venerdì 10 luglio 2020

1934 o il canto della Sirena - Racconto


 




ANTEPRIMA:

1934 o il canto della Sirena

Sirio e Mariele, in due sdraio sulla spiaggia, sotto un ombrellone abbassato, osservavano il crepuscolo che avanzava dal mare. Erano quasi le sei della sera del dieci di febbraio e il sole era tramontato dietro le case di Cervia, alle loro spalle.

Mariele si stringeva addosso il giaccone, si sporse verso Sirio e gli appoggiò la mano sul braccio.

I suoi occhi erano di un verde unico. A volte si incupivano disegnandole impercettibili rughe sulla pelle chiara e fresca.

«Devo ringraziarti» disse «è stata una settimana intensa, meravigliosa. E debbo chiederti un favore…»

Si protese verso la borsa in tela accanto alla sdraio e ne estrasse una piccola confezione in carta da regalo, sigillata sui lembi con l’adesivo di un cuore. Poteva essere un libro.

«Quando sarà il momento dovrai darlo a Rodolfo.»

«Quando sarà il momento…?»

«Sì. Lo capirai. Succederà una cosa talmente fuori dal comune… lo capirai. Adesso toglilo per favore, Rodolfo sta tornando.»

Sirio l’avvolse nella propria giacca a vento appoggiata sul tavolino che reggeva l’ombrellone.

«Per scaldarci un po’… Bourbon, non del migliore, ma è quel che ho trovato…!» Disse Rodolfo porgendo il primo bicchiere a Mariele: «Alla mia bella».

Prese posto anche lui, nella sdraio dall’altro lato di Mariele.

«Quindi avete deciso» disse Sirio «nessun ripensamento…?»

«Siamo stati bene da te… sei il miglior amico, e lo sai. Ma la nave salpa domani da Genova. Dobbiamo andare…» Disse Rodolfo.

E Mariele: «Oh, ma saremo sempre in contatto. Ti manderemo fotografie di ogni nostro bacio…» Si protese verso Rodolfo per strofinargli il naso sul naso.

«Le aspetterò» disse Sirio. «Voglio che siate felici per tanti anni ancora come in questo momento…» Alzò il bicchiere.

Rodolfo lo toccò col suo: «Alla felicità di Mariele…».

E Mariele: «Finché sarà il momento». Fece tintinnare il suo sugli altri.

Rimasero a osservare le increspature del mare che sembravano portare a terra la notte, l’una dopo l’altra come giorni che passano. Poi Rodolfo si riscosse: «Dobbiamo rientrare».

Presero posto nella piccola, antiquata Clio color vinaccia di Sirio.

C’era poco da dire, gli addii sono sempre un po’ mesti. Salirono in casa. E mentre Mariele riordinava i bagagli, Rodolfo prese Sirio in disparte. Gli porse un fascicolo rilegato con spilli metallici.

«Questo è il romanzo che sto scrivendo. È la nostra storia, mia e di Mariele. È solo una prima stesura, una bozza, mi piacerebbe che lo leggessi, se ti va…»

«Certo che lo leggerò. È una storia bellissima la vostra, vivetela appieno, senza perdere attimi. Mariele è semplicemente meravigliosa: abbi cura di lei.»

«Lo farò. Qualunque sia il futuro.»


 

Il Canto della Sirena.

Capitolo primo.

In gennaio avevo affittato un villino in una località poco a nord di Nettuno, appartata quanto bastava al mio scopo. Avevo bisogno di tranquillità per raccogliere le idee e sviluppare la trama complessa che avevo a mente per il mio prossimo romanzo. Quella mattina, saranno stati un due o tre giorni dal mio arrivo, ho sentito un canto. Una voce di soprano che entrava dalla finestra sul lato del mare, dove avevo ricavato il mio studio. Sarebbe potuto essere un disco di opera lirica. Invece no, perché ritornava sulle strofe, ripeteva passaggi, provava intonazioni. Una voce bellissima che mi induceva a sognare. Ho aperto un nuovo file e digitato un titolo: “Il Canto della Sirena” e lasciato che la fantasia corresse dietro a quel canto. Ho deciso che avrei scritto e descritto in prima persona.

Arrivato a “prima persona” sono uscito. Ho preso per la direzione da cui proveniva la voce. Man mano che avanzavo affondando nella sabbia, quella voce diveniva più distinta e armoniosa e musicale e le parole chiare e intelligibili. Era un canto d’amore.

Il villino era a un paio dopo il mio.

Fuori dalla siepe, attraverso la finestra aperta, la vedevo.

Era al pianoforte.

Capelli d’un castano dorato che piovevano sulla camicetta chiara.

Sono rimasto ad ascoltarla e osservarla. Confesso che ero confuso e affascinato.

Non so come, dopo un po’ che mi trovavo lì in silenzio e quasi senza respirare, deve aver percepito la mia presenza. Si è voltata di scatto verso la finestra ed ha sorriso.

“Perdonami” le ho detto “non avevo intenzione di spiare. Ti ho sentita e non ho potuto fare a meno di fermarmi. Mi chiamo Rodolfo Sanavalle, e abito poco più in là.”

Lei è venuta alla finestra e sorrideva. Due meravigliosi occhi verdi che però, mi sovviene adesso, si nascondevano dietro un velo, non so se di tristezza o disperazione.

È arrivata al davanzale e ha detto: “Io sono Mariele Rugantini. Debbo esibirmi a Milano, fra una settimana. Sarà la mia ultima performance e vorrei lasciare un bel ricordo nel mio pubblico.”

Non sono un intenditore d’opera lirica. E sì, forse, da qualche parte avevo sentito o letto il suo nome.

“Perché l’ultima?” Le ho chiesto.

E lei: “Sono stanca. Voglio ritirarmi. Forse farò una crociera, o un viaggio di un paio di mesi. Per dopo… si vedrà.”

“Fortunato tuo marito…!” Le ho detto, non so bene perché.

“Marito?” Si è messa a ridere. “Nessun marito, o amante… o altro. Troppo impegnativo…”

Ha arricciato il naso e scosso la testa e si è soffermata a fissare dalla parte del mare, con quei meravigliosi occhi verdi e tristi.

“È un bel posto tranquillo, qui.” Ho detto io.

Si è riscossa: “L’ideale per i miei vocalizzi, non do fastidio a nessuno e nessuno disturba me. Lei piuttosto, un uomo, cosa ci fa in questa stagione in questo deserto?”

“È per un motivo molto simile al tuo.” Ho detto e le ho spiegato di essere uno scrittore in cerca di tranquillità per riordinare le idee.

Lei ridendo ha confessato di non conoscermi come autore e di non aver mai letto un mio libro. “Ma questo non mi impedisce di offrirle un caffè”. Ha concluso aprendomi il cancelletto.

 

Versato il caffè nelle tazzine le ha portate sul tavolo di cucina fra noi.

“E questa sua professione, sì, insomma, di scrivere libri” ha detto mentre faceva girare il cucchiaino “le dà di che vivere?”

“Non del tutto” ho confessato “arrotondo con delle ripetizioni di italiano.”

“Coltiva nuove generazioni di scrittori, insomma.” Una breve risata ha accompagnato le ultime parole.

Non penso volesse deridermi, così ho risposto sinceramente: “Mi piacerebbe crederlo. A te, invece, piace leggere?”

 “C’è stato un periodo, diciamo intorno ai dodici, tredici anni in cui mi aveva affascinata Alberto Moravia…”

“Ah, inusuale per una femminuccia.”

“No, perché? Mi coinvolgeva invece, c’erano molte eroine nelle sue storie: La Romana, la Ciociara, Carla degli Indifferenti… e mi assorbivano tutti quei suoi ragionamenti sulla noia e la disperazione che li seguivi pagina dopo pagina tanto che ti sembrava si ripetessero e invece no, andavano avanti e oltre. Era come una voce nella testa che ti sospingeva ad arrivare in fondo. Sa che ho ritrovato giorni addietro 1934 e l’ho riletto?”

È possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte?” Ho citato a memoria. E lei, con di nuovo quell’incredibile angoscia negli occhi:

“La domanda giusta è: È possibile vivere nella disperazione? E se così dev’essere, perché non desiderare la morte?”

Il duplice quesito, traslato nella vita, quindi fuori dalla fantasia romanzata, mi ha sconvolto. Mentre ancora cercavo un modo per replicare, o comunque sdrammatizzare, lei ha aggiunto: “Mi scusi, non voglio scacciarla, ma devo tornare al lavoro.” E subito dopo, come pentendosi: “Però possiamo vederci più tardi, se vuole…”

Le ho lasciato uno dei cartoncini da cui risultava che offrivo ripetizioni di italiano e materie letterarie, e sono tornato alla porta che dava sulla spiaggia.

 

Rientrato a casa ho trascritto il nostro incontro. Ero diventato a un tempo persona e personaggio e la mia stessa vita l’ambientazione di un romanzo.

Attraverso la finestra aperta seguitava a raggiungermi la voce di Mariele, alimentandomi pensieri, spingendomi a scrivere pagine su pagine, fino a perdere la cognizione del tempo. Mi sono riscosso che fuori era buio. Mariele, la sua voce, adesso, d’improvviso, era un’assenza e quasi con una sorta di rimorso non sapevo ricostruire il  momento in cui avevo smesso di sentirla. Le sette, le otto della sera? Dal mare giungeva il suono monotono della risacca.

Non mi aveva chiamato.

Ho pensato di tornare alla sua villa lungo la spiaggia.

Ma no: indiscreto invadente pressante. No: non era il caso.

Invece il telefono finalmente ha squillato.

L’insegna della trattoria fuori Nettuno tremolava. Ammiccamenti. Quasi inviti.

All’interno, fuori stagione, i tavoli erano tutti liberi. La donnona rubiconda, con indosso il grembiulone e un cappellone floscio da cuoca, sorrideva venendoci incontro. La giovialità fatta persona! Non ha smesso di coccolarci tutto il tempo: suggerito i piatti migliori, i vini più appropriati, raccontato aneddoti e storielle buffe di clienti. Si era apparecchiata una seggiola e veniva a sedersi con noi nei tempi d’attesa fra una portata e l’altra. Ciarlava in continuazione, metteva allegria.

O forse eravamo noi, Mariele e io, ad essere allegri e felici, e così, per simpatia o induzione, avrebbero asserito un chimico o un fisico, tutto all’intorno ci appariva felice ed allegro.

Mi rendo conto che al giorno d’oggi non si scrive più come sto facendo… ma butto giù emozioni di getto, forse dopo taglierò… ma per adesso riporto ciò che provavo in quanto persona, più in là, forse, lo farò calzare con un me personaggio.

Quella stessa notte Mariele ed io ci siamo amati la prima volta.

Poi, molto più tardi, fuori s’intravvedeva il primo chiarore, ed io non volevo dormire benché non avessi dormito, mi sono alzato e tornato verso casa dalla parte del mare. Era freddo, e il vento mi contrastava mentre procedevo nella sabbia. Mi sono messo subito alla tastiera, perché non intendevo perdere nulla di quanto stavo vivendo.

 

I tre giorni successivi si sono replicati, uguali a sé stessi, con quella cadenza forse monotona che uno non percepisce né apprezza, se non quando sono passati. Durante il giorno lavoravamo, lei in preparazione dell’Opera a Milano, io al mio romanzo; la sera si cenava nella ormai nostra trattoriola di Nettuno, la notte ci si amava. Poi, quando Mariele si addormentava, io tornavo a casa per scrivere la nostra storia.

La quarta notte, vigilia della partenza di Mariele per Milano, sono accadute alcune cose, in un crescendo – o meglio, un decrescendo – che mi ha condotto dalla felicità alla disperazione e all’angoscia.

Siamo rientrati da Nettuno intorno alla mezzanotte. Mariele era del solito umore, allegra e felice. In macchina aveva canticchiato motivetti con quella sua voce così musicale. In casa gli occhi verdi meravigliosi mi hanno accarezzato: “Sei reale?”, ha chiesto passandomi una mano sul viso. “Che peccato averti incontrato proprio alla fine…”

Non ho capito, eppure ho lasciato correre, non le ho chiesto che intendesse. Anche perché lei ha subito aggiunto:

“Amami”. E mi ha offerto la bocca.

Non descriverò gli abbracci, le carezze, i baci, la ricerca di lembi di pelle, di un collo da baciare, di un contatto umido, di mani sulla schiena e dita sulla nuca, di lingua e bocca intrepidi e della scoperta di brividi nuovi, e poi gli spasimi e gli spasmi e gli abbandoni.

Resteranno fatti intimi e nostri.

È stato soltanto dopo che mi ha chiesto se volevo accompagnarla a Milano per l’Opera e se mi andava di condividere la Crociera che aveva programmato.

“Sarà l’ultima” ha detto “vorrei che ci vieni anche tu.”

Perché l’ultima? Stavo per chiederle, quando una smorfia le ha contratto la faccia, serrato gli occhi.

“Scusami, un’emicrania… improvvisa, atroce. Perdonami, mi sdraio un momento, tra un poco mi passa.”

Ha ingoiato qualcosa, e si è distesa; e forse addormentata.

Più tardi mi ha voluto accanto a sé sul letto.

“Ricordi Moravia e la disperazione?” Mi ha chiesto.

“Certo.”

“Lucio, il protagonista, era giovane, sano, sarebbe potuto essere felice. Invece si sentiva disperato, l’assenza di speranza che si acquisisce alla nascita, quella per cui qualsiasi inizio comporta una fine l’angosciava. La consolazione, nostra, di tutti, è che ne ignoriamo la data, della nostra fine. Ma se invece la conoscessimo? Be’, allora la disperazione, l’assenza di speranza, sarebbe tangibile. Rodolfo… Ho un tumore, un grosso tumore inoperabile al centro della testa. Inattaccabile da radiazioni e farmaci. Un nemico delle dimensioni di una noce che ogni momento si dà da fare per uccidermi. E ci riuscirà. A meno che io non uccida lui per prima. In ogni caso moriremo insieme.”

I suoi occhi magnifici verdi mi fissavano velati di angoscia: “C’è una guerra sul tempo fra me e lui, a chi fa prima. Se vinco io mi sarò risparmiati gli ultimi giorni tremendi: sonni sempre più lunghi, risvegli ogni giorno più brevi; dolori lancinanti in crescendo, capacità di pensiero che si esaurisce nel nulla. È questa la disperazione vera, Rodolfo, quella che ti nega ogni speranza. Quando sarà il momento non so se ce la farò da sola. Tu mi aiuterai.”


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5 commenti:

Brunella Bella ha detto...

questo inizio di racconto mi piace pubblichi il seguito?

Romano Greco ha detto...

Ciao Brunella Bella, certo, perché no? Continua a seguirmi.

Romano Greco ha detto...

ciao Brunella Bella, ho aggiunto qualche pagina. Vorrei la tua opinione anche sull'altro racconto, "Il sorriso del candidato"... se ti va di leggerlo. Grazie

Brunella Bella ha detto...

grazie lo leggero con piacere

Brunella Bella ha detto...

come mai non l
o completi sono curiosa di sapere com va a finire

Racconto

Una vecchia stampa di maniera - Racconto

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