domenica 13 luglio 2025

Emancipazione - Racconto

 




Questo racconto fa parte della raccolta FRAMMENTI DI ADESSO.

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EMANCIPAZIONE

 

 Spengo il motore del fuoristrada in uno slargo della Carrara.

A sinistra, oltre il muretto a secco, l’appezzamento delle melanzane. La macchina raccoglitrice, simile a un uccello con le ali spiegate, avanza adagio, per permettere ai raccoglitori di sistemare gli ortaggi sui due nastri trasportatori. Saranno una decina, fra uomini e donne, italiani e di colore. Hanno tutti la pelle scura, tanto che certe volte nemmeno li distingui. Immagino i commenti dei maschi giovani sul mio didietro, li fanno sempre, e non perché siano razzisti o sessisti, ma semplicemente perché sono giovani e maschi.

La carrara, nei miei ricordi, è sempre stata così: stretta, delimitata dai due muretti di pietre mezzo crollati, e col fondo di pietrischetto bianco. Mio nonno, da piccola, mi raccontava di quando ci passavano i carri, appunto, e le ruote di legno col cerchio in ferro avevano scavato per secoli e secoli due solchi profondi. A quel tempo l’azienda Bio che mi dà da mangiare era una masseria, le donne e i ragazzini raccoglievano a mano, riempivano i cesti che uomini portavano a spalla per andarli a versare sui carri. Adesso le macchine fanno tutto o quasi, come il bestione che mi viene incontro dall’appezzamento sul lato opposto della carrara.  Il mezzo è una vera bellezza, azzurro, con le ruote più alte di una persona e la cabina che avvicinandosi sembra sempre più un grattacielo guardato dalla strada. Si ferma a pochi metri, sussulta leggermente col motore al minimo; sembra un gigante buono impaziente di tornare a rendersi utile.

Mesciu Tore salta giù dal gradino più basso della scaletta. Lo ricordo da sempre così, con la pelle color cuoio e i solchi che dagli occhi scendono fino al mento.

«Non hai sentito il gallo, signorina?» scherza.

«Mio nonno ha avuto una colica, il dottore è andato via adesso.»

«Ah, mi dispiace. Ero alto due palmi quando mi diceva Ieni piccinnu mia… vieni bambino mio, e mi portava sul trattore da alba a tramonto, col sole e la pioggia… e allora i mezzi non erano come questa bellezza…»

«Che ne dici, comincio?» lo interrompo, prima che si metta a raccontare com’erano i trattori ai tempi suoi, che poi… sai quanti ne vedo e ne ho visti per le campagne qui attorno!?

Ci resta un po’ male, gli piace raccontare, come a tutti quelli di qui. Ma è solo un momento, torna a sorridere e mi fa, indicando la scaletta: «Va’ vagnona,» che significa: Vai, ragazzina.

Fra loro parlano dialetto stretto, anche gli stranieri trapiantati; con me, tutti, un misto che si approssima all’italiano. Forse perché, per gli studi, sono partita carosa e tornata rande… partita giovane e tornata grande.

Agita la mano quando si è già voltato: «Ciao Nuzza».

Posso ricostruire come da Giulia si sia arrivati al diminutivo vezzeggiativo Nuzza. Partendo da Giulianuzza, e da qui all’ulteriore vezzeggiativo Nuzzuzza. Altrove sarebbe inaccettabile, invece qui dentro mi hanno sempre chiamata così e sono convinta che molti lo considerino il mio nome vero. Ci ho fatto l’abitudine.

Mi arrampico sul bestione in attesa.

Ho seguito un corso del costruttore, per guidare il mezzo. Appena mi siedo e chiudo la portiera, il getto dell’aria condizionata mi crea quasi uno shock termico: la spengo. Il motore mi trasmette la sua impazienza attraverso il sedile. Spingo pedali e manovro leve, e si avvia. Ruoto il volante. Davanti a me l’appezzamento va incontro all’orizzonte piatto, separato dalla linea perfetta che demarca la parte arata da quella da lavorare. Affondo i vomeri nella terra e rilascio la frizione. La macchina ha un attimo di stallo, poi si avvia. Davanti a me, da adesso in poi, a sinistra il marrone scuro della terra rigirata, di qua la distesa gialla delle stoppie di grano appena mietuto. Il mezzo brontola in sottofondo e tira dritto. Potrei lasciare sterzo e pedali e lui andrebbe avanti senza ripensamenti, all’infinito. Su questo territorio piatto come una tavola piallata è come in barca, vai verso l’orizzonte e lo vedi allontanarsi: irraggiungibile. Eppure sai che in fondo c’è sempre qualcosa, sia pure un nuovo percorso, magari tortuoso, rispetto a quello diritto che avevi seguito finora. Qualcosa c’è, diverso da ciò che hai lasciato. E questa è l’unica certezza.

Le case vedono passare le vite di chi le abita. La facciata di quella dei nonni è malridotta. Era bianca e bella, nei miei ricordi; attaccata, come se l’abbracciasse e non se ne volesse staccare, al palazzetto dei massari di allora, don Cosimo e donna Agatina, che ho conosciuto solo nei racconti dei vecchi di qua. Mio padre, prima che io partissi per l’università, aveva imbiancato il soggiorno. Adesso, dopo sei anni, è ancora pulito. Ti accorgi che non è più candido solo se sposti i quadri. Per queste contrade il bianco veste qualsiasi edificio, tranne le chiese, che sono grigie come la pietra locale invecchiata, e le case in stile liberty dei signorotti del posto, che sono di un bel rosa acceso. La cucina dei nonni, che papà ha sempre rinviato, ha le pareti scurite dalla fuliggine dell’antica cucina a legna, ormai dismessa, e della stufa a carbone, che ancora funziona per i pochi mesi invernali…

 

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