Mariele si stringeva
addosso il giaccone, si sporse verso Sirio e gli appoggiò la mano sul braccio.
I suoi occhi erano di un
verde unico. A volte si incupivano disegnandole impercettibili rughe sulla
pelle chiara e fresca.
«Devo ringraziarti» disse
«è stata una settimana intensa, meravigliosa. E debbo chiederti un favore…»
Si protese verso la borsa
in tela accanto alla sdraio e ne estrasse una piccola confezione in carta da
regalo, sigillata sui lembi con l’adesivo di un cuore. Poteva essere un libro.
«Quando sarà il momento
dovrai darlo a Rodolfo.»
«Quando sarà il momento…?»
«Sì. Lo capirai. Succederà
una cosa talmente fuori dal comune… lo capirai. Adesso toglilo per favore,
Rodolfo sta tornando.»
Sirio l’avvolse nella
propria giacca a vento appoggiata sul tavolino che reggeva l’ombrellone.
«Per scaldarci un po’…
Bourbon, non del migliore, ma è quel che ho trovato…!» Disse Rodolfo porgendo
il primo bicchiere a Mariele: «Alla mia bella».
Prese posto anche lui,
nella sdraio dall’altro lato di Mariele.
«Quindi avete deciso»
disse Sirio «nessun ripensamento…?»
«Siamo stati bene da te…
sei il miglior amico, e lo sai. Ma la nave salpa domani da Genova. Dobbiamo
andare…» Disse Rodolfo.
E Mariele: «Oh, ma saremo
sempre in contatto. Ti manderemo fotografie di ogni nostro bacio…» Si protese
verso Rodolfo per strofinargli il naso sul naso.
«Le aspetterò» disse
Sirio. «Voglio che siate felici per tanti anni ancora come in questo momento…»
Alzò il bicchiere.
Rodolfo lo toccò col suo:
«Alla felicità di Mariele…».
E Mariele: «Finché sarà il
momento». Fece tintinnare il suo sugli altri.
Rimasero a osservare le
increspature del mare che sembravano portare a terra la notte, l’una dopo
l’altra come giorni che passano. Poi Rodolfo si riscosse: «Dobbiamo rientrare».
Presero posto nella
piccola, antiquata Clio color vinaccia di Sirio.
C’era poco da dire, gli
addii sono sempre un po’ mesti. Salirono in casa. E mentre Mariele riordinava i
bagagli, Rodolfo prese Sirio in disparte. Gli porse un fascicolo rilegato con
spilli metallici.
«Questo è il romanzo che
sto scrivendo. È la nostra storia, mia e di Mariele. È solo una prima stesura,
una bozza, mi piacerebbe che lo leggessi, se ti va…»
«Certo che lo leggerò. È una
storia bellissima la vostra, vivetela appieno, senza perdere attimi. Mariele è semplicemente
meravigliosa: abbi cura di lei.»
«Lo farò. Qualunque sia il
futuro.»
Il Canto della Sirena.
Capitolo primo.
In gennaio avevo
affittato un villino in una località poco a nord di Nettuno, appartata quanto
bastava al mio scopo. Avevo bisogno di tranquillità per raccogliere le idee e
sviluppare la trama complessa che avevo a mente per il mio prossimo romanzo.
Quella mattina, saranno stati un due o tre giorni dal mio arrivo, ho sentito un
canto. Una voce di soprano che entrava dalla finestra sul lato del mare, dove
avevo ricavato il mio studio. Sarebbe potuto essere un disco di opera lirica.
Invece no, perché ritornava sulle strofe, ripeteva passaggi, provava
intonazioni. Una voce bellissima che mi induceva a sognare. Ho aperto un nuovo
file e digitato un titolo: “Il Canto della Sirena” e lasciato che la fantasia
corresse dietro a quel canto. Ho deciso che avrei scritto e descritto in prima
persona.
Arrivato a “prima
persona” sono uscito. Ho preso per la direzione da cui proveniva la voce. Man
mano che avanzavo affondando nella sabbia, quella voce diveniva più distinta e
armoniosa e musicale e le parole chiare e intelligibili. Era un canto d’amore.
Il villino era a un
paio dopo il mio.
Fuori dalla siepe,
attraverso la finestra aperta, la vedevo.
Era al pianoforte.
Capelli d’un castano
dorato che piovevano sulla camicetta chiara.
Sono rimasto ad
ascoltarla e osservarla. Confesso che ero confuso e affascinato.
Non so come, dopo un
po’ che mi trovavo lì in silenzio e quasi senza respirare, deve aver percepito
la mia presenza. Si è voltata di scatto verso la finestra ed ha sorriso.
“Perdonami” le ho detto
“non avevo intenzione di spiare. Ti ho sentita e non ho potuto fare a meno di
fermarmi. Mi chiamo Rodolfo Sanavalle, e abito poco più in là.”
Lei è venuta alla
finestra e sorrideva. Due meravigliosi occhi verdi che però, mi sovviene
adesso, si nascondevano dietro un velo, non so se di tristezza o disperazione.
È arrivata al davanzale
e ha detto: “Io sono Mariele Rugantini. Debbo esibirmi a Milano, fra una
settimana. Sarà la mia ultima performance e vorrei lasciare un bel ricordo nel
mio pubblico.”
Non sono un intenditore
d’opera lirica. E sì, forse, da qualche parte avevo sentito o letto il suo
nome.
“Perché l’ultima?” Le
ho chiesto.
E lei: “Sono stanca.
Voglio ritirarmi. Forse farò una crociera, o un viaggio di un paio di mesi. Per
dopo… si vedrà.”
“Fortunato tuo
marito…!” Le ho detto, non so bene perché.
“Marito?” Si è messa a
ridere. “Nessun marito, o amante… o altro. Troppo impegnativo…”
Ha arricciato il naso e
scosso la testa e si è soffermata a fissare dalla parte del mare, con quei meravigliosi
occhi verdi e tristi.
“È un bel posto
tranquillo, qui.” Ho detto io.
Si è riscossa: “L’ideale
per i miei vocalizzi, non do fastidio a nessuno e nessuno disturba me. Lei
piuttosto, un uomo, cosa ci fa in questa stagione in questo deserto?”
“È per un motivo molto
simile al tuo.” Ho detto e le ho spiegato di essere uno scrittore in cerca di
tranquillità per riordinare le idee.
Lei ridendo ha
confessato di non conoscermi come autore e di non aver mai letto un mio libro.
“Ma questo non mi impedisce di offrirle un caffè”. Ha concluso aprendomi il
cancelletto.
Versato il caffè nelle tazzine le ha
portate sul tavolo di cucina fra noi.
“E questa sua
professione, sì, insomma, di scrivere libri” ha detto mentre faceva girare il
cucchiaino “le dà di che vivere?”
“Non del tutto” ho
confessato “arrotondo con delle ripetizioni di italiano.”
“Coltiva nuove
generazioni di scrittori, insomma.” Una breve risata ha accompagnato le ultime
parole.
Non penso volesse deridermi,
così ho risposto sinceramente: “Mi piacerebbe crederlo. A te, invece, piace
leggere?”
“C’è stato un periodo, diciamo intorno ai
dodici, tredici anni in cui mi aveva affascinata Alberto Moravia…”
“Ah, inusuale per una
femminuccia.”
“No, perché? Mi
coinvolgeva invece, c’erano molte eroine nelle sue storie: La Romana, la
Ciociara, Carla degli Indifferenti… e mi assorbivano tutti quei suoi ragionamenti
sulla noia e la disperazione che li seguivi pagina dopo pagina tanto che ti
sembrava si ripetessero e invece no, andavano avanti e oltre. Era come una voce
nella testa che ti sospingeva ad arrivare in fondo. Sa che ho ritrovato giorni
addietro 1934 e l’ho riletto?”
“È possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte?” Ho
citato a memoria. E lei, con di nuovo quell’incredibile angoscia negli occhi:
“La domanda giusta è: È
possibile vivere nella disperazione? E se così dev’essere, perché non
desiderare la morte?”
Il duplice quesito, traslato
nella vita, quindi fuori dalla fantasia romanzata, mi ha sconvolto. Mentre
ancora cercavo un modo per replicare, o comunque sdrammatizzare, lei ha aggiunto:
“Mi scusi, non voglio scacciarla, ma devo tornare al lavoro.” E subito dopo,
come pentendosi: “Però possiamo vederci più tardi, se vuole…”
Le ho lasciato uno dei cartoncini
da cui risultava che offrivo ripetizioni
di italiano e materie letterarie, e sono tornato alla porta che dava sulla
spiaggia.
Rientrato a casa ho trascritto il nostro
incontro. Ero diventato a un tempo persona
e personaggio e la mia stessa vita
l’ambientazione di un romanzo.
Attraverso la finestra
aperta seguitava a raggiungermi la voce di Mariele, alimentandomi pensieri,
spingendomi a scrivere pagine su pagine, fino a perdere la cognizione del
tempo. Mi sono riscosso che fuori era buio. Mariele, la sua voce, adesso,
d’improvviso, era un’assenza e quasi con una sorta di rimorso non sapevo
ricostruire il momento in cui avevo
smesso di sentirla. Le sette, le otto della sera? Dal mare giungeva il suono
monotono della risacca.
Non mi aveva chiamato.
Ho pensato di tornare
alla sua villa lungo la spiaggia.
Ma no: indiscreto
invadente pressante. No: non era il caso.
Invece il telefono finalmente
ha squillato.
L’insegna della
trattoria fuori Nettuno tremolava. Ammiccamenti. Quasi inviti.
All’interno, fuori
stagione, i tavoli erano tutti liberi. La donnona rubiconda, con indosso il
grembiulone e un cappellone floscio da cuoca, sorrideva venendoci incontro. La
giovialità fatta persona! Non ha smesso di coccolarci tutto il tempo: suggerito
i piatti migliori, i vini più appropriati, raccontato aneddoti e storielle
buffe di clienti. Si era apparecchiata una seggiola e veniva a sedersi con noi
nei tempi d’attesa fra una portata e l’altra. Ciarlava in continuazione,
metteva allegria.
O forse eravamo noi, Mariele e io, ad essere allegri e felici, e così, per simpatia o induzione, avrebbero asserito un chimico o un fisico, tutto all’intorno ci appariva felice ed allegro.
Quella stessa notte Mariele
ed io ci siamo amati la prima volta.
Poi, molto più tardi, fuori
s’intravvedeva il primo chiarore, ed io non volevo dormire benché non avessi
dormito, mi sono alzato e tornato verso casa dalla parte del mare. Era freddo,
e il vento mi contrastava mentre procedevo nella sabbia. Mi sono messo subito
alla tastiera, perché non intendevo perdere nulla di quanto stavo vivendo.
I tre giorni successivi si sono
replicati, uguali a sé stessi, con quella cadenza forse monotona che uno non
percepisce né apprezza, se non quando sono passati. Durante il giorno lavoravamo,
lei in preparazione dell’Opera a Milano, io al mio romanzo; la sera si cenava
nella ormai nostra trattoriola di Nettuno, la notte ci si amava. Poi, quando Mariele
si addormentava, io tornavo a casa per scrivere la nostra storia.
La quarta notte,
vigilia della partenza di Mariele per Milano, sono accadute alcune cose, in un
crescendo – o meglio, un decrescendo – che mi ha condotto dalla felicità alla
disperazione e all’angoscia.
Siamo rientrati da
Nettuno intorno alla mezzanotte. Mariele era del solito umore, allegra e
felice. In macchina aveva canticchiato motivetti con quella sua voce così
musicale. In casa gli occhi verdi meravigliosi mi hanno accarezzato: “Sei
reale?”, ha chiesto passandomi una mano sul viso. “Che peccato averti
incontrato proprio alla fine…”
Non ho capito, eppure
ho lasciato correre, non le ho chiesto che intendesse. Anche perché lei ha
subito aggiunto:
“Amami”. E mi ha
offerto la bocca.
Non descriverò gli
abbracci, le carezze, i baci, la ricerca di lembi di pelle, di un collo da
baciare, di un contatto umido, di mani sulla schiena e dita sulla nuca, di lingua
e bocca intrepidi e della scoperta di brividi nuovi, e poi gli spasimi e gli
spasmi e gli abbandoni.
Resteranno fatti intimi
e nostri.
È stato soltanto dopo
che mi ha chiesto se volevo accompagnarla a Milano per l’Opera e se mi andava
di condividere la Crociera che aveva
programmato.
“Sarà l’ultima” ha
detto “vorrei che ci vieni anche tu.”
Perché
l’ultima? Stavo per chiederle, quando una smorfia le ha
contratto la faccia, serrato gli occhi.
“Scusami, un’emicrania…
improvvisa, atroce. Perdonami, mi sdraio un momento, tra un poco mi passa.”
Ha ingoiato qualcosa, e
si è distesa; e forse addormentata.
Più tardi mi ha voluto
accanto a sé sul letto.
“Ricordi Moravia e la disperazione?”
Mi ha chiesto.
“Certo.”
“Lucio, il
protagonista, era giovane, sano, sarebbe potuto essere felice. Invece si
sentiva disperato, l’assenza di speranza che si acquisisce alla nascita, quella
per cui qualsiasi inizio comporta una fine l’angosciava. La consolazione,
nostra, di tutti, è che ne ignoriamo la data, della nostra fine. Ma se invece
la conoscessimo? Be’, allora la disperazione, l’assenza di speranza, sarebbe
tangibile. Rodolfo… Ho un tumore, un grosso tumore inoperabile al centro della
testa. Inattaccabile da radiazioni e farmaci. Un nemico delle dimensioni di una
noce che ogni momento si dà da fare per uccidermi. E ci riuscirà. A meno che io
non uccida lui per prima. In ogni caso moriremo insieme.”
I suoi occhi magnifici
verdi mi fissavano velati di angoscia: “C’è una guerra sul tempo fra me e lui,
a chi fa prima. Se vinco io mi sarò risparmiati gli ultimi giorni tremendi:
sonni sempre più lunghi, risvegli ogni giorno più brevi; dolori lancinanti in
crescendo, capacità di pensiero che si esaurisce nel nulla. È questa la
disperazione vera, Rodolfo, quella che ti nega ogni speranza. Quando sarà il
momento non so se ce la farò da sola. Tu mi aiuterai.”
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5 commenti:
questo inizio di racconto mi piace pubblichi il seguito?
Ciao Brunella Bella, certo, perché no? Continua a seguirmi.
ciao Brunella Bella, ho aggiunto qualche pagina. Vorrei la tua opinione anche sull'altro racconto, "Il sorriso del candidato"... se ti va di leggerlo. Grazie
grazie lo leggero con piacere
come mai non l
o completi sono curiosa di sapere com va a finire
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