lunedì 13 gennaio 2025

Mia è la vendetta - Romanzo

 



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Antaprima:

1.

 Il 18 novembre aveva svegliato Trenta Tornesi con le campane a morto.

Trenta Tornesi era una proprietà terriera di svariati ettari. Si estendeva su una fascia compresa fra il litorale palermitano e il versante settentrionale della catena montuosa delle Madonie. La gente del luogo raccontava che quel nome veniva dalla somma pagata da un antenato lontano di don Calogero Mugnuso per l’acquisto del primo piccolo podere, al quale, di generazione in generazione e con metodi più o meno leciti erano stati accorpati nuovi appezzamenti. Lontano da orecchie indiscrete si sussurrava che il venditore fosse stato trovato ucciso da un colpo di lupara, la mattina successiva alla firma del contratto. Le indagini dei Carabinieri Reali avevano appurato che il denaro era sparito, trafugato da ignoti. Le malelingue locali insinuavano che Trenta Tornesi suonava assai prossimo a Trenta Denari, il prezzo del tradimento. Negli anni il possedimento era diventato un piccolo feudo. Attorno alla villa padronale erano sorte le abitazioni dei parenti prossimi del vecchio Mugnuso e poi le casette dei lavoranti e le stalle, i fienili e i magazzini, i caseifici, le cantine e i frantoi. Perfino una chiesetta privata. Un muro difendeva i possedimenti per l’intero perimetro e l’unico accesso, ben sorvegliato, era da un cancello all’estremità occidentale, rivolto verso Palermo e il mare.

Penetrare in quel fortilizio e ancor più raggiungere la casa colonica senza essere notati era impossibile.

Quel mercoledì, dunque, era giorno di lutto. Santo era morto e Adelina sparita. Gli uomini mandati da don Calogero a Palermo erano tornati dicendo che la casa della madre era vuota. I vicini l’avevano vista salire su un’auto assieme alla figlia e ai due picciriddri di Turi, nessuno aveva saputo dire dove fossero dirette. Per don Calogero era stato facile fare due più due. Quella aveva programmato tutto per tempo e il motivo era chiaro: la vendetta.

Ma se di vendetta si vive, di vendetta si muore, si disse.

Accantonò il pensiero, aveva problemi più immediati da risolvere. Si era appena affacciato Totonno ad annunciargli l’arrivo del dottor Seggiu, il medico di famiglia.

Don Calogero uscì sul patio in tempo per vederlo scendere dalla Mercedes. Magro e con i radi capelli lunghi passati dietro le orecchie, dimostrava appieno i suoi settanta e più anni. Alle undici di mattina, malgrado il cielo limpido e il sole siciliano, sembrò rabbrividire.

Gli uomini del borgo, in piccoli gruppi sparsi per l’aia, stavano a osservare in silenzio, vestiti di scuro e col nodo della cravatta ancora quello dell’ultimo funerale. Erano stati esentati dal lavoro, per la triste occasione, dopo aver munto le bestie, naturalmente, che non si poteva lasciarle muggire con le mammelle gonfie, sul punto di scoppiare.

«Mi dispiace,» disse il medico, «ma… come fu? Solo ieri lo lasciai che stava… diciamo bene, in fase di ripresa, per così dire.»

Don Calogero gli strinse la mano, allargò le braccia, affranto.

«Infarto, sospetto io. Ma venite, giudicate voi.»

Lo guidò alla cappella allestita a camera ardente. Le ante della porta erano coperte da un drappo nero, i lembi laterali fermati al centro da un cordone dorato.  Santuzzo era stato vestito e composto sulla panca rivestita di velluto, la testa verso l’altare. Quattro ceri ardevano sui quattro spigoli del letto. Donna Rosalia, accanto al capezzale, fissava il vuoto con gli occhi asciutti. I banchi erano stati spostati, e le donne del borgo, tutte in nero, stavano sedute lungo le pareti e snocciolavano il rosario. Alla vista del medico si alzarono. Un’occhiata eloquente di don Calogero bastò a farle uscire a testa china.

«Mi dispiace assai,» strinse il dottor Seggiu la mano di donna Rosalia, «facemmo l’impossibile per lui, ma dopo quell’avventura… il cuore non ha retto.»

Una madre non riconosce ragioni dinanzi alla morte di un figlio. Liberò la mano e uscì a testa bassa anche lei.

Il medico si rivolse verso la salma.

«Be’… don Calogero perdonatemi,» esclamò cavando di tasca lo stetoscopio, «devo farlo.»

Finse di auscoltare un cuore che taceva.

«Infarto,» diagnosticò, «senza dubbio, infarto. Rilascerò subito il certificato di morte.»

Si avviarono alla porta.

Le donne rientrarono.

«Dottore, un caffè?» chiese donna Rosalia, in piedi sul piccolo sagrato, «o forse un liquore?»

«Grazie, grazie di cuore, come avessi accettato, ma vado di corsa,» si accomiatò il medico. Si strinse addosso lo scollo della giacca e si avviò verso la macchina.

Il brusio sommesso dei braccianti subito tacque. Gli uomini si spostarono per far spazio alla Mercedes che manovrava avanti e indietro e ripartiva. In silenzio sbirciavano verso il padrone, che indugiava, che si tastava le tasche, recuperava il telefonino e rispondeva.

«Va bene,» disse.

Fece qualche passo sullo spiazzo inghiaiato, incontro alla macchina del parrino, che arrivava lungo il viale coi cipressi.

Don Giusto aveva la faccia contrita già sulla Panda celeste. Quando scese, sembrava lui stesso sul punto di stramazzare colto da infarto. Strinse la mano a don Calogero e la scosse, quasi in lacrime.

«Appena adesso ho saputo e subito mi precipitai. Ma come fu?»

«Infarto, mi disse il dottor Seggiu, infarto. Ma venite, vi accompagno.»

Le donne si alzarono, donna Rosalia baciò la mano al prete. Un chierico di forse dieci, undici anni li aveva seguiti, reggendo l’ampolla e il turibolo.

«Figlia mia che strazio, per una madre,» accarezzò don Giusto il capo chino di donna Rosalia.

«Che il Signore, nella Sua infinità pietà, ti accolga fra le sue braccia,» concluse poi, disegnando un ampio segno di croce rivolto al defunto.

Tutti i presenti, anche quelli rimasti fuori dalla cappella, si inginocchiarono e fecero compostamente il segno di croce, primo fra tutti don Calogero, che uomo di fede era stato sempre. Poi don Giusto prese dalle mani del chierichetto l’ampolla dell’olio benedetto e unse in successione la fronte, gli occhi, la bocca e le mani del defunto, mondandolo dai peccati, quindi recitò il Pater Noster, accompagnato dai presenti, infine asperse incenso girando attorno alla salma per formare una croce.

«Adesso è nella pace del Signore,» appoggiò le mani sulle spalle di donna Rosalia, in un rispettoso abbraccio a distanza.

«Don Calogero perdonatemi, devo scappare,» si diresse alla macchina seguito dal ragazzino.

La polvere sollevata dalla Panda non era ancora ricaduta che il cellulare di don Calogero annunciò un nuovo arrivo.

L’avvocato Mario Cartacianca, prossimo ai sessanta, pizzo e stempiatura alla Luigi Pirandello, ma notevolmente più grasso e panciuto, aveva rappresentato in più occasioni, oltre ad altre famiglie notabili del palermitano, sia i Mugnuso che gli amici dei Mugnuso, per cui si considerava buon amico di don Calogero, quasi di famiglia.

Si calò con un certo sforzo dal SUV della Mercedes e pestò la ghiaia per andare a stringergli la mano.

«Che notizia terribile,» scosse la testa, «ma ditemi, dov’è?»

Gli uomini sull’aia fecero spazio e i due si avviarono alla cappella. Cartacianca, devoto anche lui, si segnò e, per quel poco che poteva, si genuflesse. Si affrettò poi verso donna Rosalia.

«Che strazio! Che dolore!»

Fissò il morto a lungo, con le manone intrecciate davanti alla pancia piena. Quando poi uscì, don Calogero stava rispondendo al telefono.

«Certo,» diceva, «lasciateli passare… tutti, certo, tutti. E che volete scatenare la terza guerra mondiale?»

Pochi minuti, e una processione di macchine della polizia e dei carabinieri riempì il cortile, dalla cappella fino alla stalla giù in fondo.

«E questi che vogliono,» bisbigliò l’avvocato senza muovere le labbra.

«Forse capitate a proposito,» mormorò a sua volta don Calogero, guardando fisso davanti a sé, «ma stiamo a sentire… di certo invenzioni, favolette per picciriddri ci vengono a raccontare.»

«Ho capito! Contate su di me…»

Da una vettura senza insegne, scese il giudice Cordaci. Un sessantenne coi baffetti e i capelli crespi e schiariti e le sopracciglia irsute, la faccia pallida da malato.

Si guardò attorno, preoccupato dall’assembramento di tanti uomini, quindi si rivolse a Don Calogero e all’avvocato, rimasti in attesa.

«Ho un mandato di comparizione per…» esordì, subito bloccato dal vocione di Cartacianca.

«E per un mandato di comparizione vi presentate con tutta sta parata da filmi americano?»

L’avvocato aveva accennato col capo allo schieramento delle autopattuglie e agli agenti che ne erano discesi.

Don Calogero sbirciò verso i braccianti, che guardavano attenti la scena, e trattenne l’avvocato per il gomito.

«Giudice, forse è meglio se ne parliamo in casa,» disse.

Si avviò verso il casolare, con l’avvocato a fianco. Il magistrato e un maresciallo dei carabinieri gli tennero dietro.

Entrarono nel salotto, dove Assuntina, la sua ultima figlia, stava rassettando. Le ordinò di preparare il caffè e indicò le poltrone e il divano al giudice e al maresciallo, che declinarono l’invito. Rimasero tutti in piedi.

«Dunque,» si rivolse a Cordaci, «dicevate, un mandato di comparizione…»

«Sì, per Santo Mugnuso.»

E Cartacianca, subito: «Di che si tratta?»

«Vorrei incontrarlo. Consegnerò l’avviso direttamente a lui.»

L’avvocato trattenne una risata: «Suvvia giudice, sono il suo legale e lo rappresento. Lui adesso non può darvi ascolto, dite pure a me, di che si tratta?»

Le tende erano accostate per via del lutto e le persiane chiuse, ma da fuori, attraverso le ante socchiuse delle finestre, arrivava il brusio dei braccianti radunati di fronte ai poliziotti. Si percepiva la tensione di due schieramenti contrapposti che non si avevano in simpatia.

Il pensiero dovette attraversare anche il giudice, perché disse: «Sapete che il vostro uomo al cancello ha un’arma, nella guardiola?»

«Arma? Che arma? Un bazooka? Una mitragliatrice?» scherzò l’avvocato.

«Un fucile.»

«Ah, sì, la doppietta di Nittuzzu,» gli rivolse un sorriso aperto don Calogero, «sapete, Nittuzzu cacciatore è, bravo picciotto, dotato di regolare porto d’armi. Nella proprietà, lo tiene, al sicuro, a norma di legge, e dopo il servizio gli piace sparare qualche colpo ai passeri.»

«E ci sono altri… cacciatori, qui fuori?»

«Forse, ma oggi non è giorno di caccia, abbiamo altri pensieri,» scosse la testa Calogero.

«Torniamo a noi,» intervenne l’avvocato.

Cordaci sospirò. Lanciò un’occhiata d’intesa al maresciallo, che disse: «Conoscete il cantiere per la costruzione della variante autostradale che si trova in località Contenero?»

«Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai visto,» l’avvocato era pensoso, «voi, don Calogero?»

«No, no, io esco poco…»

«Ma perché lo chiedete?» insistette  l’avvocato.

Il maresciallo attese un cenno di assenso del magistrato, prima di rispondere: «A noi risulta che Santo Mugnuso è precipitato in un foro per le palificate di fondazione, ieri a sera, in quel cantiere».

L’avvocato Cartacianca si mise a ridere: «Precipitato? Cantiere? I Mugnuso agricoltori sono, mica manovali dei cantieri…»

«C’è un testimone.»

«Testimoni? Quanti ne vuole ce ne sono, che l’hanno visto qui a Tornesi,» l’avvocato tese la mano verso il brusio sommesso che entrava da fuori.

«Siete stato male informato,» tagliò corto don Calogero, «e comunque mio figghiu, in questo momento, impossibilitato è, di rispondere alle vostre domande. Ma venite, vi porto da lui.»

Uscirono in fila indiana, don Calogero in testa, l’avvocato in coda, ignorando Assuntina che appoggiava sul tavolo la guantiera coi caffè. Gli uomini nel cortile si ritrassero come le acque del mar Rosso davanti a Mosè, all’avanzare del padrino. I quattro entrarono nella cappella e si fermarono a piedi della salma, zittendo le preghiere delle donne in lutto.

Il maresciallo tolse il berretto, il giudice contemplò il morto per qualche momento, poi uscirono.

«Dunque non è sopravvissuto alla caduta,» esclamò a bassa voce il giudice, per non farsi sentire da quanti li circondavano.

«Ma quando mai…» don Calogero avrebbe voluto ridere, si rese conto invece d’aver fatto una smorfia, «infarto, fu, abbiamo il certificato del dottor Seggiu.»

Il giudice, infastidito, scosse le spalle.

«Dovrete spiegarmi,» sibilò.

«A disposizione,» fu sarcastico Cartacianca.

«Servo vostro,» usò don Calogero quell’antica espressione, ma senza mettervi astio, ironia o reverenza.

Aspettò che fosse risalito in macchina assieme al maresciallo con tutta la sua truppa e che si fossero avviati, prima di rivolgersi all’avvocato.

«Be’, se vi stavate annoiando, da adesso avrete qualcosa da fare.»

«Dovere mio, don Calogero.»

Cartacianca gli strinse la mano con espressione di circostanza e si arrampicò sul SUV. Si avviò, tenendo dietro a debita distanza al serpentone celeste e azzurro delle macchine con le sirene sul tettuccio.

Non passò mezz’ora e i braccianti tornarono a voltarsi con gli occhi curiosi. Un Van nero da noleggio con i vetri oscurati risaliva piano il viale alberato, lasciando dietro di sé una nuvoletta di polvere. Il veicolo superò la cappella e si arrestò davanti a don Calogero, che aspettava in piedi sul gradino più basso della villa. Ormai era l’una dopo mezzogiorno, le donne del pianto e i braccianti si erano alternati per il pranzo. Il padrino aveva visto picciriddri e fimmene portare provviste alla sua casa, accolte da Assuntina, che, meschina, ringraziava con gli occhi mesti; ma né lui né donna Rosalia avevano ancora mangiato.

E lui di certo non ne sentiva il bisogno.

Uscì l’autista e fece scorrere il portellone posteriore.

Ne discese Doriana,  in nero, con gli occhiali scuri. Perfetta in ogni dettaglio. Senza voltarsi verso gli uomini che l'osservavano ammirati andò ad abbracciare lo zio.

«Figghia,» la strinse a sé il padrino, «andiamo, vieni a salutare Santuzzo.»

Nessuno aveva mai visto piangere un Mugnuso e lei non pianse. Baciò la zia, fissò per qualche momento le spoglie mortali del cugino e uscì assieme a don Calogero. Entrarono in casa.

«Come fu?» gli chiese, sedendosi sul divano e accavallando le gambe.

Don Calogero ammirò la sua creatura. Adesso, morto Enzuzzu, morto anche Santo, non gli rimaneva che lei per portare avanti quanto aveva realizzato in quella sua vita ormai agli sgoccioli. Assuntina non sarebbe mai stata in grado di prendere in mano l’azienda di Trenta Tornesi e tanto meno la Strober Holding. Oh, certo, l’aveva fatta studiare nelle scuole migliori, tutti i suoi figli avevano avuto il meglio dell’istruzione, perché don Calogero, che invece si era fermato alle classi dell’obbligo, capiva che il mondo va avanti veloce e che senza istruzione il cervello, anche se è buono, non basta per tenere il passo.

Ma, a proposito di Assuntina, sapeva che non si trattava di testa, che quella l’aveva, si trattava di fegato, di coraggio, che invece le mancava. Come mancava al marito, suo genero, al quale peraltro faceva difetto anche la testa.

Invece Doriana era perfetta.

Lei aspettava che rispondesse. Invece lui cavò di tasca una carta d’identità stropicciata e gliela porse.

«Cos’è?» chiese, prendendola.

«La teneva in sacchetta Santuzzo, quando me lo riportarono.»

«Il professore di Forlì!» sgranò gli occhi, «l’aveva stanato, quindi.»

Santo era andato per ben due volte a cercarlo a casa sua, a Forlì, per pareggiare il conto di Enzo, invece quello stava in Sicilia!

«Già,» rispose a sua nipote.

«Ma come andarono i fatti?»

«Ti raccontai di quello spione, il giornalista…»

«Giulio Cassioro…»

«Lui! Be’, una spia era, una biscia della specie peggiore. Aveva scoperto il magazzino con le scorie e lo teneva d’occhio. Ha seguito il camion coi barili fino al cantiere.» 

«Ho capito, e poi?»

«Poi, mi domandi? E che poteva succedere, Santuzzo se ne accorse! Il disgraziato pricipitò in uno dei pozzi delle fondazioni e amen.»

«E il professore si trovava lì?»

«No, arrivò dopo. Totonno e Tabbuto mi raccontarono tutto. U professuri ci tese un’imboscata a mio figghiu, e lo fece cadere dentro alla buca delle fondazioni, poi scappò via…»

«Santo è dunque caduto in quel foro. E poi?»

«Il pozzo non era profondo e la terra era smossa. Lo tirarono fuori e me lo riportarono. Il dottore lo visitò, disse che si sarebbe ripreso. Adelina rimase per assisterlo.»

«Invece l’ha avvelenato. Ma perché?»

«Per vendicare Turi, la bottana! Ingannò pure me, con quella faccia da santa.»

Gli vibrò la voce. Strinse il pugno per controllare l’ira e l’emozione.

«Forse non ti dissi,» riprese con voce ferma, «che Turi si era fatto fottere i soldi dell’ultimo carico…»

«Cinquecentomila euro?»

«Eh… capisti? Che doveva fare Santuzzu… dirgli grazie? Lo mandò a travagghiare al cantiere e lui, meschino, poco pratico era, perse l’equilibrio e precipitò. Per farla breve, figghia mia, una di quelle buche la tomba di Turi è diventata.»

«E la moglie s’è vendicata su Santo.»

Assuntina fece capolino dallo spiraglio della porta: «Papà, è in tavola… si è fatto tardi, i picciriddri hanno fame».

«Falli mangiare,» agitò la mano verso di lei, «fai mangiare anche tua madre. Io e Doriana ancora cose da dirci, teniamo. Mangiate, mangiate, noi veniamo dopo.»


domenica 22 dicembre 2024

L'intrusa - racconto - nuova edizione

 





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L’INTRUSA

 

Era il 25 di aprile e Sirio ragionava che la soluzione di quel caso singolarissimo era custodita nei ricordi di Alessandro Pastone, il giovane imputato. Uscì dalla Mercedes dell’avvocato Girovenale e discesero anche il professor Anselmo Urbani, stimato criminologo e consulente della difesa, e Duilio Pastone, padre dell’imputato.

La caserma dei carabinieri era una palazzina a due piani, circondata da un cortile recintato. Al primo piano, il maresciallo Luigi Indaga guardò fuori dalla finestra.

«Il legale e i periti di parte sono arrivati,» annunciò a Matteo Orripilante, il giudice per le indagini preliminari.

Andò direttamente alla porta.

«L’una precisa, che puntualità,» sorrise ai nuovi venuti.

«Lamartana, non c'è?» chiese l’avvocato guardandosi attorno.

«Il pubblico ministero,» rispose il GIP, «è stato trattenuto da precedenti impegni. Ma possiamo procedere ugualmente, in fin dei conti si tratta solo di un interrogatorio informale.»

Il giudice rivolse un rapido sguardo al padre dell’imputato.

«Ho qualche perplessità, circa la presenza del signor Pastone,» disse.

«È indispensabile,» reagì l’avvocato, col suo vocione abituato alle arringhe in tribunale, «ai fini procedurali lo consideri un incidente probatorio. Mi spiego, l’imputato è affetto da ritardo mentale lieve…»

«Non ne so niente. Agli atti non risulta…» si guardava attorno, il GIP.

«Si tratta, ripeto, di patologia cognitiva di lieve entità, e la presenza del padre non può che risultare utile ai fini dell’interrogatorio. Lo consideri un testimone, se preferisce. Sono certo che il Senatore…»

Aveva caricato di sottintesi l’ultima parola.

«Va bene, va bene, ho capito,» tagliò corto il giudice, «procediamo. Ma ricordi, avvocato, che effettueremo una registrazione audiovisiva.»

Sembrava una minaccia.

«Certamente,» Girovenale non si lasciò intimidire.

In fila indiana dietro al maresciallo Indaga, si avviarono lungo il corridoio fino alla stanza degli interrogatori. Prima di entrare, attraverso il cristallo unidirezionale, osservarono l’imputato. Era seduto a un tavolo al centro della stanza, ammanettato. Un brigadiere, in piedi accanto alla porta, lo sorvegliava.

Il giovane Alessandro, barbona scura folta e capelli crespi, aveva la stessa corporatura esile del padre. A testa china, immobile, fissava il ripiano del tavolo.

«Perché ha le manette?» chiese l’avvocato.

«Ve l’ho detto, ha scatti d’ira improvvisi. È una precauzione necessaria.»

Il padre, Duilio Pastone, si torceva le mani.

L’avvocato si rivolse al magistrato: «Sarebbe opportuno toglierle».

Orripilante fece un cenno affermativo al maresciallo, che si avvicinò al microfono e impartì l’ordine al brigadiere nella stanza di là dal cristallo.

Appena Pastone padre varcò la soglia, suo figlio gli si gettò tra le braccia. Un ventenne con la barba folta che piangeva come un bambino di undici anni.

Con parole e carezze, Duilio riuscì a calmarlo e sedette accanto a lui.

Gli altri occuparono delle sedie attorno al tavolo, Sirio si mise di fianco ad Alessandro.

«Questi signori,» disse Duilio al figlio, «ti devono fare delle domande.»

Alessandro, a occhi bassi, si guardò attorno imbronciato, con la testa appoggiata alla spalla del suo papà:

«Perché?»

 

Tutto era cominciato con la dipartita della signora Annamaria Siniboldi Castigliano in Ramino, che si era spenta serenamente nel proprio letto all’età di centodue anni, alle prime ore dell’alba del 20 di aprile, giorno della Pasqua di Resurrezione.

Le due badanti di nazionalità romena che l’accudivano amorevolmente da svariati anni, Alina e Catinca, giurarono in lacrime che fosse ancora calda quando erano entrate. Con le loro urla disperate, avevano svegliato il marito, il senatore Mario Ramino, che si era precipitato in pigiama. A questo punto, benché la notizia non fosse giunta del tutto inattesa, stante l’età della Siniboldi, si innescarono un susseguirsi di eventi, alcuni sì pianificati secondo il buon senso e l’uso comune, altri del tutto imprevedibili, per non dire sconvolgenti.

La signora Siniboldi Castigliano, nata nel 1912, era stata donna bellissima, di nobili natali, dalla vita intensa, dinamica, per certi versi frenetica. Il suo primo marito, il pittore francese Jean Philippe Christianne, di vent’anni più grande, durante un soggiorno a Forlì l’aveva notata e voluta, procace sedicenne, dapprima come modella, subito dopo in moglie. Matrimonio felice ma breve il loro. La primogenita Corinne aveva cinque anni e il piccolo Gabriel era ancora in fasce quando Jean Philippe se n’era andato, portato via da una polmonite fulminante.

Annamaria aveva amato intensamente Jean Philippe; e la sua natura romantica l’aveva indotta a considerare, malgrado all’epoca avesse appena ventiquattro anni, che quando fosse giunto il suo momento avrebbe voluto riposargli accanto. Così aveva avviato le procedure per la costruzione di una cappella funeraria e conosciuto Ettore Vianotti, architetto giovane ma ambizioso, dotato di indubbia genialità. Commissionatogli l’incarico, si era messo alacremente al lavoro.

Il Vianotti aveva suggerito più soluzioni, tutte assai valide, per il futuro monumento funebre, e il susseguirsi degli incontri per discutere il progetto era sfociato – quasi come le acque di un placido fiume in quelle burrascose dell’oceano – in una passione incontrollabile. Ettore e Annamaria convolarono a nozze nel 1939, giusto in tempo per mettere al mondo Benito e Rosa, prima che lui venisse chiamato a combattere sul fronte russo.

La costruzione della cappella – un monumento elegante, col tetto a falde e sul frontone il bassorilievo di un angelo che scende in volo a confortare le anime dei trapassati – venne completata in tempo per accogliere il corpo di Ettore alla fine del conflitto mondiale.

Dal suo terzo e attuale marito, il senatore Mario Ramino, di ben vent’anni più giovane, l’Annamaria Siniboldi non ebbe figli, accogliendo comunque amorevolmente Marco, nato dal primo matrimonio del senatore.

Ora, il 20 di aprile, giorno di Pasqua, alla sua morte, la Siniboldi Castigliano lasciava un patrimonio considerevole in immobili locati e titoli di Stato, oltre all’appartamento di pregio che abitava nel centro di Forlì; patrimonio equamente ripartito fra tutti gli aventi diritto così come disposto da documento testamentario redatto innanzi a notaio in piena facoltà di intendere e volere.

Le peripezie, anche drammatiche, che sopravvennero alla sua dipartita, non furono quindi da imputare a incuria o negligenza, ma a una casualità sconcertante e del tutto fortuita.

 

L’ottantaduenne senatore dormiva nella stanza attigua. Si svegliava ogni mattina intorno alle sei, ma si attardava ad ascoltare i rumori e le voci delle due badanti che accudivano sua moglie, filtrate dai muri. Poi l’andava a trovare, poiché la lucidità di pensiero non aveva abbandonato la Siniboldi Castigliano, e parlottavano un po’.

Quella mattina, le grida e i pianti che gli pervennero attraverso la parete divisoria, furono più che eloquenti. In pantofole e pigiama entrò nella stanza accanto. Annamaria, era ormai trapassata. Pallida e serena aveva infine trovato riposo dalla sua lunga intensa esistenza terrena. Ora bisognava attivare tutte quelle procedure che tante volte avevano pianificato assieme, quelle che fra loro avevano sempre chiamato le tre telefonate.

Il senatore aveva baciato sua moglie sulla fronte e si era ritirato nello studio.

Per primo aveva informato don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia in Forlì, affinché intervenisse per l’ultimo Sacramento; poi suo figlio Marco perché estendesse la notizia ai figlioli di Annamaria e parenti tutti; infine la premiata ditta F.lli Taburri, con la quale erano stati presi accordi, Annamaria vivente, circa l’ultima cerimonia e l’allestimento della dimora finale.

 

Daniel Mihalake, cinquantatre anni, nativo di Slobozia, Romania, trasferitosi a Forlì da clandestino nel 1996, era un uomo felice. Faceva parte di quella schiera dell’umanità che, dopo averne passate tante e trovata infine una certa tranquillità, ebbene… questa tranquillità la apprezza. Lavorava per la Zanzini Marmi e il 22 aprile, insieme al giovane Florin, suo compaesano, ma immigrato in tempi recenti, avevano l’incarico di rimuovere la lastra provvisoria del loculo vuoto.

Daniel conosceva perfettamente il cimitero e non ebbe difficoltà a trovare la cappella con l’angelo a volo radente scolpito sul prospetto. Appoggiarono le borse con gli attrezzi e si accomodarono sui gradini, illuminati da un gradevole solicello. Erano le dieci, e i due, a quell’ora, facevano colazione. Scartarono i panini imbottiti e stapparono le birre.

Fra loro parlavano rumeno.

«Lo senti questo odore?» disse Florin dopo aver dato il primo morso, arricciando il naso.

Daniel annusò l’aria: «Non sento niente».

Florin disse: «Di cadavere».

Anche Daniel l’individuò. E gli venne da pensare che nel cimitero quell’odore mai l’aveva avvertito. A bordo cunetta di qualche strada campestre, la carogna d’un cane travolto da un’auto, l’aveva a volte fatto deviare, ma nel cimitero mai. Comunque fece spallucce e sollecitò il ragazzo a sbrigarsi.

Entrarono nella cappella.

La lastra da rimuovere era quella centrale, sul lato destro rispetto all’ingresso, di fronte al piccolo altare, la terza dal basso. La signora Annamaria Siniboldi Castigliano aveva riservato a se stessa il posto centrale, gli altri tutti occupati, tranne quello a fianco, destinato al senatore. Sarebbero stati tutti vicini, lei e i suoi tre mariti, una grande serena famiglia allargata. Dei figli, all’epoca, non si era preoccupata.

Il capo squadra si era raccomandato: La lastra era da rimuovere intera. Quindi i due operai si misero all’opera. Ma appena la smossero, il tanfo tolse loro il respiro. Mollarono la presa e il marmo sfuggì fracassandosi. La nicchia sarebbe dovuta essere vuota, invece, nella penombra, videro dapprima la massa dei capelli di un rosso violento, innaturale, poi, più che vederli, indovinarono i volumi pallidi, indistinti, della schiena e delle natiche che affioravano dal gioco d’ombre là in fondo.

Uscirono correndo, schiacciati dalla visione e dal fetore. Il giovane Florin si accasciò per vomitare; Daniel, appoggiatosi a una croce, inspirò aria più volte, prima di riuscire a riprendersi. Quindi chiamò il caposquadra col cellulare.

 

Angelo Taburri, contitolare assieme al fratello Santo dell’omonima premiata ditta di onoranze funebri, appena informato via telefono dal capo squadra della Zanzini Marmi circa l’incredibile ritrovamento di un cadavere nel loculo, fattosi convinto, dal tono e dalla concitazione dell’interlocutore, che non si trattava di uno scherzo, compose a sua volta, nell’ordine, il numero telefonico del pronto intervento delle Forze dell’ordine, del senatore Mario Ramino, però non raggiungibile in quanto assorbito dalla Funzione d’addio alla di lui consorte e del parroco don Pasquino Bonsangue, il quale, impegnato a commemorare le innumerevoli doti morali, in vita, della defunta, non rispose.

A questo punto che fare?

Telefonò al più anziano tra i portantini e, a seguire, agli altri. Ma, a quanto sembrava, la chiesa di santa Lucia si trovava in un cono d’ombra dei ripetitori telefonici, per cui gli fu impossibile avvertire del disguido.

Ecco dunque che il corteo funebre, ignaro, lasciò la chiesa e si avviò alla volta del cimitero. Vi giunse coi rintocchi di mezzogiorno e fu non poco lo sconcerto allorché si fece incontro al feretro il maresciallo dei carabinieri Luigi Indaga col braccio levato a intimare l’alt. Altri due militari stavano a lato della porta della cappella dei Siniboldi Castigliano, quasi fossero un picchetto d’onore. Sulle prime il senatore sospettò una qualche forma di iniziativa istituzionale apprestata per riguardo alla sua stessa persona; oppure a una celebrazione cittadina in ossequio alla ultracentenaria nobildonna; d’altra parte, le parole del maresciallo Indaga, furono nient’affatto chiarificatrici:

«Fermi là. Nessuno può entrare. La Cappella è sotto sequestro».

 

L’avvio della carriera politica del senatore risaliva alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, allorché poco più che ventenne era entrato nelle fila dell’allora partito di maggioranza. Da buon diplomatico, aveva saputo barcamenarsi nei vari scenari e tenersi a galla durante gli sconvolgimenti della vita politica italiana; aveva conosciuto gli anni incerti del dopoguerra, apprezzato la stabilità indotta dal boom economico degli anni sessanta, trepidato per le gambizzazioni brigatiste degli anni settanta, osservato senza toccarla la pece untuosa della corruzione e assistito agli scandali affiorati nel periodo di Tangentopoli, fino a giungere agli attuali stravolgimenti della seconda repubblica. Non aveva posseduto l’irruenza del condottiero e nemmeno la sudditanza del portaborse; dato sempre ragione a tutti e criticato nessuno. Non si era arrampicato in vetta, qualche volta si era lasciato tirare, altre volte qualcuno l’aveva sospinto. Se non aveva brillato, nemmeno era mai rimasto completamente nell’ombra.

Ormai da qualche anno, sebbene la sua funzione politica non avesse decadenza, conduceva una vita riservata, limitando i viaggi a Roma a quelle rare occasioni in cui la sua presenza era ritenuta indispensabile dal partito.

Alle due di pomeriggio del 22 aprile, superato l’iniziale disappunto alla vista dei carabinieri che sbarravano la strada al corteo, viste vane le proteste e trattenuta l’ira, si era sottomesso a ricoverare le spoglie di Annamaria nel deposito cimiteriale. Dopo di che, accomiatatosi da parenti e amici sconcertati, forte della propria influenza politica si era ritirato nello studio e aveva messo mano all’apparecchio telefonico.

Esigo, era stato l’intercalare che aveva contrassegnato ogni telefonata.

 

Alle ore diciotto del 23 aprile, nel soggiorno a terzo piano di palazzo Siniboldi Castigliano, il senatore Mario Ramino era l’unico in piedi. Su uno dei divani sedevano nell’ordine, il colonnello dei carabinieri Antonio Cercabene, il maresciallo Luigi Indaga, il giudice per le Indagini preliminari Matteo Orripilante e il Pubblico Ministero Gaetano Lamartana; sull’altro, don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia, l’avvocato Osvaldo Girovenale, legale di fiducia del senatore e il suo carissimo amico, il professor Anselmo Urbani, intervenuto insieme al collaboratore Sirio Bonanni, un giovanotto con la faccia da pugile di borgata.

«È spaventoso,» esclamò il senatore, trattenendo le gambe dal rimettersi a camminare avanti e indietro come aveva fatto sinora, «mi state dicendo che nel loculo destinato a mia moglie è stato rinvenuto il cadavere di una prostituta… e senza indumenti addosso?»

«Purtroppo è così,» rispose il giudice Lamartana.

«E come c’è finita lì dentro?» insistette il senatore.

Il PM Lamartana esitava.

«Veramente…» accennava al professor Urbani e a Sirio cercando di non farsi notare dagli interessati; i quali sedevano sul divano contrapposto, «il segreto istruttorio…»

«Ma quale segreto…» esplose il senatore, «il professor Urbani ha tutta la mia fiducia ed è qui per mia richiesta. Esigo che ascolti e che prenda parte alle indagini.»

A testa bassa il magistrato lanciò uno sguardo furtivo in direzione del collega Orripilante e del colonnello Cercabene. Il fatto che entrambi evitassero di incontrare i suoi occhi lo interpretò come una autorizzazione a procedere.

«Quand’è così,» disse, «lascio la parola al maresciallo Indaga.»

Tutte le teste si voltarono verso il maresciallo, che si schiarì la voce:

«Senatore, mi scuso per quanto accaduto nella giornata di ieri, ma nel momento in cui sopraggiungeva il corteo funebre erano in corso gli accertamenti del medico legale, nonché i rilievi dei tecnici della Scientifica. Abbiamo dato il massimo impulso alle indagini e identificato il cadavere occultato nel loculo. Non fosse stata la concomitanza del funerale sarebbero forse passati anni prima che venisse scoperto, e a quel punto sarebbe risultato pressoché impossibile il riconoscimento. Invece, a una settimana dalla morte, tramite le impronte digitali e altri elementi è stato possibile risalire all’identità della sventurata. Trattasi di Ajkina Glioshci, di nazionalità albanese, trentadue anni, più volte fermata per prostituzione. È stata pugnalata ripetutamente con un coltello a serramanico sul quale, oltre a tracce di sangue della vittima, c’erano le impronte dell’assassino, che è stato prontamente individuato e tratto in arresto. Si tratta di tale Alessandro Pastone, vent’anni, esercente, insieme al padre, uno dei chioschi di fiori antistanti il cimitero».

«Questo significa,» si intromise l’avvocato Girovenale, «che il caso è chiuso e potete dissequestrare e rendere agibile il monumento funerario della famiglia Siniboldi Castigliano!?»

«Certamente!» esultò il giudice Lamartana.

«Ha sentito don Pasquino,» fu felice il senatore, «finalmente potremo accompagnare Annamaria alla sua ultima dimora.»

«Quanto pesa questo giovanotto?» chiese Sirio.

«Prego? Come? Cosa?» gli venne chiesto da più parti. Giudici e carabinieri lo fissavano indignati.

«Alessandro Pastone, il fioraio arrestato, quanto pesa?» ripetette Sirio.

«Bah…» il maresciallo incassava la testa nelle spalle, storceva la bocca, «sui sessanta chili.»

«Pochi, per uno che avrebbe rimosso la lastra di marmo che faceva da coperchio alla tomba, sollevato il corpo senza vita di Ajkina… quanti… cinquanta, sessanta chili anche lei? fino a oltre un metro di altezza e infine ricollocato la lapide.»

Il giudice Lamartana voleva tagliar corto. Come si permetteva questo sbarbatello arrogante?

«Avrà avuto un complice, magari il padre.»

Sirio non sembrò aver rilevato l’interruzione: «Senza contare il sangue freddo necessario. Risultano precedenti penali a suo carico?»

Lamartana si sentì investito in prima persona e prese la parola: «Del tutto sconosciuto fino a oggi. Ma che c’entra?»

«C’erano le loro impronte, sue o del padre, sul marmo o comunque nella cappella funeraria?»

«Ma no, ma no… E questo che vuol dire? Le avranno pulite, è ovvio. Qui i riscontri probatori sono inequivocabili. Il giovane fioraio aveva intrattenuto rapporti sessuali con la Ajkina proprio la sera in cui è stata uccisa, come appurato dalle tracce del DNA ritrovate in fase di esame autoptico; l’arma del delitto, il coltello a serramanico a più lame, recava le sue impronte; abbiamo la testimonianza di altre due prostitute che li hanno visti assieme; e nel furgone del fioraio, verosimilmente utilizzato per accedere al cimitero senza destare sospetti, c’erano tracce del sangue della vittima; a noi bastano le prove, le speculazioni non ci interessano, caro signore.»

«Impronte digitali nel furgone?»

«Solo dell’imputato e del padre… recenti, dice la Scientifica…»

«In che senso recenti? Il furgone era stato lavato?»

«No, lavato no. Volante e maniglie strofinati…»

«Come per cancellare le impronte, quindi.»

«Forse. O forse semplicemente per una pulizia sommaria. Non ravvedo alcuna importanza in questa cosa.»

Il senatore voltava la testa da Sirio a Lamartana quasi assistesse a una partita di tennis.

Adesso la battuta era a Sirio: «Dov’è stato trovato esattamente il coltello? Era nascosto?»

Lamartana, adesso, era spazientito: «Nascosto? Fai tu. Stava nello spazio tra il sedile e la leva del cambio».

«Quindi nell’abitacolo, non all’interno del cassone. E, sui sedili, tracce di sangue?»

«No, no… niente.»

«Strano, le pare?»

Lamartana era irritato: «Perché strano. L’avrà uccisa fuori e poi caricata nel cassone, dove invece c’erano le tracce del suo sangue».

«E per tornare all’arma. Queste impronte, erano sull’impugnatura?»

Lamartana sbuffò: «No. Su alcune delle lame. Il manico era stato pulito».

«Incredibile. Ha ripulito dalle impronte l’arma del delitto, il proprio coltello, per poi lasciarlo nel proprio furgone! Come fare un tratto di penna sul proprio autografo per renderlo invisibile…»

«Adesso basta,» Lamartana batté la mano sul bracciolo del divano, «non permetto a chicchessia, ancor più a uno studentello di serie C di criticare l’operato dei magistrati e delle forze dell’ordine.»

Sirio scosse la testa.

«Ma allora perché?» disse come a se stesso.

«Perché cosa?» domandò il senatore.

«Perché un fioraio ventenne di cinquanta chili dovrebbe pugnalare una prostituta albanese, caricarne il corpo sul proprio furgone e nasconderlo in una tomba vuota? Insomma, quale sarebbe il movente?»

Il giudice Lamartana si agitò e mosse per aria le mani come a dire ma falla finita!

Invece il senatore insistette: «Già, perché?»

Siccome il Pubblico ministero si era ritirato braccia conserte, rispose il maresciallo Indaga, rivolgendosi direttamente al senatore.

«Si verificano in continuazione alterchi e risse in quell’ambiente, per i motivi più svariati e spesso futili… il cliente insoddisfatto che non vuol pagare, la mercenaria che rifiuta prestazioni particolari oppure pretende troppo… Che importanza può avere? Inoltre non dimentichiamo la testimonianza di altre due prostitute, le quali hanno visto Ajkina con Alessandro Pastone, appartati nel furgone da fioraio. Infine posso dirvi che il ragazzo è disturbato…» il maresciallo si picchiettò la tempia, «ha comportamenti a dir poco stravaganti. Al momento dell’arresto, si dibatteva e urlava. Finora non siamo riusciti a interrogarlo, ha scatti d’ira senza controllo. Può essere stato uno scatto di questi a fargli pugnalare l’Ajkina. Mi sembra del tutto inutile cercare un movente che abbia un senso».

Detto questo si alzò; prontamente imitato dagli altri del suo schieramento.

«Senatore…» salutarono a turno. Porsero la mano agli ospiti del divano opposto, tutti tranne Lamartana, che si finse occupatissimo a lisciarsi le sgualciture della giacca.

Il senatore li aveva accompagnati alla porta.

 

Alle undici di mattina di giovedì 24, una Mercedes GLC azzurra tirata a lustro era entrata a bassa velocità nel parcheggio antistante il cimitero. I chioschi dei fiorai erano allineati sulla sinistra; il sole proiettava le ombre allungate degli alberi sulle pareti di lamiera e sull’asfalto. La Mercedes aveva accostato al marciapiede e l’avvocato Girovenale spense il motore.

La sera precedente, usciti gli altri ospiti, il senatore aveva pregato don Pasquino, l’avvocato, l’amico Urbani e il suo giovane assistente, a trattenersi ancora un poco in sua compagnia.

Appariva provato.

«Ho bisogno di qualcosa di forte,» aveva detto, svitando il tappo a una bottiglia di Johnnie Walker Black. Ne aveva versato dosi abbondanti in cinque bicchieri e li aveva distribuiti agli ospiti.

«Tutta questa faccenda mi ha sconvolto,» aveva aggiunto dopo un lungo sorso. Quindi si era rivolto a Urbani, «Anselmo, mi sembra di capire che tu e il tuo assistente siate scettici sulle conclusioni che concernono l’assassinio della… Ajkina.»

Urbani aveva sorseggiato il whiskey e sollecitato Sirio con lo sguardo.

«Ci sono delle incongruenze che meriterebbero di essere indagate,» disse il giovanotto.

Il senatore faceva rotolare il bicchiere fra i palmi delle mani.

«Trentadue anni,» sembrava parlasse tra sé, «l’età di mia nipote, una ragazzina in definitiva. Non fosse per la coincidenza incredibile del funerale di Annamaria, sarebbe rimasta dentro quella tomba chi sa quanto, dimenticata, senza più nemmeno un nome. Forse è il momento drammatico che sto vivendo, però mi sgomenta tutto questo.»

«Si tratta di un sentimento di cristiana carità. Comprensibilissimo,» affermò don Pasquino torcendosi le mani.

«Ho deciso,» affermò il senatore.

Si rivolse al professor Urbani: «Anselmo, sei uno studioso di criminologia, conosco le tue qualità investigative e siamo amici da tanto tempo, vorrei che andassi a fondo, in questa indagine».

Urbani assentiva con la testa: «Certo, certo… Ma avremo bisogno di ufficialità».

Il senatore corrucciò la fronte: «Vale a dire?»

«La legge italiana,» disse il professor Urbani, spostandosi al bordo del divano, «consente alla difesa di svolgere indagini. Capisce bene che nessun cittadino è autorizzato ad andare in giro a fare domande… Ma potremmo, se rappresentassimo l’accusato.»

«Il giovane fioraio? Voi siete convinti che non sia colpevole?»

«Ravvisiamo fondati dubbi,» rispose Sirio, «non è un pregiudicato, difficile credere possa aver avuto il sangue freddo di pugnalarla e subito dopo andare a nascondere il cadavere in una tomba. Un occultamento così fantasioso stona con l’ipotesi di un omicidio a caldo, per come ce lo ha illustrato il giudice Lamartana. A sentir lui, al di fuori di una qualsiasi motivazione plausibile, il giovane fioraio l’avrebbe pugnalata in un impeto d’ira incontrollabile. Ma, verosimilmente, se così fosse, l’avrebbe abbandonata dov’era e sarebbe scappato. Invece si ravvisa del sangue freddo in ogni circostanza. Le impronte cancellate sull’impugnatura del coltello e il fatto che la vittima sia stata denudata. Tutto fa ritenere che l’assassino si sia preoccupato di occultare qualsiasi traccia potesse far risalire alla propria identità e lasciato invece ben visibili quelle che rimandavano al giovane fioraio. È il comportamento di qualcuno abituato a muoversi nel torbido, abituato a ingegnarsi per rimanere nascosto. Ma per eliminare qualsiasi dubbio e farci un’opinione obiettiva, sarebbe utile incontrare il giovane sospettato.»

«Ah, capisco. Come si può fare?»

L’avvocato Girovenale si schiarì la voce: «Se io fossi il legale di Alessandro Pastone, tutto sarebbe consequenziale».

«Giusto. Mi sta bene! Procediamo in questo senso. Resta inteso che mi farò carico dei costi relativi.»

«Perseguire la verità è un atto cristiano,» aveva aggiunto don Pasquino, «la verità è il fondamento della giustizia.»

 

«Ecco, dovrebbe essere quello,» aveva detto il professor Urbani.

Il banco dei fiori era il terzo della fila, dal lato verso le campagne. Poche altre vetture sostavano nel parcheggio, qualche donna attraversava la strada per dirigersi al cancello monumentale del cimitero.

La mole considerevole dell’avvocato Girovenale, intorno alle undici di giovedì 24 aprile, sbarcò dalla Mercedes azzurra e si diresse verso il chiosco, seguito dal professor Urbani e da Sirio.

Il fioraio, un uomo stempiato intorno al metro e cinquanta, indossava un camice grigio. Smise di riordinare i vasi sulla rastrelliera e mosse un passo incontro a quelli che riteneva dei clienti.

«Lei si chiama Duilio Pastone?» aveva esordito l’avvocato Girovenale.

Il fioraio li aveva guardati con espressione confusa: «Sì, ma… voi?»

L’avvocato si era presentato e aveva presentato il professore e Sirio: «Vorremmo scambiare qualche parola».

«A che proposito?»

«Circa l’arresto di suo figlio, o meglio, pianificare una linea di difesa. Ma non qui, in mezzo alla strada. Le dispiacerebbe seguirci?»

Con l’espressione confusa, Duilio Pastone tolse il camice grigio e l’appoggiò alla rastrelliera, quindi informò la donna del gazebo accanto che si allontanava e li seguì.

Trovarono posto a un tavolino esterno sotto il tendone di un bar.

L’avvocato raccontò del funerale interrotto e della decisione del senatore di affidare al professor Urbani, valente criminologo, e al suo assistente, l’incarico di svolgere indagini per conto della difesa.

«Come mai questo senatore si preoccupa della sorte di mio figlio?» chiese il fioraio.

«Il ritrovamento del cadavere della ragazza assassinata e nascosta all’interno della tomba destinata alla moglie, lo ha turbato. Inoltre, non è convinto della colpevolezza di suo figlio,» spiegò l’avvocato.

«Alessandro è innocente,» protestò il fioraio.

Sirio disse: «Ne siamo tutti persuasi. Lei deve aiutarci a dimostrarlo. Ci parli di lui e dei suoi rapporti con la ragazza, Ajkina».

«Mio figlio ha un animo semplice,» disse Duilio Pastone, «il suo corpo ha vent’anni, ma la testa è rimasta a quando ne aveva dieci, undici. Ajkina l’aveva preso in simpatia. Si fermava, passando dal chiosco, smontava dalla bicicletta e si mettevano a chiacchierare… e ridevano. A me faceva piacere. Li stavo a guardare ed ero felice della felicità di mio figlio. Un po’ mi illudevo che fosse un giovanotto normale, che sta dietro alle ragazze e le corteggia… quasi ci fosse la possibilità che un giorno trovasse quella giusta da sposare. Certe volte mi chiedevo perché lo facesse Ajkina, invece. Va bene, pensavo, per simpatia nei suoi confronti… ma non solo, avevo anche l’impressione volesse compiere qualcosa di pulito, nell’abbrutimento del proprio mestiere, una specie di compensazione, se mi capite. Quel giorno si è messa al volante del furgone, come faceva qualche volta, e ha invitato Alessandro a salire con lei. Mio figlio, come tanti ragazzini di undici anni, è capace a guidare, ma è assurdo sperare che gli possano concedere la patente. Si sono diretti verso il boschetto che si estende poco più avanti del cimitero. Sono tornati dopo circa un’ora, ma diversi. Non so spiegare… non erano allegri come le altre volte. Poi lei è andata a lavorare e io con mio figlio, visto che ormai erano più o meno le sette di sera, siamo rincasati.»

«Col furgone?» chiese Sirio.

«No, abitiamo a circa un chilometro. Il furgone lo lasciamo nel parcheggio e ci spostiamo con le biciclette.»

«Il furgone l’avete lasciato e ritrovato chiuso?»

«Credo di sì. Non ci ho fatto caso, non ricordo… è passata una settimana.»

«Sa che i carabinieri hanno trovato tracce del sangue di Ajkina nel furgone?»

«No. Non ne sapevo niente. Si sono presentati ieri intorno alle tre del pomeriggio e lo hanno portato via con un carro-attrezzi. Sequestrato! hanno detto; ma del sangue non sapevo niente. Una vettura, con a bordo due carabinieri, è poi rimasta nel parcheggio davanti al nostro chiosco. Un paio d’ore più tardi è venuto un maresciallo. Hanno ammanettato mio figlio e lo hanno portato via. Per accertamenti! Alessandro strillava di paura. Io li ho seguiti fino in caserma, ho aspettato finché non mi hanno cacciato via, a mezzanotte. Sono tornato stamattina presto, ma nessuno mi ha spiegato né il perché né il percome. Questo è tutto.»

«A me dovranno spiegare,» gonfiò il petto l’avvocato, «e come, se dovranno.»

Sirio riprese: «Alessandro aveva un coltello a serramanico?»

«Sì, a più lame, come questo,» Duilio Pastone lo cavò di tasca e sfilò qualche lama, «lo usiamo sul lavoro, al chiosco dei fiori e anche in campagna.»

«Quello di Alessandro dov’è?»

«Non saprei… perché me lo chiede?»

«L’hanno trovato i carabinieri nel vostro furgone, con sopra le impronte di Alessandro e il sangue della vittima.»

«Allora è per questo che l’hanno arrestato? No, no, impossibile, sono pazzi se credono che l’abbia uccisa lui.»

Sirio gli chiese: «Mi dica, Ajkina si confidava con voi? Può dirci se aveva un protettore, delle amiche… può rivelarci qualche particolare della sua vita privata, qualche indizio che ci aiuti a conoscerla?»

«Mi era simpatica, quella ragazzina, sorridente, allegra… un po’ chiassosa, anche, ma chiacchierava di frivolezze, mai di sé stessa. Una volta le ho chiesto se non avesse paura, di notte, a incontrarsi con degli sconosciuti. Si è messa a ridere, so difendermi, ha detto. Quindi no, non credo avesse un uomo del genere, anche perché arrivava e se ne andava da sola, con la bicicletta. No, no, nessuno.»

Intervenne una pausa, mentre Duilio Pastone faceva dei ghirigori col dito sul tavolo, poi riprese:

«Qualcosa posso dire. Una volta, aveva dimenticato la borsetta aperta, e all’interno ho visto una pistola, piccola, col calcio bianco… Ecco, questo… Ma non mi sovviene nient’altro.»

 

Il 25 aprile, nella sala per gli interrogatori, Sirio si rese conto che le proprie indagini e quelle del professor Urbani avevano raccolto elementi che quelle ufficiali ignoravano. Il giovane Alessandro, che in un corpo adulto conservava l’ingenuità di un bambino, allontanato di prepotenza dal suo papà si era chiuso in un mutismo cocciuto e adesso, finalmente confortato dalla presenza del padre, era pronto a rispondere.

«Tu vuoi bene ad Ajkina?»

Il ragazzo si riscosse, gli occhi trovarono luce: «Ajkina? Certo, lei mi ama».

«Bene,» sorrise Sirio, «puoi raccontarci che è successo nel bosco, l’ultima volta che vi siete incontrati?»

«Lei rideva,» disse Alessandro, «era felice, era tanto felice. Perché era l’ultima volta che ci vedevamo, perché doveva tornare a casa sua, in Albania.»

«Ah…» si intromise Orripilante, «quindi ti sei arrabbiato e l’hai picchiata…»

«Per favore!» intervenne Girovenale.

Sirio parlò ad Alessandro col tono che si usa con una ragazzino:

«Rispondi al signore, ti sei arrabbiato?»

«No. Ajkina era contenta. Siccome era contenta, ero contento anch’io.»

«Poi? cos’è successo?» chiese ancora Sirio.

«Ajkina rideva. Raccontava che il suo paese è sopra una montagna, d’inverno nevica sempre. Quando era piccola, suo padre se la metteva sulle spalle e salivano fin sopra alla montagna. E nello zaino, suo padre metteva i panini e il plaid, così, quando arrivavano in cima, facevano il picnic e poi giocavano a rincorrersi o a nascondino. Lei ricordava queste cose e me le raccontava e poi rideva ed era felice, perché suo padre, il giorno prima, l’aveva chiamata al telefono per chiederle di tornare. Adesso è vecchio, mi ha detto Ajkina, e ha bisogno di me. Lei era contenta di tornare, avrebbe accompagnato lei il suo papà sulla montagna. E un po’ rideva e un po’ piangeva, mentre mi diceva queste cose. Poi si è avvicinato un signore.»

«Un signore?» ha domandato Sirio.

«Sì, è sceso da una Range Rover ed è venuto a bussare al finestrino.»

«Com’era questo signore?»

«Aveva la faccia arrabbiata.»

«Sì, ma era alto, basso… com’era vestito?»

«Era alto. Con la pancia e il petto come le donne. E con la barba. E coi jeans e la maglietta a strisce colorate macchiata di sudore sotto le ascelle. Ajkina ha premuto il pulsante che blocca le portiere e allora quello lì ha dato una manata sul parabrezza.»

«Hai notato qualcosa di particolare in lui?»

«Sì. L’orecchino, e un teschio tatuato sul braccio, qui. E aveva la faccia sudata.»

«Poi?»

«Si è messo a strillare.»

«Ah. E che diceva?»

«Non so. Parlava albanese, e Ajkina ha risposto in albanese anche lei.»

«Accidenti!» imprecò il giudice, «sarebbe stato utile conoscere il tenore dell’alterco.»

«Alessandro ha una memoria eccezionale,» spiegò Duilio Pastone. Si rivolse al figlio:

«Alessandro, ripeti le parole esatte che si sono detti».

«Bitch, ky është paralajmërimi i fundit, nëse nuk më sillni ato para që jeni të vdekur sot.»

«Un traduttore,» gridò il giudice, «cercatemi un traduttore.»

«Puttana, questo è l’ultimo avvertimento, se non mi porti entro oggi quei soldi sei morta,» tradusse il padre del ragazzo. Poi, tornando a rivolgersi ad Alessandro, «Ajkina, cosa gli ha risposto?»

«Ajkina ha preso la pistola dalla borsetta e gliel’ha puntata in faccia, davanti al finestrino chiuso. Poi ha detto, Nëse po të shoh përsëri do të të qëlloj. Dhe ti e di që nuk po tallesh.»

«Se ti rivedo ti sparo. E sai che non scherzo,» tradusse l’uomo.

Sirio accarezzò i capelli crespi del giovanotto di vent’anni con la barba incolta: «Bravo Alessandro, sei stato molto bravo. Adesso dimmi un’altra cosa, perché so che hai una memoria eccezionale, dimmi la targa della Range Rover».

E Alessandro gliela disse.

giovedì 3 ottobre 2024

Una vecchia stampa di maniera - Racconto

 



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UNA VECCHIA STAMPA DI MANIERA

 

Ho buona memoria, sempre avuta. A due anni ho imparato una filastrocca lunghissima da ripetere davanti al presepe; ma non pensavo a questo fuori dalla porta del bagno, in piedi davanti al quadro.

È una vecchia stampa, ingenua e di maniera, che quasi commuove per il piacere manifesto che dovette provare l’ignoto incisore nel far preciso tutto ciò che ci poteva entrare… questo esattamente pensavo.

C’è stato un grido e un tonfo. Poi strilli e risate.

Vengono dalla piscina.

Nel corridoio della villa in cui mi trovo, di qua e di là del muro su cui è affisso il quadro, ci sono due luminose portefinestre. Il sole di agosto usa i riquadri di vetro per accecarmi. Mi porto il palmo della mano sulla fronte e guardo fuori. Dall’acqua affiora una ragazza, ho sentito che si chiama Pamela, è un’amica della festeggiata. Si passa una mano sulla faccia grondante e allunga il braccio. Mostra il medio teso a quello che l’ha spinta in acqua. Lui è la versione rimpicciolita di Arnold Schwarzenegger, senza fucilone a raggi laser ma con bicipiti, pettorali e tartaruga al posto giusto. Tatuaggi dappertutto. Pamela si mette a ridere e tende la mano per farsi aiutare ad uscire. Anche mini Schwarzenegger ride, si accovaccia sul bordo, si protende per aiutarla a venir fuori dall’acqua. Tutti gli altri li fissano, sorridono, in attesa. Pensano che lei lo trascinerà in acqua a sua volta, ma non succede. Forse anche lui se lo aspetta e sta in guardia. Lei si siede sul bordo della piscina con i piedi ancora in acqua, poi si alza e lui l’abbraccia, mentre gli altri tornano a sorseggiare dalle cannucce, ad aspirare boccate dalle sigarette e dagli spinelli e a riprendere i discorsi di prima.

«Ti piace?»

Ha gli occhi verdi, grandi. Riempiono il campo visivo come quelli della ragazza afgana fotografata da Steve McCurry. Non l’ho sentita arrivare e non mi era stata presentata. Forse è venuta dopo.

Indica il quadro.

«Sì,» le dico, semplicemente, perché sul momento mi trovo spiazzato e non so cosa aggiungere.

«Ho notato che lo fissavi… eri pensieroso.»

«Stavi qui?»

Mi guardo attorno, nel breve corridoio.

Come ho potuto non accorgermi?

Lei tende la mano verso il dipinto. Una stampa, in verità, forse di fine ‘800, dietro al vetro in una cornice pretenziosa, dorata e con fregi in rilievo. Rappresenta due figure, un uomo e una donna, giovani, in una strada costeggiata da casette paesane, con le scale esterne, i muri scrostati, i gerani sui davanzali. I due indossano abiti d’epoca. Pantaloni annodati alla caviglia e un gilè, lui, lei una gonna lunga e un corpetto con i volant. L’uomo è sulla sinistra, frontale rispetto all’osservatore, ma la testa è girata verso la ragazza. Ha un’espressione interrogativa. Lei è di spalle, lo ha già superato, va verso il fondo di quella stradina altrimenti deserta, si allontana. Deve aver aspettato a voltarsi, di proposito, però adesso lo fissa con civetteria. I capelli scendono di lato lasciando scoperto il viso, ha il mento quasi adagiato sulla spalla, che la scollatura mostra nuda. Lo guarda maliziosa. Forse c’è un invito nascosto in quello sguardo.

«Mi ripetevo le parole di un racconto di Pirandello,» rispondo

«Conosci Pirandello a memoria?»

Sento le orecchie prendere fuoco.

«Certo che no. L’ho letto ieri! Le novelle per un anno, la filosofia dell’uno, nessuno e centomila, il teatro, la maschera…»

«Va bene, va bene, ho capito. Anche io studio, ma non è che ricordo tutto a memoria.»

Mi fa sentire uno scemo. Forse resto in silenzio troppo a lungo, forse lei vuole sdrammatizzare. Comunque aggiunge: «Va’ avanti, mi interessa».

Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social,  intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.

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Racconto

Emancipazione - Racconto

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