criminalità organizzata”.
Urbani
lesse rapidamente il testo:
“Egregio
professore, facendo seguito ai contatti telefonici intercorsi, confermiamo che
il Suo intervento è programmato per lunedì 11 luglio p.v. alle ore… In attesa
di incontrarLa… Cordialmente…”
Al foglio erano spillati i biglietti aerei e
la prenotazione per due stanze presso il Superior
Hotel di Palermo.
Il professore se ne era completamente
dimenticato.
Con preoccupazione tornò a guardare, fuori
dalla finestra, la luce incandescente che colorava di arancione la chioma del
pino davanti alla casa. E si trovava a Forlì, figuriamoci cosa poteva essere Palermo!
Poi il discorso… roba del mese passato! A proposito, che ne era stato del
discorso?
Chiamò Sirio.
Si erano lasciati non più di tre ora prima,
in facoltà, dopo una lezione sugli alibi contraffatti e i moventi fuorvianti.
«Dove sei?» quasi l’aggredì, quando rispose.
«In riviera.»
Immaginò il corpo tonico del suo allievo
disteso al sole.
«Che fai?»
«Sdraiato su un telo.»
Ho indovinato! Si
congratulò con se stesso.
Qualche giorno prima, aveva sorpreso una
studentessa del terzo anno mentre gli strapazzava il naso da pugile. Immaginò
che fossero insieme.
«Con chi?» domandò, curioso.
«Con… Professore, perché tutte queste
domande?»
Urbani, lisciandosi il pizzo bianco della
barba, sorrise fra sé per la propria arguzia.
«È arrivato l’invito a quel seminario sulla
mafia,» spiegò allo studente, «non ricordo dove ho messo il discorso che avevo
preparato.»
«Non può ricordarlo,» giunse, dopo una risata,
la voce del suo giovane amico, «perché non ha preparato alcun discorso.»
Gli sovvenne che il ragazzo si era offerto di
redigerlo al posto suo. Finse di non averlo mai dimenticato:
«Appunto… quando me lo porti?»
«Già fatto,» esclamò il suo allievo
preferito, «l’ha infilato nel primo cassetto dello scrittoio, nello studio.»
Urbani, fingendo un black-out per non doversi
giustificare, chiuse la comunicazione.
2
Nella
vasta sala conferenze del Superior Hotel
di Palermo, Sirio aveva preso posto in una poltrona d’angolo dell’ultima fila,
da cui abbracciava l’ambiente intero. Nel prestare orecchio ai relatori che a
turno si spostavano dal lungo tavolo fino al leggio, replicati sul maxi schermo
affisso alla parete di fondo, osservava i presenti, li catalogava, li
suddivideva per gruppi omogenei. Personalità politiche occupavano la prima e la
seconda fila, rigorosamente in ordine di importanza nella gerarchia nazionale,
regionale e comunale; rappresentanti delle varie forze di polizia, di cui
alcuni in uniforme; poi cronisti, sia di testate nazionali che locali, fra i
quali spiccavano più o meno noti volti del piccolo schermo.
Il relatore di turno, fra altri luoghi
comuni, allarmismi e assicurazioni circa le incisive azioni di controffensiva
delle Istituzioni, si accalorava,
affermando come la criminalità organizzata quasi ostentasse i propri crimini,
incurante delle leggi e con disprezzo spudorato nei confronti della giustizia e
dello Stato.
Sirio notò il giornalista, sui cinquanta,
baffetti sottili e occhiali cerchiati di nero. Sedeva con le gambe accavallate
e le braccia conserte in una poltrona lungo il corridoio. Lo notò per via della
custodia a tracolla marchiata Nikon e per il fatto che, al contrario di altri
suoi colleghi, non effettuava riprese né scattava fotografie dell’evento; anzi,
sembrava, non tanto annoiarsi, quanto subirlo.
Dal palco venne annunciato un break coffee: potevano accomodarsi nella
sala adiacente.
Sirio e Urbani si ritrovarono accanto a un
maresciallo dei carabinieri in divisa, in fila al tavolo del buffet, un
cinquantenne con i baffi folti, curati, con i capelli segnati dalle prime
striature.
«Io la conosco,» disse a Urbani, voltandosi,
dopo aver ordinato un caffè. Urbani rimase a osservarlo interdetto, tenendo in
equilibrio un cumulo di pasticcini, in bilico nel piatto che sosteneva
all’altezza del mento.
«Lei non può ricordare,» gli venne in
soccorso il maresciallo, «sedevamo vicini alla prima dell’Aida, al teatro
comunale di Bologna, due anni fa. Ci siamo presentati e abbiamo scambiato
qualche commento durante l’intervallo, nel foyer. Io mi chiamo Achille Preposti
e lei è il professor Urbani, se non ricordo male.»
«Una memoria notevole,» ricambiò il sorriso
il professore, con il piatto nella destra e un pasticcino tra il pollice e
l’indice della sinistra, agitandosi nell’impossibile tentativo di porgergli la
mano.
Sirio notò il cronista con la macchina
fotografica a tracolla che si avvicinava.
«Ah, il maresciallo Preposti…» disse,
ignorando sia il professore che Sirio.
L’altro ne sembrò scontento: «Oggi la Nikon è
rimasta nella custodia…»
«Non le sfugge niente! D’altra parte, cosa c’era
da immortalare? Un susseguirsi di pseudo esperti e tuttologi?»
Preposti si schiarì la voce, rivolgendosi al
professore: «Le presento Giulio Cassioro».
Seguirono strette di mano.
Urbani presentò Sirio a entrambi.
«Il prossimo intervento è il suo,» disse
Preposti al professore.
«Già,» rispose Urbani, con un sorrisetto
schivo che lo fece assomigliare al Poirot degli sceneggiati, «dovrò disquisire
di mafia… io che vengo da Forlì.»
Il giornalista sembrò sul punto di
intromettersi, ma il trillo di un cellulare e il maresciallo che lo estraeva di
tasca, lo bloccarono.
«Pronto,» rispose Preposti, facendo un passo
indietro.
Chi era all’altro capo della linea possedeva
una voce squillante e concitata: «Maresciallo, abbiamo trovato l’assessore… è morto!»
Preposti sembrò chiudersi attorno al
telefono. Si allontanò ancora.
Altri telefoni avevano cominciato a
squillare.
Urbani si rivolse al cronista:
«Assessore? Morto?»
Cassioro, adesso, sembrava elettrizzato, si
guardava attorno, come assimilando l’animazione che si andava diffondendo nella
sala.
«Riccardo Pellosi,» rispose al professore,
«era scomparso da alcuni giorni. Venga, lei che proviene da Forlì… se vuole erudirsi
sui metodi della mafia. Non si preoccupi per il suo discorso sul palco, tanto
qui, fra cinque minuti, non ci sarà più nessuno.»
Infatti la sala si andava vuotando.
Magistrati e funzionari di polizia
rispondevano ai telefoni cellulari, si scambiavano commenti, informavano i
politici che li assediavano curiosi. I cronisti orecchiavano, chiamavano le
redazioni.
A quanto pareva le notizie scorrevano di
bocca in bocca a una velocità incredibile e tutti, a quanto pareva, sapevano
esattamente cosa fare e dove recarsi.
Sirio e il professore tennero dietro a
Cassioro.
«Salite,» disse il giornalista, facendo
scattare l’apertura di una Fiat Seicento celeste.
Con qualche contorcimento Sirio riuscì a salire
dietro, sul sedile ingombro da scatole e buste in pvc piene di qualcosa. Urbani
si compresse al posto del passeggero.
Cassioro partì facendo stridere le ruote
sull’asfalto e riuscì, costringendo le autovetture che sopravvenivano a brusche
frenate e manovre azzardate, a collocarsi dietro un’autopattuglia dei
carabinieri che, lampeggianti e sirena accesi, si stava avviando in quel
momento.
3
Quando
fu chiaro che la piccola Fiat non avrebbe potuto tener dietro alle volanti,
Giulio Cassioro chiamò qualcuno col cellulare:
«Dov’è il morto?»
Rimase in ascolto qualche secondo, poi lasciò
cadere l’apparecchio sul cruscotto. Il traffico cittadino, che fin quando
seguivano i carabinieri si apriva per lasciarli passare, si era richiuso
davanti a loro, ma il giornalista, ignorando segnaletica e colore dei semafori,
tirava dritto senza rallentare, incurante di clacson, frenate e imprecazioni
degli altri automobilisti.
Il professore aveva allentato la cravatta,
aveva aperto i primi bottoni della camicia, sudava. Non soltanto, forse, per
l’alito ardente che entrava dai finestrini aperti o perché non aveva avuto il
tempo di togliere la giacca. Impugnava con la destra la maniglia sotto il
tettuccio e con la sinistra distesa cercava di puntellarsi contro il cruscotto
della vetturetta.
«Io non volevo venire…» si lamentò.
Raggiunsero una strada fuori città, talmente
stretta da non consentire il sorpasso, e dovettero incolonnarsi. Cassioro voltò
la testa verso di loro.
«Pellosi è scomparso da tre giorni ed è da tre
giorni che lo ripeto: Lo ritrovate
imbottito di pallettoni da cinghiale!»
«Come mai questa certezza?» chiese Sirio,
sporgendosi nello spazio fra i due sedili anteriori.
«Voce di popolo, voce di Dio,» esclamò il
giornalista, «è il mio mestiere. Io ascolto. Su quest’isola non esistono i
segreti, le voci scorrono sotto la superficie, come l’acqua dolce di certe
sorgenti che affiorano dagli scogli al disotto di quella salata del mare. La
distingui ma non la vedi, se la percepisci è solo nella trasparenza. Qui, tutti
ascoltano, ma nessuno parla. L’assessore Pellosi, per semplificare, da una
parte contraccambiava piaceri a personaggi in odore di mafia, dall’altra vendeva
favori ai poveracci… assunzioni in Comune, sovvenzioni statali agli agricoltori,
sgravi fiscali… e chi sa cos’altro. La gente parla, fa il passaparola.»
«Un uomo potente…» insinuò Sirio.
«Qui, se hai le protezioni giuste, lo sei,
potente!»
«Ma allora, perché ucciderlo?» domandò
Urbani.
Cassioro, affrontando una curva senza
rallentare, disse:
«È tutto da scoprire. Di sicuro ha fatto uno
sgarbo a qualcuno che conta, non so se mi spiego… e badate bene che io non ho
paura a pronunciare la parola mafia. Ma ecco, siamo arrivati».
4
Autovetture
e furgoni con le sigle delle reti televisive sostavano lungo le siepi che
costeggiavano i due bordi della strada. Un cordone di poliziotti impediva
l’accesso a un viottolo sterrato che si inoltrava nella campagna.
«Stampa,» esibì il tesserino Cassioro.
Il poliziotto si limitò a fargli un cenno col
mento.
«Laggiù, con gli altri».
Raggiunsero un ponticello.
Fra i parapetti di mattoni, era assembrata
una piccola folla. I cronisti puntavano telecamere e macchine fotografiche
provviste di teleobiettivo verso un punto preciso, nel greto del torrente in
secca.
Sirio e Urbani seguirono Cassioro.
Il professore aveva lasciato la giacca sul
sedile e aveva rimboccato le maniche della camicia chiazzata di sudore. Si
deterse la faccia col fazzoletto.
«Che ci faccio qui?» sospirò.
Il letto del torrente, largo circa quattro
metri, che d’inverno doveva portare acque impetuose, era ridotto a una pietraia
che riverberava sotto il sole allo zenit.
A circa quindici metri, il corpo
dell’assessore giaceva fra i ciottoli, coperto da un panno bianco. Un uomo
dalla corporatura possente a giudicare dal gonfiore in corrispondenza dello
stomaco. Dal panno sporgevano ginocchia, caviglie e piedi enormi. Alcuni agenti
del RIS, in
tuta, guanti e calzari bianchi, si muovevano lì attorno. Più oltre, a distanza,
Sirio riconobbe il maresciallo Preposti assieme ad altri agenti in divisa e ad alcuni
personaggi in borghese, probabilmente i magistrati. Altri poliziotti
perlustravano gli argini, chinandosi a scrutare tra la vegetazione.
Giulio Cassioro, montato il teleobiettivo,
scattava in successione. Per liberarsi le mani aveva ceduto il binocolo a
Sirio. Urbani, qualche passo dietro la folla stipata dei giornalisti, si
limitava a sbuffare e ad asciugarsi la fronte col fazzoletto. Gli inviati dei
telegiornali sceglievano le inquadrature e parlavano ai microfoni, davanti alle
telecamere.
Sirio puntò il binocolo. Il lenzuolo che
copriva il cadavere era punteggiato di grossi mosconi verdi. Sciamavano, si ammassavano
sulle macchie scure del sangue, che spiccavano all’altezza del torace e delle
mani del morto, si infilavano o fuggivano dai lembi. Una donna in tuta bianca
con la stampigliatura dei RIS si chinò per fotografare
qualcosa fra la ghiaia. Sirio la seguì col cannocchiale, mentre raccoglieva
l’oggetto, qualcosa di pendulo, che inseriva in una bustina trasparente per i
reperti.
Non era riuscito a distinguere.
«Ha raccolto un bracciale,» disse Cassioro spostando
il teleobiettivo della Nikon, come se gli avesse letto nel pensiero, «al
computer vedremo meglio.»
Un elicottero della polizia stava sorvolando
la zona e perlustrava le due sponde. Durante uno dei passaggi discese sulla
perpendicolare del cadavere, stazionò qualche attimo, poi riprese quota e proseguì.
Trascorsa un’oretta, sul ponticello
l’attenzione andava scemando, molti parlottavano ai cellulari, altri
scambiavano commenti. Urbani si sventolava col fazzoletto, seduto su un masso
all’ombra di un ulivo. Cassioro seguitava imperterrito a fotografare.
«Lo portano via,» disse qualcuno.
I barellieri si stavano avvicinando al
cadavere, incespicando nei ciottoli. Erano le due del pomeriggio, la
temperatura superava i quaranta gradi, i mosconi ronzavano sulla piccola folla
ammassata, che adesso tornava a interessarsi di quanto si svolgeva nella
pietraia.
I barellieri appoggiarono la lettiga e
rimossero il lenzuolo.
Alcuni poliziotti si erano schierati per
formare un schermo, ma il ponticello si trovava più in alto di loro. I Clik degli otturatori continuarono a
susseguirsi in un crescendo frenetico.
Poi qualcuno, fra quelli che osservavano la
scena, si voltò di scatto, ci furono esclamazioni di raccapriccio.
Mosconi verdi sciamarono dal sangue aggrumato
sui moncherini delle mani amputate.
5
L’ambulanza
si era allontanata sobbalzando, seguita da alcune autopattuglie e da qualche
veicolo senza insegne. Il maresciallo Achille Preposti seguitava a dare
indicazioni ai vari agenti ancora impegnati a individuare eventuali tracce.
Quando infine andò verso il ponticello, i cronisti lo circondarono.
Sirio e il professore, che finalmente aveva
rinunciato all’ombra dell’ulivo per avvicinarsi, si tennero qualche passo
indietro; Giulio Cassioro predispose lo smartphone alla registrazione.
Ci fu un concitato susseguirsi di domande:
«Come è stato ucciso?»
«Avete ritrovato l’arma?»
«A quando risale la morte?»
«Avete dei sospetti?»
Il maresciallo attese che facessero silenzio,
scostò i microfoni più pressanti, lasciò scorrere lo sguardo dall’uno
all’altro:
«Signori, posso dirvi ben poco, come vedete
le indagini sono appena all’inizio. È stato ucciso da un unico colpo di pistola
al cuore, sparato a bruciapelo… e l’arma non è stata ritrovata».
«Avete dei sospetti?» insistette il cronista
molto giovane che aveva parlato poco prima.
Il maresciallo evitò di guardarlo, qualche
suo collega non poté trattenere un sorriso, un poliziotto scosse la testa.
«Ma la morte,» chiese un altro del gruppo, «a
quando risale?»
Preposti si voltò verso di lui, un reporter sulla
sessantina.
«Sarà necessario attendere i risultati dell’autopsia.»
«È morto qui o ce l’hanno portato?» chiese
l’inviata di una TV locale.
«Siamo propensi a ritenere che sia stato
ucciso altrove e che poi il corpo sia stato abbandonato dove l’avete visto. C’è
un viottolo sterrato che corre lungo il greto del fiume, lo attraversa e
prosegue sull’altro versante. Sul terreno soffice e nella sabbia ci sono
diverse tracce di pneumatici. Però, per saperne di più, bisognerà aspettare i
risultati delle indagini scientifiche.»
La voce acuta della cronista di una televisione
nazionale sovrastò quella degli altri:
«Le mani, perché mutilargli le mani?».
Il maresciallo le concesse un sorriso
condiscendente: «Questo, al momento, nessuno può saperlo, se non l’autore del
crimine».
«Ma… sono state ritrovate?» insistette lei,
con una smorfia di disgusto.
«No,» rispose il maresciallo, «no, le mani non
erano vicino al corpo e non sono state trovate, come non è stato rinvenuto lo
strumento utilizzato per mozzarle; probabilmente una mannaia o un grosso
coltello da macellaio, a giudicare dai tagli netti sui polsi.»
Le risposte del maresciallo, notò Sirio, pur
non essendo evasive, erano sempre ponderate.
Giulio Cassioro si fece spazio fra i
colleghi.
Seguì un attimo di silenzio rispettoso.
«Il movente,» disse, «da tempo, da più parti,
si bisbiglia che l’assessore fosse in odore di mafia. Pensa che avesse fatto
qualche sgarro alla Cupola e, per
questo, le mani troncate?»
Era chiaro, il giornalista più che una
domanda, stava cercando di far passare una sua ipotesi, ma il maresciallo non
cadde nel tranello:
«Ripeto, le indagini sono appena all’inizio.
Qualsiasi congettura rimane da dimostrare. Adesso vogliate scusarmi, non posso
aggiungere altro».
Si stava avviando verso l’auto di servizio,
seguito dai suoi uomini, quando li levò, sopra al brusio diffuso, la voce
acerba dell’inviato molto giovane:
«Avete dei sospetti?»
6
Sirio
era scettico, circa l’opinione di Giulio Cassioro.
Il giornalista propendeva per l’omicidio di
mafia, motivando la mutilazione inferta al cadavere come un messaggio, un
monito per chi in futuro l’avesse avversata.
«I criminali comuni,» insistette Cassioro,
mentre nella piccola Fiat procedevano per tornare all’hotel Superior, «camuffano il delitto,
seminano false piste, si nascondono. Invece mafia e terrorismo lo ostentano, la
prima in segno di disprezzo nei confronti dello Stato, l’altro mirando a soppiantarlo.
I crimini perpetrati dalle organizzazioni mafiose, per tornare al nostro caso,
sono eclatanti, per dimostrare potere ed esprimere disprezzo, se non derisione,
nei confronti della legge costituita.»
«È una visione, rispettabile, ma
esclusivamente da cronista,» replicò Sirio, «un investigatore non può avere
opinioni preconcette.»
L’altro si stava infervorando: «Io vivo in
questo paese e lo conosco. Qui vigono regole diverse che altrove. L’omertà…».
«Le tre scimmiette,» l’interruppe serafico
Urbani.
Finora se n’era rimasto a occhi chiusi
appoggiato allo schienale, lasciando che l’aria calda che entrava dai
finestrini gli scorresse sul viso. Parlò senza spostarsi, muovendo appena le
labbra:
«Non vedo, non sento e non parlo. Le mani
mozzate… un monito minaccioso, come il sasso in bocca per le spie o i genitali
strappati ai molestatori. È questo che intende? Ma allora, perché il colpo di
pistola e non di lupara?».
«I tempi cambiano, evolvono,» rispose
Cassioro.
«Eh no,» il tono perentorio dell’esclamazione
strideva con l’immobilità rilassata del professore, «eh no, se le mani mozzate
volevano essere una firma, l’uso dell’arma sbagliata la cancella. Anzi fa
pensare che l’omicida stia tentando di mascherare il movente, per precostruirsi
un alibi. Come a dire: se sono stati loro,
non sono stato io.»
Sirio conosceva il professore da anni, sapeva
quanto fosse indolente. Se adesso affrontava la gran fatica di una minilezione
di criminologia a quelle temperature da mezzogiorno di fuoco, significava che
si era stufato dell’atteggiamento saccente del giornalista. La situazione
diventava divertente, gli diede man forte:
«Verrebbe da pensare che dopo averlo ucciso,
l’assassino abbia pensato a questo stratagemma per sviare i sospetti. Così come
il fatto che abbia trasportato il cadavere nella pietraia… allontanandolo da
sé».
Adesso Giulio Cassioro ascoltava. Si
distrasse un attimo dalla guida per girare la testa verso Sirio. Annuì
pensieroso, come per incitarlo a proseguire.
«Se così fosse,» riprese Sirio, «si
tratterebbe di cercare qualcuno che avesse dei conti in sospeso o che odiasse
Riccardo Pellosi al punto da ucciderlo. Escluderei si tratti di una donna ed
escluderei il concorso di più persone, perché sottintenderebbe una premeditazione
e un affiatamento di complici che è difficile immaginare, per una azione tanto
cruenta. Quindi un solo uomo, che possegga o abbia accesso a un veicolo in
grado di percorrere il tratto sconnesso e pietroso del torrente prosciugato e
una forza tale da caricare e poi scaricare il cadavere, nonché la capacità e il
sangue freddo di mozzargli le mani con un colpo preciso e netto di una mannaia
o altro coltellaccio da macellaio.»
Scese il silenzio.
Il professore era tuttora immobile, il
giornalista improvvisamente concentrato nella guida.
«Macellaio…» disse, «vi dispiace se facciamo
una deviazione fino a casa mia?»
«Purché abbia il condizionatore acceso,» borbottò
il professore.
7
La
piccola Seicento svoltò in una
traversa, addentrandosi in una zona semiperiferica fatta di palazzine modeste
circondate da orticelli, infine si infilò, quasi senza rallentare, tra due
vetture in sosta davanti a una pasticceria.
«Ecco, siamo arrivati,» annunciò il
giornalista scendendo e affrettandosi ad aprile lo sportello al professore. Afferrò
la custodia della macchina fotografica e li precedette verso un portoncino
scrostato, poco più avanti del negozio; attraversò a passo veloce un androne
interno col soffitto a volta annerito; passò attraverso solidi odori stantii di
cucinato e superò di slancio il cartello “guasto” appeso alla grata dell’ascensore.
«Io sto al secondo piano,» annunciò senza
rallentare, avviandosi per i gradini consumati.
Il professore sbuffò e prese ad arrancare in
salita, aggrappandosi al corrimano.
Sul pianerottolo, affacciavano due soli
ingressi, l’uno contrapposto all’altro. Grosse maniglie di ferro ritorto,
infisse nel legno scuro delle porte, sormontate da una grata semicircolare. Una
finestra, al centro, di fronte all’ascensore inservibile, affacciava sul cortile
interno. Vialetti sconnessi, qualche alberello d’arancia fra aiuole
dimenticate.
«Prego, entrate,» fece strada Cassioro.
Un corridoio quasi buio, benché fosse un
pomeriggio assolato di luglio. A destra la cucina. Un tavolo di legno massiccio
al centro, seggiole impagliate, una panca sotto la finestra, un frigorifero di
forma quasi ovale che risaliva alla preistoria.
«Accomodatevi,» disse il padrone di casa.
Sirio si sentì sospinto indietro nel tempo,
quando i nonni, aprendo agli ospiti, li invitavano: Accomodatevi!
Chi lo dice più, al giorno d’oggi?
Di condizionatori nemmeno l’ombra, ma la
temperatura risultava accettabile, la calura veniva respinta dallo spessore dei
muri.
Giulio stava frugando nel frigo. Appoggiò sul
tavolo dei tramezzini imbottiti. Li offrì agli ospiti, che rifiutarono.
Lui invece ne addentò uno.
Attraverso la porta, si vedeva un personal
computer acceso, nella camera accanto, appoggiato su un piccolo scrittoio di
legno scuro. Urbani si era accomodato a gambe larghe su una seggiola impagliata.
In quella posizione, con le spalle alla finestra e la cassapanca sullo sfondo,
sembrava in posa per un flash al magnesio.
«Non mi è chiaro perché siamo qui,» si guardò
attorno.
«La parola macellaio…» Cassioro ingoiò
l’ultimo boccone del tramezzino, «io sono un cronista che non aspetta le
notizie, le va a cercare e, mentre frugo, scatto una infinità di fotografie. Venite,
voglio farvi vedere una cosa.»
Sirio l’aveva seguito verso il computer,
nella stanza accanto; il professore aveva sbuffato, tornando a passarsi il
fazzoletto sulla fronte, ma non si era alzato.
«Anni addietro,» spiegò il giornalista, utilizzando
il mouse per richiamare delle raccolte fotografiche sullo schermo, «svolsi
un’indagine presso il Mattatoio comunale. Qualcuno mi aveva segnalato delle
irregolarità e volevo ricavarne un articolo. Le voci parlavano di bestiame,
proveniente da aziende agricole non controllate, immesso irregolarmente nel
ciclo di macellazione. Tutto questo avveniva fuori dall’orario di attività dell’impianto
e persino nottetempo, aggirando così i controlli igienico sanitari. Per prima
cosa, ottenuti i permessi, mi recai nella mia veste ufficiale di cronista
indipendente… Ah, eccole!»
Cliccò e aprì la raccolta di foto che gli
interessava.
In sequenza si succedettero immagini di
autocarri con le stampigliature di bovini sulle fiancate, di cortili gremiti di
bestiame, di staccionate metalliche per instradarlo alla macellazione, di
pareti piastrellate, di banconi col ripiano di marmo, di coltelli e mannaie con
lame di varie dimensioni. Cassioro aveva fissato la pistola col punteruolo
mentre veniva appoggiata sulla fronte degli animali, il momento in cui stramazzavano
a terra, i muletti a forche che trasportavano le carcasse nel reparto scuoiatura
e i quarti di bestia, le carni rosse e nude, appesi ai ganci metallici. Infine,
cronista puntiglioso, aveva dedicato qualche scatto anche agli ambienti di
servizio, alla mensa e agli spogliatoi per il personale. Qualcuno gli aveva
mostrato della documentazione amministrativa, che aveva diligentemente fotocopiato
e archiviato.
«Tutto eseguito a norma di legge,» commentò,
«ma io, non convinto, cominciai ad appostarmi all’esterno e, in effetti, camion
entravano e uscivano, fuori dagli orari d’apertura. Purtroppo, non potendo
controllare che cosa contenessero, nemmeno potevo provare i miei sospetti. In
conclusione, quella inchiesta, fu un fallimento. Però…»
Fece scorrere le sue fotografie sullo schermo,
quasi stesse inseguendo un pensiero preciso.
«Però durante uno dei miei appostamenti, mi
capitò di sorprendere qualcuno. Eccolo qui, l’assessore Riccardo Pellosi, mentre
scende dalla sua Mercedes nel parcheggio del mattatoio.»
Un uomo molto alto e robusto, con grosse labbra
sporgenti in un faccione butterato. Nelle inquadrature successive si guardava
attorno, infine puntava verso l’edificio.
«Macellaio è stata la parola chiave,» considerò
Cassioro, parlando quasi a se stesso.
Urbani, che fino a quel momento era rimasto
accanto alla finestra seguendo da lontano seguito i loro commenti, si avvicinò
a Sirio, alle spalle del giornalista, che intanto stava aggiungendo:
«Eccolo qui».
Appoggiò il puntatore del mouse sulla faccia
dell’uomo, altrettanto gigantesco, con una barbona fulva e folte sopracciglia
irsute che, con addosso un lungo grembiule di cuoio, andava incontro
all’assessore.
«Mi ricordavo di lui.»
Cassioro si appoggiò allo schienale per
voltarsi a guardarli.
«Si chiama Massimiliano Rubichi. Assieme alla
moglie abita due camere di un cascinale semidiroccato fuori Palermo. Un tipo
litigioso, bevitore e giocatore d’azzardo… con precedenti penali per rissa
aggravata e lesioni personali.»
«Sa molte cose, lei,» considerò Sirio.
«Devo saperle. Ho un archivio che alimento in
continuazione, contando che un giorno o l’altro mi torni utile per i miei
articoli. Guardate.»
Sul personal si succedettero delle immagini.
Pellosi e Rubichi avanzano l’uno verso
l’altro, torvi, protesi in avanti; sono di fronte, minacciosi; primissimo piano
dei due con le fronti quasi a contatto. L’uomo del mattatoio ha la bocca
spalancata: sta urlando. L’assessore gli preme una pistola sotto le costole, l’altro
stringe i pugni.
Nelle successive, l’uomo col grembiule di
cuoio si sta allontanando, si volta, punta l’indice contro il funzionario.
Sirio fece un gesto con la mano: «Le
fotografie non provano nulla, se non un alterco, forse una minaccia
dell’assessore nei confronti dell’altro, per via della pistola. Comunque
sarebbe opportuno portarle al maresciallo Preposti, chi sa non gli tornino
utili».
Cassioro era tornato in cucina e adesso
mordeva un secondo tramezzino.
«Come avrete capito non corre buon sangue tra
me e il maresciallo…»
«Il motivo?» chiese Sirio.
L’altro parlò con la bocca piena: «Ogni città
ha delle zone d’ombra. Luoghi in cui lo spaccio è palese, se non sfacciato;
uffici pubblici che fanno della corruzione una prassi; ambienti di lavoro in
cui non vengono rispettate le norme di sicurezza… sono sotto gli occhi di tutti
ma nessuno le vede. Be’, se un cronista sposta la cenere e scopre i carboni
accesi, qualche brutta figura può risultare inevitabile».
Il professore aveva recuperato il proprio
posto vicino alla finestra spalancata, si agitò, sbuffò.
«Il maresciallo non mi ha dato l’impressione
di una persona superficiale.»
«Non lo è, ne sono convinto, lungi da me il
pensare una cosa del genere,» replicò Cassioro mostrando i progressi della
masticazione, «né intendo intralciare le indagini. Ma sono un cronista, devo
sapere. Prima di consegnare le fotografie voglio verificare una cosa e vi
chiedo di aiutarmi…»
Li fissava, adesso, alternativamente.
Il professore guardò l’orologio e sbuffò,
Sirio chiese: «Per fare cosa?»
«Una piccola deviazione. Guardate,» sollevò
una chiavetta USB, «le foto sono qui dentro. Una piccola
deviazione e le portiamo al maresciallo.»
Lo studente interpellò il suo professore con
lo sguardo.
Urbani strizzò gli occhi. Se Sirio lo
conosceva, e lo conosceva fin troppo bene, la sua indolenza gli stava mostrando
lunghe attese su marciapiedi infuocati, in attesa di tassì palermitani privi di
climatizzatore, che l’avrebbero condotto attraverso interminabili strade
arroventate.
«E sia,» sospirò.
Cassioro, passando accanto al tavolo di
cucina, agguantò al volo un paio di tramezzini.
8
«Guida
tu, per piacere,» aveva detto a Sirio il giornalista, sventolando i tramezzini.
Il professore si era rassegnato a comprimersi
sul divano posteriore. Dal sedile del passeggero Cassioro indicava il percorso.
Il casolare sorgeva isolato, a ridosso di una
strada che aveva dimenticato l’ultima passata di asfalto. La breccia del
sottofondo affiorava, scricchiolava come sgretolandosi sotto le ruote.
Procedevano a sobbalzi fra cumuli di rifiuti e scarti di demolizioni edilizie. La
vecchia costruzione, un po’ arretrata in quella che un tempo doveva essere stata
l’aia, non aveva quasi più traccia di intonaco, le finestre del piano terreno
erano state tamponate coi mattoni, le persiane al piano superiore erano
sbilenche e mancavano di molte stecche. Da una parte, mezzo nascosta dietro un
cespuglio di oleandri abbandonato a se stesso, era parcheggiata una Range Rover
marrone con la targa di almeno vent’anni prima.
Cassioro bussò col pugno sulla porta, perché
campanelli non c’erano campanelli o batacchi.
«Cu è?!»
Voce di donna, ma greve.
«Mi chiamo Giulio Cassioro e sono un
giornalista, apre per piacere?»
«Epperché?»
«Per cortesia, mi apra, devo chiederle una
cosa.»
La donna ingombrava completamente il vano
della porta. Era alta perfino più di Sirio e pesava almeno centocinquanta
chili. Capelli scarmigliati, labbro inferiore sporgente, occhi sospettosi.
Assieme a lei uscì il tanfo rancido del cucinato.
«Allora?»
Cassioro era indietreggiato di mezzo passo:
«C’è suo marito?».
«No.»
«La Range Rover? Non è la sua?» insistette.
«Col motorino uscì, stamattina presto.»
«Ah, e quando lo possiamo trovare?»
«Tardi, ritorna.»
Cassioro assunse un tono discorsivo, cortese:
«Senta signora… in che rapporti era suo marito coll’assessore Pellosi?»
Gli occhi del donnone, da sospettosi,
diventarono foschi: «Manco lo conosce…
all’assessore, mio marito».
Sirio seguiva da vicino la scena. Da giovane
apprendista profiler studiava i
messaggi inconsapevoli delle espressioni della gigantessa. Aveva esitato sul
verbo! Stava per dire conosceva? Inoltre:
troppa precipitazione a disgiungere la parola assessore da marito!
Urbani si era allontanato per rifugiarsi in
un cono d’ombra. Senza preavviso il giornalista dispiegò a due mani la foto di
Pellosi, quella in cui spingeva la pistola nelle costole del Rubichi, fuori dal
mattatoio.
«Perché?» chiese soltanto.
La moglie accennò un mezzo passo indietro.
«A lui ce lo dovete chiedere…» aveva perso
baldanza, lo sguardo, da fosco, era adesso intimorito.
«Va bene,» incalzò Cassioro, «quando lo posso
trovare?»
«No. Lui qua non ritorna… partito è.»
Si era contraddetta, mentiva.
«E mo andate via.»
Si videro sbattere la porta in faccia.
Il cronista, ripiegando la fotografia, si
avviò alla macchina a testa bassa, brontolando. Tenne aperto lo sportello del
passeggero per consentire al professore di riprendere posto dietro.
«Guida tu,» porse a Sirio la chiave
dell’accensione.
Quando Sirio scorse la mano protesa oltre
l’angolo della casa e la pistola puntata, Cassioro si trovava ancora in
equilibrio instabile, con un piede dentro la vettura e l’altro a terra.
Il giovane, in rapida successione, ruotò la
chiave d’avviamento, premette sul gas e rilasciò la frizione. La piccola Fiat
ebbe un sobbalzo in avanti, il finestrino dal lato del passeggero andò in frantumi,
Giulio Cassioro cadde scompostamente sul sedile.
9
Massimiliano
Rubichi venne arrestato alcune ore dopo. Non aveva più la pistola, ma l’esame
al guanto di paraffina confermò che aveva sparato. Il proiettile, recuperato
nel poggiatesta dell’utilitaria del cronista, risultò essere stato esploso
dalla stessa arma che aveva ucciso l’assessore. Anche il bracciale rinvenuto
nel greto del torrente apparteneva al dipendente del mattatoio, come
dimostrarono le fotografie recuperate dagli inquirenti nella USB di Cassioro.
Le successive indagini del maresciallo Preposti risalirono a un cospicuo debito
che Rubichi aveva contratto con l’assessore: interessi da usura, che non
riusciva a pagare.
L’assassino, nel corso degli interrogatori
cui venne sottoposto, confessò che c’era stata una ennesima colluttazione fra lui
e l’usuraio. Gli aveva strappato l’arma e gli aveva sparato a bruciapelo.
«E le mani? Perché mozzargliele?» gli era stato
chiesto.
Lui aveva spiegato: «Sempre stise pe’ pigghiari e pigghiari, pe’ arraffare denari».
Nella hall del Superior, il maresciallo Preposti, in borghese, guardò il
professore e guardò Sirio, sprofondati nelle poltrone di fronte a lui.
Poi disse, girando la testa:
«Non hanno capito… vuoi tradurre tu?»
«Ma sì che capirono, il siciliano lingua
internazionale è!»
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