lunedì 15 novembre 2021

Aforismi

 


23 novembre 2021

Se non vuoi che i progetti rimangano tali devi attuarli, Dipende da te.


20 novembre 2021

C’è sempre l’egoismo, dietro le azioni degli esseri umani.


15 novembre 2021

Il thriller che mi fa più paura è la pagina di cronaca del telegiornale.


Febbraio 2018

Sarebbe bello leggere sul giornale di domani che l'uomo ha vinto la guerra.

venerdì 30 luglio 2021

Indagini nel web oscuro - IO, ILnIO - Romanzo

 


Indagini nel web oscuro - IO, IL n IO, Romanzo

Sirio, con la sua disponibilità sorridente, che contrastava col naso da pugile e l’espressione da canaglia, se lo contendevano tutte. E lui, purtroppo, non si negava a nessuna. Questo, dal punto di vista di Stefania era il problema.

«Guarda» gli indicò  «è accaduto qualcosa nel fiume.»

Curiosi erano allineati lungo il parapetto del lungotevere; e si scorgevano i tettucci e i lampeggianti di alcune vetture della polizia e di un’autoambulanza con i portelloni aperti in attesa.

I sommozzatori stavano estraendo dal fiume una giovane donna: massimo diciotto anni, capelli corti biondi bagnati appiccicati sulla fronte. Soltanto il volto affiorava dall’acqua.

Stefania rabbrividì.

Il sommozzatore sul gommone cercava di issarla per un braccio, di passarle la mano sotto l’ascella. Gli altri in acqua lo aiutavano, gli dicevano qualcosa. Il tatuaggio sul braccio, tutto in maiuscolo, solo la enne in minuscolo, affiorò dall’acqua:

IO

ILnIO




venerdì 4 giugno 2021

Piccoli crimini innocenti - Raccolta di racconti


 

Sirio ragionava su come certi episodi possano cambiare il corso della vita, nostra e degli altri; di come esistano eventi che esulano dal solito metro e la solita logica, casi che una qualche regia sembra organizzare e gestire, coincidenze tali che la vita sarebbe stata tutt’altra. Si stropicciò il naso da pugile. Ecco, gli indizi li riconosceva: era una sera da confidenze, e si era fatto un’idea. Qualcosa aveva trovato nel suo testo: “Piccoli traumi, grandi ripercussioni”, ma era prematuro effettuare diagnosi in mancanza di elementi esaustivi. Doveva aspettare. Doveva esserci un piccolo crimine in fondo alla storia, di quelli talmente gravi da non potersi confessare e talmente innocenti da non potersi punire.


mercoledì 12 maggio 2021

Ogni plenilunio a mezzanotte - Racconto


 

Ogni plenilunio a mezzanotte

Massimiliano Martone era un vecchietto simpatico, sapeva raccontare con ironia, aveva un parlare ricercato, iperbolico, un po’ aulico: all’antica; ma riusciva a strapparti un sorriso anche quando la storia in sé era drammatica. Sia Sirio che il professor Anselmo Urbani, quanto don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di sant’Agata, lo conoscevano da tempo. Con quel nasone cresciuto in maniera abnorme a causa della rosacea, difficilmente passava inosservato. E poi Massimiliano era di quelli che attaccano bottone per strada, e se gli dai spago non ti mollano più.

Una sera di ottobre, il venticinque per essere precisi, intorno alle nove si presentò in casa di don Pasquino. Voleva confessarsi e pretendeva il sacramento dell’estrema unzione da vivo.

Era un giovedì. La sera del giovedì don Pasquino e il professore la dedicavano al passatempo che più amavano: una partita agli scacchi senza limiti di tempo. Il professore vinceva regolarmente, altrettanto regolarmente don Pasquino ci si rabbuiava e borbottava innocue maledizioni, ma entrambi erano felici così. Sirio di solito si ritirava in una poltrona a preparare il prossimo esame. Le poltrone di don Pasquino, lasciti o donazioni dei parrocchiani, erano scompagnate: accozzaglie di stili ed epoche; come d’altronde la pendola a centro parete, il tappeto steso sotto il tavolino da tè e l’intero mobilio.

Sirio quella sera stava leggendo un librone dal titolo “Paranoia – Cause ed effetti psicosomatici”.

Quella sera Massimiliano Martone entrò agitatissimo. Chiese a don Pasquino di confessarlo.

Si ritirarono in un’altra stanza.

Quando uscirono don Pasquino chiese a Massimiliano:

«Perché, senza entrare nel dettaglio dei tuoi peccati, di cui hai chiesto perdono al Signore e Lui ti perdona… perché non racconti anche al professore, che ha esperienza e saggezza, perché non gli racconti questa tua storia? Sono certo che saprà aiutarti».

A Massimiliano gli si illuminarono gli occhi. Raccontare, lui amava raccontare… trovarne di gente che volesse ascoltarlo!

Si aggiustò sulla sedia e cominciò:

«Don Pasquino, professore… da un po’ morti e morti e morti nel mio palazzo…! È quel palazzone moderno, lo conoscono tutti, dalle parti dei quartieri nuovi; quel parallelepipedo alto undici piani e lungo dalla scala A alla M; quello con le antenne paraboliche sulla terrazza per ricevere i satelliti e coi ripetitori dei telefonini e la radio privata per trasmettere. Ma sì che l’avrete visto! Moderno e tecnologico… come pure riconoscibile passandoci davanti per via dei necrologi affissi lungo il muro della recinzione. Be’, professore… a don Pasquino l’ho già detto: è per questo che mi trovo qui questa sera. Questa notte tocca a me.»

«Calma, calma» tese le mani don Pasquino «racconta al professore, vedrai che esiste una spiegazione razionale. Vedrai, esiste.»

Massimiliano si strofinò il nasone spugnoso.

«Seguitemi con attenzione, e tenete a mente piano e scala. La prima, a memoria mia, è stata l’anziana signora Asti: piano primo, scala A. La sua dipartita risale alla notte fra i 4 e il 5 di gennaio. Aveva novantanove anni. Si disse: A quell’età… era tempo! Poi, intorno alla mezzanotte del tre di febbraio è venuto a mancare il professor Bertoli che abitava al secondo piano della B, cardiopatico da anni, stroncato da infarto. Il 5 marzo, durante la notte, mentre rincasava dal servizio è stato accoltellato a morte da ignoti davanti all’ingresso della scala C il brigadiere Cordiale dei carabinieri, abitava al terzo piano. Durante la notte del tre aprile, o forse era già il quattro, disse il patologo, si è data la morte col veleno la signorina Dandi, quarantacinque anni, a causa, si ritiene, di ripetute, insostenibili delusioni d’amore. La signorina Dandi abitava alla D, quarto piano.»

Massimiliano squadrò il professore con gli occhietti accigliati, sembravano piccoli rispetto a quel nasone…!

«Mi segue, professore? Capisce il dramma?»

Sirio, dalla sua poltrona in disparte coglieva altre coincidenze curiose e inspiegabili, oltre alla progressione piano-scala delle dipartite, per come le chiamava Massimiliano. Le tenne per sé. Intanto Massimiliano aveva ripreso:

«Maggio, mezzanotte precisa del due: il venticinquenne Ercolini Erasmo, promettente disc jockey e stimato presentatore radiofonico è stato fulminato in diretta da mal funzionamento degli apparati elettrici di trasmissione mentre annunciava il prossimo disco dall’appartamento al 5° piano della scala E del palazzo, sede di RadioE5. Milioni di persone hanno udito il suo urlo prima che le trasmissioni si interrompessero. Si entrava appena nel giorno uno del mese di giugno allorché il professor Fiorelli, già rappresentante di commercio, trovava finalmente sollievo dopo anni di continue insostenibili sofferenze causategli da male incurabile nel suo appartamento al piano 6° della scala F. Sempre a giugno, o forse si era già al primo di luglio, l’archivista a riposo ragionier Goffredi, residente al 7° piano della G, trapassava dal sonno terreno a quello eterno senza soluzione di continuità, a quel che ne riferirono la moglie e i due figlioli, adulti ma ancora conviventi».

Massimiliano Martone si passò la mano sulla fronte umida: «Professore ci siamo quasi… Ancora a luglio, durante la notte del ventinove, un giornalista inglese di nome Hoffman venuto i visita dalla sorella, deve aver sentito la necessità di uscire sul balcone in cerca di sollievo per via dell’afa, lui, abituato ai climi del nord. Ora, non ne aveva motivo, ma testimoni affermano che si è sporto dalla ringhiera in modo sconsiderato, il suo Help è riecheggiato a lungo mentre precipitava per gli otto piani della scala H. Era mezzanotte.»

Massimiliano si agitò sulla sedia. Don Pasquino, facendo uno strappo alla regola, recuperò dalla credenza una bottiglia ancora sigillata di Ballantines, ne versò in un piccolo bicchiere e glielo porse: «Su, su, per rianimarti».

Massimiliano mandò giù in un sorso. Don Pasquino scosse la testa, ma glielo riempì di nuovo.

Sirio notò che il professore ingoiava asciutto.

Massimiliano riprese:

«Come vedete, di pari passo coi necrologi sul muro della recinzione, si allungava la triste lista delle morti più o meno accidentali nel condominio. Molti passanti, notai, in quel punto cambiavano marciapiede, le donne di ritorno dalla messa si segnavano, qualcuno lasciava scorrere la mano sulla ringhiera di ferro fin quando si sentiva fuori pericolo. Né l’atmosfera era migliore all’interno. Nessuno ne parlava apertamente, è vero, ma un sospetto aleggiava negli sguardi, un timore formicolava sulle espressioni tirate. Difficile fosse sfuggita la cadenza mensile dei trapassi e nemmeno l’ordine alfabetico, come se la morte avesse chiamato l’appello prima di manovrare la falce. L’Hoffman in verità ci aveva colti di sorpresa, innanzi tutto perché non residente, in quanto ospite, secondo perché il prossimo commiato era atteso per il successivo mese di agosto. L’anomalia trasse in inganno gli Imperia, inquilini del nono piano della scala I, i quali imputando a mera indisciplina britannica il trapasso dell’Hoffman in un mese che non era quello giusto, sottostimarono il pericolo e prenotarono le ferie all’estero per settembre. Invece nella notte fra il ventisette e il ventotto di agosto accorse l’ambulanza per accertare il decesso per trombosi cerebrale della Imperia Irma, di anni quarantanove, casalinga, intervenuto allo scoccare della mezzanotte. A questo punto… lo capite, mi si imponeva una indagine puntuale e accurata, dal momento che l’immaginaria linea diagonale che attraversava il parallelepipedo partendo dal primo piano della scala A e fino al nono della I, luogo rispettivamente del primo e dell’ultimo accidente, correva diritta incontro a me: Massimiliano Martone, scala M, undicesimo piano! Una mattina mi piazzai davanti al muro della recinzione e ripassai tutti i necrologi. Le dipartite si erano invariabilmente verificate di notte e, ne ebbi conferma dai familiari, sempre alla mezzanotte! Mezzanotte, capisce professore? E lei non sorrida don Pasquino, l’ora tradizionale dei fantasmi, o dei vampiri… di qualsiasi creatura delle tenebre insomma! Dopo lo sgomento iniziale mi considerai sciocco, oggi, nel ventunesimo secolo, in piena era tecnologica, a sospettare che davvero qualche spirito malvagio potesse aggirarsi per il mio palazzo ad assassinare condomini secondo un ordine preciso nelle notti di luna piena! Notti di luna piena? Cercai un calendario: le date, tutte, coincidevano… anche dell’Hoffman! Eppure no. mi rifiutavo di crederci. Una spiegazione scientifica doveva esserci. Ma come e dove appurarlo? Intanto, per tacitare la coscienza, misi sull’avviso i Lalli, che stavano al decimo piano della L e gli rivelai la data fatidica, che secondo i miei calcoli sarebbe caduta alla mezzanotte del ventisei settembre, plenilunio! Essi, per sicurezza, partirono con ampio anticipo il diciannove e anche io… visto mai qualche pasticcio nei calcoli come nel caso dell’Hoffman, me ne andai il venti a campeggiare sul confine con l’Austria. Rincasai il ventotto, il carro mortuario con le spoglie del povero Lalli Lino arrivò subito dopo di me. Anche lui, se pur lontano, era stato raggiunto da morte violenta, sopravvenuta per impiccagione non si sa se volontaria o per mani altrui, nella notte del plenilunio. A questo punto professore, caro don Pasquino… nessun ostacolo, nessun condomino fra me e la morte. A questo punto, venticinque ottobre, luna piena, un minuto alla mezzanotte…»

La pendola sul muro di fronte diede il primo rintocco e Massimiliano Martone ebbe una smorfia di dolore e si portò entrambe le mani al petto; si accasciò nella poltrona.

Don Pasquino si precipitò verso la credenza, il professore si districò dalla poltrona, Sirio rimase seduto. Don Pasquino accorreva con l’ampolla dell’olio: «Ego te absolvo a peccatis tuis…»

Il professore cercò con due dita l’arteria giugulare sotto il mento: «È vivo!»

Don Pasquino si bloccò, Sirio si grattò la fronte, Massimiliano Martone si alzò ridendo dalla poltrona col nasone che fremeva: «Mi riesce ogni volta, dovreste vedervi… che facce avete!»

Incespicò nel tappeto. Precipitò con la tempia contro lo spigolo di marmo del tavolino da tè. Uno sbuffo di sangue. Cadde sul tappeto con gli occhi sbarrati.

La pendola diede l’ultimo rintocco.


sabato 8 maggio 2021

Quando il latte faceva la panna - Racconto


 

Quando il latte faceva la panna

 

 

Sirio strinse la mano di Rugiada e spinse il cancelletto.

Rugiada e Sirio erano al primo anno, si incrociavano nei corridoi, avevano seduto vicini a qualche lezione; qualche volta al tavolo della mensa insieme ad altri avevano scambiato qualche parola. Eppure Sirio se l’era trovata alle sette di mattina fuori dalla porta che piangeva seduta al gradino.

  Sirio a quel tempo abitava un monolocale in affitto al primo piano con scala esterna sulla via dei villini, poco oltre il professor Anselmo Urbani. Si alzava presto e faceva un circuito di corsa leggera nel parco comunale. Una buona sudata, doccia e facoltà.

E Rugiada, quella mattina era sul gradino.

«Che succede?» le chiese Sirio.

«Niente, niente, scusa… vado via.»

Stava per alzarsi. Sirio la trattenne sedendosi accanto a lei.

«Niente mi sembra poco» le disse «se stai qui a piangere.»

«È che non sapevo dove andare…»

Rugiada tirò su col naso.

Aveva vent’anni e ne dimostrava sedici. Adesso, così minuta, raggomitolata con le braccia che stringevano le ginocchia, anche quattordici.

«Ma da quanto sei qui?»

«Non lo so… era buio.»

Sirio non la conosceva abbastanza da poter trarre delle conclusioni sulle cause. Sugli effetti sì.

«Intanto vieni dentro» le disse.

«Dove dentro? Da te? No, no, ma che… scherzi?»

Sirio aveva frequentato abbastanza ragazze da conoscerne le contraddizioni.

«Me ne vuoi parlare?»

Rugiada sollevò la testa. Di là dalla strada due ragazzini, maschietto e femminuccia, con lo zaino in spalla percorrevano il vialetto e salivano dallo sportello posteriore. La madre chiudeva dicendo M’avete fatto far tardi pure stamattina…; in fondo alla via il camion della differenziata faceva una specie di barrito da elefante sollevando il cassonetto; due sullo scooter accostarono al villino più avanti, quello dietro scese togliendosi il casco e l’altro ripartì.

Rugiada gli rispose: «Non lo so perché sono qui, nemmeno ci conosciamo… Una volta ti ho visto che uscivi e stamattina che ancora era buio mi ci sono trovata a passare… È che non sapevo dove andare. E a dire la verità non lo so nemmeno adesso.»

Situazione di stallo: partita patta. Evita sempre di cacciarti in situazione di stallo, diceva il professor Urbani quando gli spiegava il gioco degli scacchi. Lo scopo è vincere! gli diceva.

Sirio le disse: «Ho la soluzione!»

Scatto della testa: sorpresa e dubbio negli occhi di Rugiada.

«Vieni» le prese la mano Sirio alzandosi dal gradino.

«Dove?»

«Dal professor Urbani. È qui vicino.»

«Da quello?»

«Non preoccuparti. È meno orso di quanto sembra in facoltà.»

Sirio prese a scendere deciso e Rugiada gli tenne dietro esitante.

Dal cancelletto al patio del professore un vialetto lastricato attraverso il prato all’inglese che Sirio e Rugiada percorsero tenendosi per mano.

«Ah, Sirio…!»

A sessant’anni il professor Anselmo Urbani aveva la forma di due uova. L’uovo piccolo, munito di barba alla Giuseppe Mazzini e con gli occhi che indagavano, sovrapposto al grande, ancora in pigiama color celeste cielo sereno.

«Entrate» spalancò la porta facendosi da parte.

Se le idee di Sirio al momento erano confuse, quelle del professore dovevano essere ben chiare: «Qui ci vuole un bel caffè!»

Indicò la poltrona a Rugiada e indirizzò Sirio al divano.

La caffettiera borbottava. Rugiada teneva la testa bassa e le mani fra le ginocchia. Tazzine tintinnavano di là, in cucina. Profumo di caffè gorgogliava. Il professore tornò con tre tazzine su un piatto.

Li appoggiò sul tavolino da tè e bevve subito, prima di accomodarsi e accavallare le gambe nell’altra poltrona.

«Il caffè è un piacere se scotta la lingua. Sirio, ti ho mai raccontato il mio primo ceffone?»

Sirio, al primo anno, considerava qualsiasi allusione del professore una lezione.

Il professore non gli lasciò il tempo di rispondere.

«Avevo sei anni. Oh… tanti anni fa… La colazione a quei tempi era la zuppa. Non chiedetevi cos’era, ve lo spiego: una tazza grande sul mezzo litro piena di latte bollente e pane raffermo inzuppato. Bastava fino al piatto di pasta del pranzo e questo a sua volta fino al pane col pomodoro o con l’olio alla sera. Basta, veniamo a noi. Vivevamo in campagna, però mio padre, che faceva il portalettere, ci tirava fuori giusto qualche ortaggio dalla poca terra attorno alla casa. Il latte della colazione ce lo portava un contadino che girava con le giare di zinco sull’Ape e lo consegnava casa casa. Bisognava bollirlo. E faceva la panna. In superficie si formava questo strato, una pellicola in verità, cremoso e dolce, che raccoglievo col cucchiaino e assaporavo subito, prima che si freddasse. Poi, il mondo va avanti, il contadino non passò più. Avevano inventato il pastorizzato. Lo compravi in bottiglia di vetro, lo scaldavi ed era pronto. Volendo potevi berlo anche freddo. Una mattina che si faceva colazione assieme io e i miei, mi scappò: “E la panna? Questo latte fa schifo”. Mi arrivò un ceffone… un buffetto in verità, da mio padre. Era il primo – ed è rimasto l’unico – mi arrivò inaspettato, scappai a piangere dove non potevano vedermi. Ora, se ci ripenso, e alla mia età si pensa spesso al passato, quanto doveva essergli sembrata grave a mio padre la mia esclamazione. E quanto sembrò grave a me quel buffetto. Crescendo ho capito che si era trattato di una reazione, non so se istintiva o impulsiva, ma non voluta… o comunque non voluta per farmi del male.»

Il professore rimase in silenzio.

Sirio, che lo conosceva, capì che non doveva interromperlo, il silenzio.

Il silenzio va riempito, perché incombe, pesa, se si prolunga.

Rugiada disse:

«Anche mio padre mi ha dato uno schiaffo, ieri sera, il primo, anche per me. Solo che io ho vent’anni, non sei. E non me lo meritavo.»

Il professore disse: «Scusate!»

Uscì. Lo si sentiva parlare al telefono.

Sirio guardava di lato e, al limite del campo visivo, osservava Rugiada. Rugiada non lo guardava.

Certo Giovanna, grazie molte Giovanna… arrivò la voce del professore.

Giovanna, impareggiabile addetta alla segreteria della facoltà di Criminologia e psicologia criminale di Bologna, sede distaccata a Forlì, rappresentava il Refugium peccatorum – così diceva lui – del professor Urbani quando non sapeva a che santo rivolgersi.

Il professore rientrò con la faccia soddisfatta.

«Ecco fatto» disse riprendendo il suo posto.

Aveva portato tre bicchieri di brandy – se ne sentiva il profumo – che appoggiò accanto alle tazzine vuote.

«No, grazie» scosse la testa Rugiada «di mattina…»

«Sciocchezze» disse il professore, e mandò giù.

«E tu? Sirio? Il primo ceffone da tuo padre?» aggiunse il professore schioccando le labbra.

«Non ho avuto questa fortuna. Mio padre se n’è andato con un’altra che ero piccolo…»

«Sfortuna, la chiami?» sollevò la testa Rugiada.

Il professore tentennava. Impossibile capire se accennava di sì o di no. Sorseggiò.

E Rugiada si protese al bicchiere e bevve un piccolo sorso. Fece una smorfia di disgusto.

«Il discorso non è lo schiaffo in sé. Mi state facendo sentire ridicola… è che a vent’anni una non se lo aspetta. Soprattutto se non ha colpa di niente…»

«Ma le cose» chiese il professore «com’è che sono andate?»

«Una carognata» disse Rugiada «ecco cosa.»

«Capisco» disse il professore, e lo disse convinto, tanto che Sirio immaginò stesse barando

«capitava anche ai tempi miei.»

Rugiada si voltò per guardarlo. Sirio pensò che se era un bluff era azzardato.

«Mi vedete» disse il professore «e non è che alle elementari o alle medie fossi molto diverso. Certo, un po’ più di capelli, magari neri e non bianchi, niente pizzetto da Giuseppe Mazzini… ma per il resto…» allargò le braccia.

Mettersi a nudo doveva pesare anche a lui, considerò Sirio.

Il professore assaggiò appena appena.

«Mi chiamavano Uovo di Pasqua, e l’unica volta che mi ribellai le presi.»

Il professore sorrise.

«Quella carogna» disse Rugiada.

Si torturava le mani: «Ecco, adesso mi sento ridicola, a vent’anni di queste reazioni…»

«Oh, ma le reazioni ben raramente sono razionali…»

«Forse dovrei raccontare…»

«Perché no?»

«Ci si può fidare degli amici?» diede un’occhiata di sfuggita a Sirio, che continuava a tacere «avevamo fatto le superiori assieme e abbiamo proseguito assieme a Criminologia…»

«Una tua amica?»

«Chiamiamola amica…! O comunque, fino a un certo punto lo sarà anche stata, non dico di no. Ma adesso…»

«E se cominciassimo dall’inizio?»

Il tono del professore, le gambe accavallate, il busto eretto, i gomiti sui braccioli, era caldo: né alto né basso.

Sirio pensò che ne aveva da imparare…!

«L’inizio è un bacio che non me l’aspettavo. Lui si chiama Andrea… Sirio lo conosce, ma tienitelo per te. E anche lei, professore, lo conosce, ma la prego…»

Il professore disse: «Non dubitare. Nessuno ne farà parola.»

«Non è che ci conoscessimo più di tanto, e nemmeno ci pensavo. Sì, carino è carino… insomma si era creata quell’atmosfera…»

«Certo, certo…» assentì il professore, la fronte aggrottata.

«Insomma, qualche serata al pub, una sera in pizzeria… come succede… Insomma è successo.»

«Fin qui niente di male mi pare» disse il professore «da quanto tempo?»

«Una settimana…»

Il professore, come assorto, annuiva: «E questa amica?»

«Ma lei che ne sa?»

«Mi dicevi tu… di un’amica…»

«Ah, certo. Lei! La carogna! Guardi!»

Armeggiò con l’iPhone.

«Per questo… lo schiaffo?»

«Già» Rugiada si portò la mano alla guancia.

«Può vederla anche Sirio?»

Rugiada fece spallucce. Il professore passò il cellulare a Sirio.

Una fotografia: Rugiada in mutandine e senza reggiseno. “Rugiada ultrapiatta ruba il ragazzo alle amiche” era il commento.

Rugiada riprese l’iPhone e l’infilò nella tasca della felpa.

«Dunque tuo padre?» chiese il professore.

«Oh, non è che guardi i miei messaggi. Non lo faceva che ero piccola, figuriamoci adesso. Solo che me lo stava porgendo e si è acceso. Come dice lei, professore, un buffetto: non se l’aspettava lui e non me l’aspettavo io.»

«E sei scappata dove non potevano vederti: in camera tua. Poi durante la notte…»

La voce del professore invitava a proseguire.

«Non riuscivo a prendere sonno… non so se vergogna, o umiliazione… oppure rabbia. Non so a che ora della notte sono uscita di casa e ho cominciato a girare. Non è che l’avessi deciso… e, a dire il vero non sapevo nemmeno dove andare.»

«È chiaro» disse il professore «e adesso?»

Rugiada sollevò le spalle: «Non so».

«Sai che è successo dopo il buffetto di mio padre per il latte?»

«No, cosa?»

«Che mi ha chiamato. Sono tornato in cucina e ho finito la zuppa. Mio padre mi ha chiesto se la cartella era pronta – a quel tempo gli zainetti non li avevano inventati – e mi ha accompagnato a scuola sulla canna della bicicletta. Tutto come al solito.»

Rugiada lo fissava con la testa inclinata da un alto: «Così facile?»

«Su, su, che tuo padre ti aspetta.»

«Mio padre?»

«Gli ho telefonato: prima. Il numero me lo ha procurato Giovanna. È preoccupato: stava per andare alla polizia.»

Ci sono pesi che perdono peso, come un palloncino pieno d’acqua bucato che si affloscia.

«Mi accompagni?» chiese Rugiada a Sirio.

«Su, su andate... che ho da fare» li spinse fuori il professore.


venerdì 2 aprile 2021

Catenaccio - Racconto

 




Il catenaccio

 

Sirio venne catapultato seduto da un colpo particolarmente violento del cuore, dopo… quanto? Un’ora?

Un’ora e ventidue minuti da che si era messo a letto, gli rivelarono i LED della sveglia sul comò, che in quell’istante passarono a segnare le 2:42 – 01 Apr.

Sirio premette il pulsante di microfono alzato sullo smartphone più in fretta che poté pur di farlo zittire.

«Professore, che succede?»

«Sirio, che soprassalto!»

Già, lui…!

«Sirio sapessi che spavento…»

Una rapina? Una vendetta? Un malore? Pensava Sirio.

Riversò le coperte, pronto a precipitarsi.

Il professore, nella sua carriera di consulente della giustizia, qualche innocente lo aveva scagionato, ma, per contro, diversi balordi li aveva fatti incriminare.

E minacce ne riceveva…!

Inoltre, passati i sessanta… sovrappeso… chi sa, il cuore? Ma anche: mangiava troppo, e beveva di più… Il fegato…? Trepidava Sirio.

«Alla tredicesima…!»

La tredicesima?

Ecco che tutto si spiegava: il professore era impazzito!

«Calma, professore, respiri, mantenga la calma arrivo subito…»

Sirio era in piedi, in mutande e canotta, teso come un corridore dei cento a ostacoli sulla linea di partenza.

«Se tu, alla tredicesima mossa, avessi spostato l’alfiere di casa bianca in c4, mi avresti battuto con un matto imparabile in sette mosse.»

Sirio si ritrovò seduto a bordo del letto a fissare nello specchio, alla luce mesta del lume sul comodino, un’espressione di se stesso che gli era sconosciuta.

«È per questo che mi ha svegliato?»

«Dormivi?»

«Che ore sono, professore?»

«Le due e cinquanta…»

Il sonno era ormai perduto, pensava Sirio – dopo quel rimbombo del cuore! – tanto valeva rimanersene sveglio. E poi, perché no? Perché privarsi di una piccola vendetta nei confronti di chi ne era la causa?

«Sa professore, questa cosa dell’alfiere in c4 mi ricorda una storia che mi ha raccontato tempo addietro una mia amica…»

«Amica?»

Il professore aveva abboccato.

«Sì. Peraltro molto bella, la quale aveva un amante… già, proprio così! Lei si chiamava Annarita e l’amante…»

«Sirio!» trionfante l’interruppe il professore.

«No, no, non io, non a quel tempo, era successo prima. Lei era più matura di me… e, insomma, sì, avevamo una relazione, e lei mi raccontò questa storia in tutta franchezza… sa com’è quando si entra in intimità… Insomma, il marito di Annarita si chiamava Fulvio e l’amante Giorgio. Il suo racconto – ricordo – Annarita l’incominciò con questa esclamazione: Evadere! La stessa parola detta, mi confidò quella volta, al suo amante Giorgio dopo… be’, ha capito. Gli disse, parlando del marito: ”Evadere. È questo che voglio. Adesso se ne è inventata un’altra: vuole mettere le inferriate alle finestre. Ma ti pare? Al quarto piano di un palazzo di otto!?” Ma forse, professore, prima di questo episodio è bene che le racconti di questo Giorgio e delle circostanze che li avevano portati a incontrarsi. Sulle motivazioni di Annarita è presto detto, e con le sue precise parole, che ricordo molto bene: “Giorgio era l’esatto contrario di Catenaccio!”»

«Catenaccio?»

«Già, così, Catenaccio. Nel gergo dell’enigmistica sarebbe un “Falso dispregiativo”, volendo intendere che Annarita non disprezzava affatto il marito, anzi, come scopriremo alla fine di questa storia, ne provava una affettuosa gratitudine… Comunque, a proposito del nomignolo lei vorrà saperne il motivo!? Be’, Annarita me lo spiegò più o meno così: Fulvio, il marito appunto, lavorava in banca, anzi, era il direttore di un’agenzia importante di Bologna, dove entrambi abitavano, e questa sua professione, si era confidata Annarita con l’amante, e in seguito anche con me, gli aveva innescato nel cervello una specie di deformazione: di voler blindare la loro casa tanto quanto era blindata la sua banca.»

«Ah…!» partecipava il professore all’altro capo della linea.

Sirio quasi lo vedeva, con i pochi capelli argentati scarruffati e la barbetta a pizzo, appoggiato ai cuscini contro la spalliera del letto, nella penombra dell’abatjour anni sessanta.  

«Annarita e Fulvio, mi confidò Annarita, si erano sposati tardi: lei quaranta, lui quarantacinque, dopo una frequentazione breve. L’avevano deciso, o almeno per lei era stato questo, più per sfuggire alla solitudine che per amore vero. E la mania di Fulvio… come poteva sospettarla? Dopo il matrimonio, parliamo degli ultimi anni ottanta, quando le banche fornivano buone condizioni di credito ai dipendenti, mi spiegò, decisero di cercare una casa più spaziosa in cui trasferirsi, sempre a Bologna, o nelle vicinanze immediate. Lei desiderava un attico pieno di luce, oppure una villa immersa nel silenzio. Sulle dimensioni Fulvio concordava: grande, grandissima; non così per quanto riguardava l’ubicazione, poiché, le spiegò, sia il piano attico che le ville isolate sono facilmente attaccabili: Furti e, Dio non voglia, intrusioni da Arancia Meccanica. Un piano intermedio sarebbe stato più facile da difendere. “Che controbattere?” mi disse Annarita di aver confidato al suo amante Giorgio.»

«Eh…!» sospirò il professore, di là dal telefono.

O forse era uno sbadiglio?

«Mi segue, professore?»

«Sì, sì, va’ avanti.»

Seguiva!

«Che poteva controbattere Annarita al marito? Va bene, così vuoi e così sia! E un appartamento che si confacesse alle prerogative di entrambi infine lo avevano trovato, vasto, vastissimo: prendeva l’intero quarto piano di un palazzo di otto! “A questo punto” si era sfogata Annarita, dapprima con Giorgio, quindi con me “era incominciata la serie infinita dei Catenacci”. Dapprima Fulvio aveva suggerito di sostituire la porta d’ingresso con un’altra, blindata! munita di doppia serratura di sicurezza e anima d’acciaio, come l’hanno quasi tutti nelle città, per cui Annarita: niente a ridire; poi era stato installato un sistema di allarme con sirena e luce gialla lampeggiante sul balcone e rimando sonoro alla centrale di polizia, che pure utilizzavano in molti, e quindi niente da replicare; dopo ancora la parete confinante col vano delle scale era stata ricostruita in cemento armato, visto che è possibile – le diceva Fulvio – aprire un varco in quelle di mattoni… Insomma, si lamentava Annarita, non passava settimana o mese che Fulvio non partorisse un’idea nuova per blindare, corazzare, rendere impenetrabile la loro casa.»

Di là dal telefono Sirio sentiva silenzio: che si stesse addormentando?

«Professore?»

«Eh? Sì. Dimmi, Sirio, dimmi.»

Sveglio!

Sirio, per precauzione, visto mai si appisolava, alzò appena la voce: «A certo punto, così mi raccontò Annarita, tutto questo voler chiudere e rinserrare le fomentava, forse per ribellione, forse per stanchezza, come una voglia, anzi una necessità di evadere. In altre parole, mi disse, man mano che nella sua casa diventava più difficile entrare, lei sentiva più prepotente il bisogno di uscire, dapprima gli oggetti, poi anche se stessa. Questa… che lei chiamò necessità, si manifestò dapprima col fare regali, distribuendo a piene mani soprammobili e suppellettili, anche di pregio: alle vicine, alla domestica, alla Caritas parrocchiale; poi con spese rilevanti, ma non per quadri, tappeti o altri oggetti da tenere in casa, dove sarebbero andati a far compagnia agli altri che lei sentiva prigionieri, bensì per occasioni di allontanarsi, appunto evadere, dalla sua casa, per frequentare centri benessere, palestre e teatri, oppure ristoranti rinomati, ove offriva cene alle amiche. Fulvio, mi spiegò, non era avaro, e nemmeno geloso, la lasciva fare senza lamentarsi. La sua nuova mania, riteneva Annarita, in certo qual modo equilibrava quella di Fulvio, per cui, per un certo periodo, le cose erano andate avanti così. Poi accadde un evento che interruppe questo equilibrio. Oh, nulla di eccezionale, intendiamoci, forse a lei professore le sembrerà incredibile, ma le cose stanno davvero così, o almeno, per Annarita stavano così: rimase fuori dalla sua casa per aver dimenticato le chiavi all’interno.»

Il professore borbottò qualcosa.

Un preludio del sonno? Già russava?

«Professore?» lo chiamò Sirio.

E il professore: «Già, sì, rimase fuori di casa per aver lasciato le chiavi all’interno.»

Ecco! Adesso era sveglio; e Sirio riprese: «Mi disse Annarita che le cose stavano in questi termini: In una casa normale sarebbe stato un incidente da poco: la gente comune lascia una copia delle chiavi alla portinaia, a un parente, un amico o un vicino, proprio in previsione di simili eventualità; oppure, a mali estremi estremi rimedi, fa intervenire un fabbro che scassini la serratura; o si cala dal balcone del piano di sopra; sfonda il muro, chiama i pompieri… insomma, a mali estremi una soluzione si trova. Già, mi disse che pensava fissando la porta, in una casa normale, non in casa sua, che era stata congegnata per essere impenetrabile, talmente impenetrabile da restare preclusa perfino a lei stessa. E comunque, stando così le cose, non le rimase che bussare ai vicini perché le consentissero di telefonare in banca al marito – a quel tempo i cellulari… cos’erano? – affinché venisse a portarle le chiavi. Fatalità, proprio quel giorno, Fulvio era fuori di Bologna per delle verifiche in una filiale. Dopo svariati tentativi che le risparmio, professore, Annarita riuscì a parlargli: sarebbe tornato immediatamente. Purtroppo, da dove si trovava, non poteva essere a casa prima di un quattro o cinque ore. Le consigliò, visto che era passato mezzogiorno, di recarsi a pranzo in un ristorante lì vicino, dove l’avrebbe raggiunta.»

«Dura ancora molto?» sbadigliò, questa volta senza ritegno il professore.

«No, no, siamo alla fine» si affrettò a rassicurarlo Sirio. Be’, a questo punto voleva arrivare fino in fondo:

«Eccola dunque nel ristorante, la nostra Annarita, possiamo immaginare irritata, seduta da sola ad arrovellarsi per l’incidente, che per quanto banale comunque la indispettiva. E mentre aspetta i piatti si accorge di un tipo, non giovane, con i capelli tagliati lunghi, qualche tavolo più in là, che continua a fissarla, e un po’ mettendola a disagio. Cerca di tenerlo d’occhio senza farsi accorgere, ed ecco che quello solleva il calice del vino e muove le labbra per dire “prosit”, ma senza voce. Ora, mi disse Annarita, lo sguardo, l’espressione, il movimento della bocca che nel pronunciare prosit sembrava un bacio, tutto questo fece sì che invece di sdegnarlo come aveva deciso, gli sorrise… Mi segue, professore?»

«Be’, già me l’immagino com’è andata a finire…!»

«Bravo professore. Nel più classico dei modi…»

Sirio diede un’occhiata ai LED sopra al comò: ancora qualche minuto.

Riprese: «Ma prima di arrivare a questo, per capire Annarita, e anche un po’ giustificarla, le devo riferire le sue precise parole, per quanto preciso possa essere un ricordo. Disse che così, fatalmente, era cominciata la storia con quel “bell’imbusto” di Giorgio. Già, usò questa espressione, ricordo, che oggi non va più… ma che lei, la sua generazione, professore, intende benissimo. Che Giorgio fosse un bell’imbusto lei lo capì fin da subito, lì stesso nel ristorante: portava i capelli come li usavano i giovani di quei tempi, il che, insieme all’abbronzatura fuori stagione e al sorriso spavaldo, la dicevano lunga. E poi testa grande, naso adunco, spalle forti. Indossava una camicia di flanella a scacchi e, sopra, un giubbotto nero di pelle. Spavaldo, dunque, e risoluto, e intraprendente; e ancora, come ben presto poté scoprire frequentandolo, del tutto imprevidente… l’esatto opposto di Fulvio, a farla breve!»

«A farla breve se l’è portato a letto…!» disse la voce risvegliata del professore nel telefonino.

«Be’… sì. Dopo alcuni incontri, come si dice: platonici? Annarita accettò di vedere la casa di Giorgio, con una certa trepidazione o forse attesa o curiosità; e si rivelò esattamente come se l’era aspettata: intanto al piano terreno di un condominio, una porta di ingresso in legno, priva della minima sicurezza e con le finestre, che davano su una strada poco frequentata, spalancate! Ma altri dettagli le indicarono fin da subito la natura di quest’uomo, che non era ancora il suo amante ma lo sarebbe diventato: l’arredamento sobrio ma confortevole; un impianto stereofonico – lei se li ricorda professore!? – sofisticatissimo e altrettanto costoso; un televisore enorme col videoregistratore incorporato – parlo di altri tempi, che lei conosce meglio di me! Insomma l’idea che se ne fece Annarita fu di un uomo che apprezzava il “momento”, così mi disse Annarita; in definitiva, ancora una volta, l’antitesi di Fulvio; il quale invece era sempre teso a costruire, conservare, proteggere. A questo punto, professore, i motivi dell’”evasione” di Annarita con Giorgio ormai sono chiari; e benché il loro rapporto non si basasse sull’amore, con la A maiuscola – Annarita lo riconosceva – comunque si instaurò fra di loro una sorta di complice confidenza.»

«Oh…!» esclamò il professore, con una bella voce soddisfatta e senza traccia di sonno.

«E a questo punto siamo ritornati al momento in cui aveva avuto inizio il racconto di Annarita, nella camera di Giorgio, nel suo letto, dopo l’amore, quando è facile sciogliersi e lasciarsi andare alle confidenze. I suoi sfoghi, mi disse Annarita, Giorgio ormai li conosceva e non sembrava lo disturbassero, rimaneva ad ascoltarla puntellato sul gomito e con la testa appoggiata sulla mano. “Io penso” le disse quella volta “che tu dai troppo peso alla sua mania del Catenaccio… a ogni modo sai che c’è? Mi hai fatto venire voglia di vederla questa tua casa costruita come una cassaforte di banca. “Tu qui da me ci vieni” le disse “e io da te mai!” Ad Annarita la curiosità di Giorgio le sembrò legittima, tanto più che introdurre di soppiatto il suo amante in quella specie di fortificazione che era la sua casa aveva in sé un che di intrigante, di avventuroso. Così accettò, promettendogli che avrebbe organizzato le cose in modo da evitare rientri inaspettati da parte di Fulvio. Be’, professore, il seguito glielo devo raccontare proprio con le parole esatte di Annarita…»

«Certo, certo, dimmi, dimmi…!»

Sirio impostò la voce: «”Eccitati entrambi da quest’idea…” avviarono lì, nel letto di Giorgio, una specie di gara a chi inventava le situazioni erotiche più improbabili: Lei lo avrebbe aspettato nuda nella vasca, o sotto la doccia, o si sarebbe nascosta da qualche parte e lui, arrivando all’improvviso, l’avrebbe scovata! Tanto più la stuzzicava questo gioco, in quanto prevedeva la profanazione da parte di un estraneo della sua casa, la quale era stata strutturata proprio per impedire l’acceso di qualsiasi estraneo. Fu così, mi raccontò Annarita, che mentre Giorgio la baciava predisponendola ad amarsi di nuovo, gli aveva serrato nel pugno le chiavi di casa.»

L’esclamazione spontanea del professore – Sirio l’aveva sentita soltanto in qualche fiction in costume – esprimeva tutta la sua partecipazione: «Ohibò!»

«La sera successiva, di ritorno dal cinema, dov’era stata con le amiche, Annarita trovò la porta di casa spalancata e senza tracce di scasso, il sistema di allarme disinserito dall’interno, e le stanze… completamente vuote! Annarita, dopo il primo istante di smarrimento, cominciò a piangere, di un pianto irrefrenabile. Così la trovò Fulvio, rientrando dalla banca, accasciata in un angolo, sul pavimento nudo, con la testa nascosta fra i gomiti. A lui disse che senza accorgersi aveva smarrito le chiavi. “Non andò sulle furie” mi spiegò Annarita “senza quasi mostrare emozioni disse che pazienza, l’assicurazione avrebbe risarcito, che avrebbero arredato di nuovo la casa come e anche meglio di prima… E poi” le disse ancora Fulvio, già aveva idea di installare un nuovissimo apparato elettronico “il quale avrebbe ovviato in futuro ad analoga eventualità…” Annarita mi disse che seduta sul pavimento, le guance rigate di pianto lo ascoltava, così razionale e lungimirante, ma pure non trovava conforto all’idea che tutte le sue cose, che le erano sembrate rinchiuse e prigioniere, ora fossero fuori, libere… già, come un usignolo scappato dalla gabbia, che, poverino, non sa volare…!»

Cadde il silenzio.

Sirio sentiva – così gli sembrava – le rotelline dentate degli orologi antichi che giravano a piccoli scatti dentro al cervello del professore: Tic tac, tic tac…

«E che c’entra tutta questa storia con l’alfiere di casa bianca in c4 alla tredicesima mossa?»

Sirio lo sapeva, non è corretto rispondere a una domanda con un’altra domanda: «Che ore sono, professore?»

«Le quattro e quattro minuti…» rispose il professore.

Tic tac, tic tac…

Sirio capì che aveva capito quando cadde la comunicazione. Fu come vedere il professore sbattere sull’apparecchio la cornetta grigia del telefono da tavolo grigio che teneva sul comodino.

Sirio rimase con la testa appoggiata alla spalliera del letto, nella penombra e nel silenzio pesante intervenuto a quel tonfo inascoltato. Adesso, un po’, gli rimordeva per lo scherzo che gli aveva tirato, al suo amico professore. Stava per chiamarlo, per scusarsi… Ma poi, domattina, anzi, fra non molto, in facoltà… Be’… come se lo vedesse: Il professore l’avrebbe ignorato, avrebbe scantonato scorgendolo di lontano, gli avrebbe tenuto il broncio… Sì, questo. Sirio sorrise senza volerlo: Be’, nella tarda mattinata, valutò, gli avrebbe offerto un gran bel caffè… ristretto… o un cappuccino… forse… forse, anche… una brioche… con la panna. Certo, questo: con la panna!

Sirio lasciò penzolare la testa: Meglio, molto meglio con la panna…!


La signora americana - Raccolta di racconti

 



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mercoledì 31 marzo 2021

Svicolava - Racconto


 

Svicolava

Sapete quelle giornate di agosto, quando le foglie smettono di frusciare e le cicale di frinire, quando la città si svuota e le strade deserte ti assordano di silenzio e la lancetta delle ore sembra ferma sul mezzogiorno…? Ebbene in uno di questi pomeriggi – a nulla era valso a Sirio di sollecitare il professore a raggiungere la riviera; perché, infine, la sessantenne indolenza del professore l’aveva spuntata – ebbene, in un giorno così si trovavano nell’ombra relativa del patio del professor Anselmo Urbani, in via dei Villini a Forlì; e l’attenzione del professore era assorbita unicamente da elucubrazioni silenziose e immobili se spostare l’alfiere o la torre.

«Le ho mai raccontato, professore, di quel mio amico… ero al primo anno, qui a Forlì, ed io e lui si abitava insieme in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università…?»

Il professore mugugnò qualcosa di indistinto, inseguendo, con l’indice che sorvolava la scacchiera a volo radente, degli spostamenti di Torri e Regine che vedeva soltanto lui. Così Sirio si sentì autorizzato a proseguire:

«Be’, Nicola, questo amico, un napoletano dal cuore enorme come tanti delle sue parti, si era sposato giovane, con Carla, sua coetanea. L’aveva dovuta lasciare a Napoli e venire da solo a Forlì perché… Be’, questo è il succo di tutta la storia e glielo dico dopo… così non le tolgo il gusto…»

Il professore spostò la Torre.

Si conoscevano da anni, e Sirio continuava a dargli del lei. Mentre il professore, fin dal primo momento, gli dava del tu.

«Guarda» disse con l’espressione di un dodicenne che ha smontato l’automobilina e pregusta di rimontarla.

Siro fissò la Torre bianca che, minacciosa, aveva invaso il territorio del proprio schieramento.

Avanzò un Pedone e difese le retrovie.

Il professore bofonchiò e riprese a perscrutare la scacchiera con gli occhi accigliati.

«”Dunque le cose stanno così” mi disse Nicola un bel giorno, dopo un po’ che dividevamo la stanza e avevamo preso confidenza, e mi raccontò che faceva il magazziniere allo Spesafacile, giù a Napoli; sa professore, la catena dei supermercati, e Carla, che sarebbe diventata sua moglie, faceva la cassiera, sempre lì. Stavano bene, m’aveva fatto il gesto dei soldi sfregandosi l’indice col pollice.»

Il professore sollevò l’indice, come quando, in piedi davanti alla cattedra, preannunciava un qualche diktat essenziale della lezione. Invece lo rivolse alla scacchiera e non disse niente: pensava alla Regina e alle Torri… lui.

«Ma la vuol sentire questa storia, professore?»

«Dimmi, dimmi» sventolò in aria le dita il professore senza sollevare la testa.

Sirio soppesò se era il caso.

Ma sì, si disse.

Doveva pur riempire i vuoti fra una mossa e l’altra del professore.

«Allora le racconterò la storia di Nicola con le sue stesse parole, per quanto mi sarà possibile ricordare.»

«Eh? Ah, sì.»

«”Il giorno che Giovanni mi aveva chiesto il prestito… ‘In nome della nostra vecchia amicizia’…” mi disse Nicola scuotendo la testa e mimando la voce dell’amico, con quella intonazione ironica che hanno i napoletani anche quando raccontano storie tristi “non avevo esitato”...»

Il professore portò avanti l’Alfiere di casa nera per minacciare la Regina.

Si appoggiò allo schienale con la faccia che diceva: Eh? Che te ne pare?

Sirio coprì col cavallo la linea di tiro.

Il professore si protese di nuovo a studiare strategie e Sirio chiese: «Le interessa, questa storia?»

«Certo, certo, va’ avanti…»

Sirio nutriva sospetti, ma l’afa di agosto schiacciava anche il silenzio. Riprese, con la voce di Nicola:

«”Ci dissi a Carla che non glieli potevo negare… proprio a Giovanni, quei soldi! Così andai all’ufficio postale e prelevai. Tutto!” mi disse Nicola, sottolineando con un movimento orizzontale del palmo della mano.»

«Ah, ecco…» bofonchiò il professore.

Ma allora sentiva…!

Sirio, rincuorato, riprese, con l’intonazione partenopea di Nicola, quasi lo vedesse, lì, sotto al patio, accanto al tavolo della scacchiera: «”Mi ricordo perfettamente la sera che glieli consegnai quei soldi, a casa mia, che Carla ci aveva preparato, a quel cafone, pure una cena come nemmeno a Natale. Me li strappò quasi di mano. Teneva le lacrime agli occhi: Grazie, grazie… m’abbracciava, abbracciava pure a Carla, l’ipocrita! Ve li ridò, subito ve li ridò!»

Il professore grugnì di soddisfazione e sollevò il Cavallo, quasi si imbizzarrisse. Lo appoggiò tra l’Alfiere e la Torre di Sirio per minacciare l’arrocco.

Sirio spostò il Re fuori portata.

Grugnito scontento del professore che si rimetteva a studiare.

Sirio, forse parlava da solo, riprese; come se parlasse Nicola: «”Passato un anno, che lavoravo e bene o male si andava avanti senza pensieri, il Supermercato mi da il benservito: licenziamento per riduzione del personale. Passa un mese, passano due e Carla mi fa: ‘E Giovanni…? E quei soldi…?’ Che faccio, ce li chiedo? Faccio io, e lei: ‘E certo, e che aspetti?’”»

«Eh… i soldi…!»

Ma allora sentiva.

Sirio si sentì rincuorato e riprese: «Professore, gliela devo raccontare proprio come me l’ha raccontata Nicola, pure la voce e pure i gesti, che rende l’idea. “Ci telefonai” mi disse “squillava e cascava la linea. Tiene il telefono guasto, ci dissi a Carla. ‘Ma quale telefono guasto’ fa lei ‘quello si nega. Vallo a trovare, sento a me!’ Io” mi disse mesto Nicola “tenevo… che so, soggezione. Giovanni era diventato importante, ufficio di rappresentanza, tutto un piano dello stabile, l’impiegati, la segretaria… Così ci provai al telefono dell’ufficio. ‘Pronto?’… la segretaria, voce gentile. C’è Giovanni? Faccio io. ‘Un momento’ fa lei. Sembrava un usignolo. Io aspetto, mi ripasso la musichetta che finisce e riattacca un due o tre volte. ‘Il presidente è in riunione’… la segretaria, cinguettare tutt’attorno ‘riprovi domani’. E l’indomani la stessa storia. ‘Si nega’ ripeteva Carla. E io ‘Ma no… perché pensi così?’. Lei alzava le spalle e immusoniva. ‘Il presidente è fuori di città…’ disse dopo qualche giorno la segretaria. Niente usignoli oramai.  Ma lei… gliel’ha detto che l’ho cercato? E quella: ‘Riprovi fra una settimana!’”»

«Oh…» esclamò il professore.

Sirio immaginò per il racconto, invece il professore avanzò un Pedone.

Sirio mangiò il Pedone del professore con uno dei suoi e il professore si rimise a ragionare.

Nemmeno una cicala, neanche un alito di vento che facesse frusciare le foglie, e neppure una voce lontana, che tutti stavano in riviera: il silenzio di un pomeriggio di agosto sotto un patio in città.

Sirio riprese la voce di Nicola, e anche un po’ le smorfie, i tentennamenti di testa; si sentiva, forse, un po’ attore che prova in un teatro deserto. Ma uno spettatore lo aveva:

«E poi? Questo Nicola?»

«”Insomma” mi dice Nicola, alla fine aveva più paura di Carla, di quello che gli avrebbe rimproverato… perché ci aveva ragione, e lui lo sapeva, che Carla ci aveva ragione; più paura di lei insomma, che di Giovanni. “Così con Carla evitavo di aprire il discorso” mi disse Nicola, e se lo apriva lei, mi disse, lui svicolava. Pensò di chiamarlo a casa, a Giovanni, alla sera, quando di sicuro lo trovava, e lui allora… “che scuse poteva trovare? Ma teneva la segreteria telefonica” mi spiegò “una voce femminile, anche questa cortese: Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico: Bip… Be’, Sirio” mi disse Nicola “lo sai com’è: parli da solo che ti senti un cretino e riattacchi…” Così, di nuovo, tentò al telefono dell’ufficio, magari era vero delle riunioni, magari gli capitava di azzeccare il momento giusto. Invece: ‘È fuori di città…’ la segretaria… ‘rientra la settimana entrante’. Nicola lasciò passare la settimana e si presentò all’ufficio di Giovanni. “Non c’è che dire” mi disse Nicola “aveva messo su un bell’ufficio di lusso Giovanni:  parquet, quadri, computer su tutti i tavoli, signorine spigliate che parlavano ai telefoni. ‘Desidera?’ gli fa una di loro. Voce gentile, sorriso da qua a là. La stessa voce delle telefonate. ‘Sono Nicola, l’amico di Giovanni, ho chiamato tante volte… per piacere, mi ci faccia parlare…’, ‘Il presidente è a Milano, rientra tra una settimana!’ Niente sorriso, ciglia aggrottate, voce che taglia. ‘Che dire?’ dice Nicola che disse. Girò i tacchi e se ne tonò a casa. E non bastavano i pensieri che aveva, perché Carla, sia pure a ragione: ‘Ecco, li vedi gli amici? quando c’è da chiedere ti si buttano al collo… tirano in ballo i bei tempi dell’infanzia… ti abbracciano; e poi, quando si tratta di dare… il tuo, non del loro… svicolano, si fanno negare.’”»

«Già» esclamò il professore, per un momento preso dalla storia; poi tornò a studiare i pezzi sulla scacchiera.

«Ormai non ci credeva più, mi confessò Nicola. Lasciò passare la settimana e anche qualche giorno ancora. E poi, di mattina presto si piazza davanti al portone: ‘prima del primo degli impiegati’. E ci fa mezzogiorno a fare il piantone avanti e indietro. E a mezzogiorno lo vede che scende dalla Porsche, di là dalla strada, guarda per attraversare e quasi, salito sul marciapiede, gli va a sbattere addosso. ‘Ah… Nicola…’ gli fa. E Nicola: ‘Ciao Giovanni…’ E Giovanni: ‘Come mai qui?’. Figuriamoci la faccia di Nicola, professore: ‘Ma come Giovanni? non te l’ha detto la segretaria? Sono settimane che ti cerco’. E figuriamoci la faccia falsa dell’altro: ‘A me? Non ne sapevo niente! Ti pare? Ti avrei richiamato!’ Nicola dice che sembrava stupito davvero, dice. Dice che Giovanni a questo punto lo prende sottobraccio e lo trascina verso un ristorante: ‘Stavo andando a pranzo. Vieni, che ne parliamo a tavola…’ e lo fa sedere… e ordina… aragosta, e un vino da non so quanto a bottiglia, e altri piatti francesi che Nicola nemmeno se li ricorda, e cominciano a mangiare. E intanto Giovanni parla… parla tutto il tempo, di cose interessanti, anche, mentre lui, Nicola, vorrebbe dirgli ciò che gli sta a cuore, ma non sa come infilarsi tra una frase e l’altra, non sa da che parte incominciare. Ma tanto Giovanni non gliene lascia il tempo: Chiude un discorso e ne apre un altro e Nicola rimanda il suo, di discorso, mentre: ‘Ah, i pensieri, Nicola, sapessi… e le preoccupazioni…!’ e gli si mette a racconta certe storie delle sue giornate, degli affari vanno come vanno, che a Nicola, dice Nicola, quasi gli faceva pena… e ancora certe storie di donne che gli racconta… che l’avevano imbrogliato, raggirato, a lui, a Giovanni, con la scusa dei sentimenti. ‘Fortunato te’ gli ripeteva ‘che hai Carla…’ e poi cambiava discorso di continuo, attaccava certi racconti spiritosi che Nicola non se li ricordava più per riferirmeli, ma che a un certo punto, quando il vino aveva cominciato a fare il suo dovere, rifletteva con me Nicola col senno di poi, lo inducevano anche a ridere e in conclusione, a un certo punto si era quasi dimenticato del perché stava lì. “Al dolce, all’improvviso” mi raccontò Nicola cambiando tono “Giovanni guarda il rolex d’oro… ‘La miseria quant’è tardi…’ gli fa. Si alza, gli molla una pacca sulla schiena e si gira dicendo: ‘Ci vediamo presto, telefonami!’»

«Scacco matto!» quasi urlò il professore.

Sirio si appoggiò allo schienale e sorrise. Nessun dramma poteva scuotere l’entusiasmo del professore per il gioco degli scacchi.

Invece: «L’ha inseguito?», mi chiede, adesso che la testa è libera per il mio racconto, rilassandosi a sua volta e allungando le gambe fuori dal tavolo che regge la scacchiera.

«No, no. “Giovanni era già fuori” mi disse Nicola “un siluro”. No, lui, Nicola, superato il primo attimo di sorpresa, vede sul tavolo le banconote lasciate di fretta da Giovanni, un bel po’ di soldi, fra aragosta e tutto; le guarda, si guarda attorno: i camerieri sono lontani e affaccendati, gli altri avventori badano ai fatti propri, allunga la mano e li intasca; quindi si alza e si avvia. Sulla porta, il proprietario del locale, gli sorride: ‘Arrivederci, torni presto…’»

«Ah…» fece il professore «l’occasione rende l’uomo ladro. Finisce così?»

«No, ancora no.»

«Come, allora?»

«Nicola rientrò a casa, e a Carla, che in silenzio, ma bastava guardare l’espressione degli occhi mesti per capire cosa chiedeva, rispose: “Avevamo pensato male. Nicola stava davvero a Milano. È rientrato proprio oggi. Ci siamo incontrati. E mi ha invitato pure a pranzo”.»

Il professore, con la barbetta grigia e la fronte corrucciata da filosofo, faceva di sì con la testa.

«Ho capito. È finita che ha confessato.»

«No, professore no. Mi disse Nicola che alla fine, Carla non si trattenne: “E per i soldi?”, “Nessun problema” le rispose Nicola “guarda, mi ha dato subito un acconto” e le porse i soldi presi dal tavolo nel ristorante.»

«Ed è finita così?»

«Macché.»

Una domenica col professore era sempre uno spasso: Sirio lo lasciò friggere ancora un po’, poi gli disse: «È finita che Nicola l’ha salvato – o meglio gli ha salvato il matrimonio – un suo cugino che aveva un ristorante qui a Forlì. Al tempo in cui mi raccontò questa storia, Nicola alloggiava insieme a me in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università. Faceva da cameriere per suo cugino. A Carla inviava mese mese la paga, che tanto qui spendeva ben poco…»

«Vive ancora a Forlì?»

«No, professore, è rientrato a Napoli. Per qualche tempo ha inviato a Carla anche i soldi delle mance. Glieli spacciava per il recupero del credito che vantava da Giovanni. È rientrato dopo, dopo aver estinto il debito.»

«Ah. Quel Giovanni quindi l’ha fatta franca…!?»

«Succede, qualche volta.»

Sirio distese le gambe fuori dal tavolo che reggeva la scacchiera e incrociò le braccia sul petto.

Il pomeriggio era trascorso, un alito della sera ormai prossima faceva frusciare le foglie; una cicala frinì, come per un ripensamento, o un rimpianto del giorno passato in silenzio. Voci chiassose di bambini, al villino di fronte, scendevano dalla due volumi. Si contendevano qualcosa, forse un giocattolo.

«Presto, a fare la doccia!» gridava la madre «e non fate schiamazzi…!»


Racconto

Una vecchia stampa di maniera - Racconto

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