Il catenaccio
Sirio venne catapultato seduto da un colpo
particolarmente violento del cuore, dopo… quanto? Un’ora?
Un’ora e ventidue minuti da che si era
messo a letto, gli rivelarono i LED della sveglia sul comò, che in
quell’istante passarono a segnare le 2:42 – 01 Apr.
Sirio premette il pulsante di microfono
alzato sullo smartphone più in fretta che poté pur di farlo zittire.
«Professore, che succede?»
«Sirio, che soprassalto!»
Già,
lui…!
«Sirio sapessi che spavento…»
Una
rapina? Una vendetta? Un malore? Pensava Sirio.
Riversò le coperte, pronto a precipitarsi.
Il professore, nella sua carriera di
consulente della giustizia, qualche innocente lo aveva scagionato, ma, per
contro, diversi balordi li aveva fatti incriminare.
E minacce ne riceveva…!
Inoltre, passati i sessanta… sovrappeso…
chi sa, il cuore? Ma anche: mangiava troppo, e beveva di più… Il fegato…?
Trepidava Sirio.
«Alla tredicesima…!»
La
tredicesima?
Ecco che tutto si spiegava: il professore
era impazzito!
«Calma, professore, respiri, mantenga la
calma arrivo subito…»
Sirio era in piedi, in mutande e canotta,
teso come un corridore dei cento a ostacoli sulla linea di partenza.
«Se tu, alla tredicesima mossa, avessi
spostato l’alfiere di casa bianca in c4, mi avresti battuto con un matto
imparabile in sette mosse.»
Sirio si ritrovò seduto a bordo del letto a
fissare nello specchio, alla luce mesta del lume sul comodino, un’espressione
di se stesso che gli era sconosciuta.
«È per questo che mi ha svegliato?»
«Dormivi?»
«Che ore sono, professore?»
«Le due e cinquanta…»
Il sonno era ormai perduto, pensava Sirio –
dopo quel rimbombo del cuore! – tanto valeva rimanersene sveglio. E poi, perché
no? Perché privarsi di una piccola vendetta nei confronti di chi ne era la
causa?
«Sa professore, questa cosa dell’alfiere in
c4 mi ricorda una storia che mi ha raccontato tempo addietro una mia amica…»
«Amica?»
Il professore aveva abboccato.
«Sì. Peraltro molto bella, la quale aveva
un amante… già, proprio così! Lei si chiamava Annarita e l’amante…»
«Sirio!» trionfante l’interruppe il
professore.
«No, no, non io, non a quel tempo, era
successo prima. Lei era più matura di me… e, insomma, sì, avevamo una
relazione, e lei mi raccontò questa storia in tutta franchezza… sa com’è quando
si entra in intimità… Insomma, il marito di Annarita si chiamava Fulvio e l’amante
Giorgio. Il suo racconto – ricordo – Annarita l’incominciò con questa esclamazione:
Evadere! La stessa parola detta, mi confidò quella volta, al suo amante Giorgio
dopo… be’, ha capito. Gli disse, parlando del marito: ”Evadere. È questo che
voglio. Adesso se ne è inventata un’altra: vuole mettere le inferriate alle
finestre. Ma ti pare? Al quarto piano di un palazzo di otto!?” Ma forse,
professore, prima di questo episodio è bene che le racconti di questo Giorgio e
delle circostanze che li avevano portati a incontrarsi. Sulle motivazioni di
Annarita è presto detto, e con le sue precise parole, che ricordo molto bene:
“Giorgio era l’esatto contrario di Catenaccio!”»
«Catenaccio?»
«Già, così, Catenaccio. Nel gergo dell’enigmistica
sarebbe un “Falso dispregiativo”, volendo intendere che Annarita non
disprezzava affatto il marito, anzi, come scopriremo alla fine di questa
storia, ne provava una affettuosa gratitudine… Comunque, a proposito del
nomignolo lei vorrà saperne il motivo!? Be’, Annarita me lo spiegò più o meno
così: Fulvio, il marito appunto, lavorava in banca, anzi, era il direttore di
un’agenzia importante di Bologna, dove entrambi abitavano, e questa sua
professione, si era confidata Annarita con l’amante, e in seguito anche con me,
gli aveva innescato nel cervello una specie di deformazione: di voler blindare
la loro casa tanto quanto era blindata la sua banca.»
«Ah…!» partecipava il professore all’altro
capo della linea.
Sirio quasi lo vedeva, con i pochi capelli argentati
scarruffati e la barbetta a pizzo, appoggiato ai cuscini contro la spalliera
del letto, nella penombra dell’abatjour anni sessanta.
«Annarita e Fulvio, mi confidò Annarita, si
erano sposati tardi: lei quaranta, lui quarantacinque, dopo una frequentazione
breve. L’avevano deciso, o almeno per lei era stato questo, più per sfuggire
alla solitudine che per amore vero. E la mania di Fulvio… come poteva
sospettarla? Dopo il matrimonio, parliamo degli ultimi anni ottanta, quando le
banche fornivano buone condizioni di credito ai dipendenti, mi spiegò, decisero
di cercare una casa più spaziosa in cui trasferirsi, sempre a Bologna, o nelle
vicinanze immediate. Lei desiderava un attico pieno di luce, oppure una villa immersa
nel silenzio. Sulle dimensioni Fulvio concordava: grande, grandissima; non così
per quanto riguardava l’ubicazione, poiché, le spiegò, sia il piano attico che
le ville isolate sono facilmente attaccabili: Furti e, Dio non voglia, intrusioni
da Arancia Meccanica. Un piano intermedio sarebbe stato più facile da
difendere. “Che controbattere?” mi disse Annarita di aver confidato al suo
amante Giorgio.»
«Eh…!» sospirò il professore, di là dal
telefono.
O forse era uno sbadiglio?
«Mi segue, professore?»
«Sì, sì, va’ avanti.»
Seguiva!
«Che poteva controbattere Annarita al
marito? Va bene, così vuoi e così sia! E un appartamento che si confacesse alle
prerogative di entrambi infine lo avevano trovato, vasto, vastissimo: prendeva
l’intero quarto piano di un palazzo di otto! “A questo punto” si era sfogata
Annarita, dapprima con Giorgio, quindi con me “era incominciata la serie
infinita dei Catenacci”. Dapprima Fulvio
aveva suggerito di sostituire la porta d’ingresso con un’altra, blindata! munita
di doppia serratura di sicurezza e anima d’acciaio, come l’hanno quasi tutti
nelle città, per cui Annarita: niente a ridire; poi era stato installato un
sistema di allarme con sirena e luce gialla lampeggiante sul balcone e rimando
sonoro alla centrale di polizia, che pure utilizzavano in molti, e quindi
niente da replicare; dopo ancora la parete confinante col vano delle scale era
stata ricostruita in cemento armato, visto che è possibile – le diceva Fulvio –
aprire un varco in quelle di mattoni… Insomma, si lamentava Annarita, non
passava settimana o mese che Fulvio non partorisse un’idea nuova per blindare,
corazzare, rendere impenetrabile la loro casa.»
Di là dal telefono Sirio sentiva silenzio:
che si stesse addormentando?
«Professore?»
«Eh? Sì. Dimmi, Sirio, dimmi.»
Sveglio!
Sirio, per precauzione, visto mai si
appisolava, alzò appena la voce: «A certo punto, così mi raccontò Annarita, tutto
questo voler chiudere e rinserrare le fomentava, forse per ribellione, forse
per stanchezza, come una voglia, anzi una necessità di evadere. In altre
parole, mi disse, man mano che nella sua casa diventava più difficile entrare, lei sentiva più prepotente il
bisogno di uscire, dapprima gli
oggetti, poi anche se stessa. Questa… che lei chiamò necessità, si manifestò dapprima col fare regali, distribuendo a
piene mani soprammobili e suppellettili, anche di pregio: alle vicine, alla
domestica, alla Caritas parrocchiale; poi con spese rilevanti, ma non per quadri,
tappeti o altri oggetti da tenere in casa, dove sarebbero andati a far
compagnia agli altri che lei sentiva prigionieri,
bensì per occasioni di allontanarsi, appunto evadere, dalla sua casa, per
frequentare centri benessere, palestre e teatri, oppure ristoranti rinomati, ove
offriva cene alle amiche. Fulvio, mi spiegò, non era avaro, e nemmeno geloso,
la lasciva fare senza lamentarsi. La sua nuova mania, riteneva Annarita, in
certo qual modo equilibrava quella di Fulvio, per cui, per un certo periodo, le
cose erano andate avanti così. Poi accadde un evento che interruppe questo
equilibrio. Oh, nulla di eccezionale, intendiamoci, forse a lei professore le
sembrerà incredibile, ma le cose stanno davvero così, o almeno, per Annarita
stavano così: rimase fuori dalla sua casa per aver dimenticato le chiavi
all’interno.»
Il professore borbottò qualcosa.
Un preludio del sonno? Già russava?
«Professore?» lo chiamò Sirio.
E il professore: «Già, sì, rimase fuori di
casa per aver lasciato le chiavi all’interno.»
Ecco! Adesso era sveglio; e Sirio riprese:
«Mi disse Annarita che le cose stavano in questi termini: In una casa normale
sarebbe stato un incidente da poco: la gente comune lascia una copia delle
chiavi alla portinaia, a un parente, un amico o un vicino, proprio in
previsione di simili eventualità; oppure, a mali estremi estremi rimedi, fa
intervenire un fabbro che scassini la serratura; o si cala dal balcone del
piano di sopra; sfonda il muro, chiama i pompieri… insomma, a mali estremi una
soluzione si trova. Già, mi disse che pensava fissando la porta, in una casa
normale, non in casa sua, che era stata congegnata per essere impenetrabile,
talmente impenetrabile da restare preclusa perfino a lei stessa. E comunque,
stando così le cose, non le rimase che bussare ai vicini perché le consentissero
di telefonare in banca al marito – a quel tempo i cellulari… cos’erano? – affinché
venisse a portarle le chiavi. Fatalità, proprio quel giorno, Fulvio era fuori di
Bologna per delle verifiche in una filiale. Dopo svariati tentativi che le
risparmio, professore, Annarita riuscì a parlargli: sarebbe tornato
immediatamente. Purtroppo, da dove si trovava, non poteva essere a casa prima
di un quattro o cinque ore. Le consigliò, visto che era passato mezzogiorno, di
recarsi a pranzo in un ristorante lì vicino, dove l’avrebbe raggiunta.»
«Dura ancora molto?» sbadigliò, questa
volta senza ritegno il professore.
«No, no, siamo alla fine» si affrettò a
rassicurarlo Sirio. Be’, a questo punto voleva arrivare fino in fondo:
«Eccola dunque nel ristorante, la nostra
Annarita, possiamo immaginare irritata, seduta da sola ad arrovellarsi per
l’incidente, che per quanto banale comunque la indispettiva. E mentre aspetta i
piatti si accorge di un tipo, non giovane, con i capelli tagliati lunghi, qualche
tavolo più in là, che continua a fissarla, e un po’ mettendola a disagio. Cerca
di tenerlo d’occhio senza farsi accorgere, ed ecco che quello solleva il calice
del vino e muove le labbra per dire “prosit”, ma senza voce. Ora, mi disse
Annarita, lo sguardo, l’espressione, il movimento della bocca che nel
pronunciare prosit sembrava un bacio, tutto questo fece sì che invece di
sdegnarlo come aveva deciso, gli sorrise… Mi segue, professore?»
«Be’, già me l’immagino com’è andata a
finire…!»
«Bravo professore. Nel più classico dei
modi…»
Sirio diede un’occhiata ai LED sopra al
comò: ancora qualche minuto.
Riprese: «Ma prima di arrivare a questo,
per capire Annarita, e anche un po’ giustificarla, le devo riferire le sue
precise parole, per quanto preciso possa essere un ricordo. Disse che così,
fatalmente, era cominciata la storia con quel “bell’imbusto” di Giorgio. Già,
usò questa espressione, ricordo, che oggi non va più… ma che lei, la sua
generazione, professore, intende benissimo. Che Giorgio fosse un bell’imbusto
lei lo capì fin da subito, lì stesso nel ristorante: portava i capelli come li
usavano i giovani di quei tempi, il che, insieme all’abbronzatura fuori
stagione e al sorriso spavaldo, la dicevano lunga. E poi testa grande, naso
adunco, spalle forti. Indossava una camicia di flanella a scacchi e, sopra, un
giubbotto nero di pelle. Spavaldo, dunque, e risoluto, e intraprendente; e
ancora, come ben presto poté scoprire frequentandolo, del tutto imprevidente…
l’esatto opposto di Fulvio, a farla breve!»
«A farla breve se l’è portato a letto…!»
disse la voce risvegliata del professore nel telefonino.
«Be’… sì. Dopo alcuni incontri, come si dice:
platonici? Annarita accettò di vedere la casa di Giorgio, con una certa
trepidazione o forse attesa o curiosità; e si rivelò esattamente come se l’era
aspettata: intanto al piano terreno di un condominio, una porta di ingresso in
legno, priva della minima sicurezza e con le finestre, che davano su una strada
poco frequentata, spalancate! Ma altri dettagli le indicarono fin da subito la
natura di quest’uomo, che non era ancora il suo amante ma lo sarebbe diventato:
l’arredamento sobrio ma confortevole; un impianto stereofonico – lei se li
ricorda professore!? – sofisticatissimo e altrettanto costoso; un televisore
enorme col videoregistratore incorporato – parlo di altri tempi, che lei
conosce meglio di me! Insomma l’idea che se ne fece Annarita fu di un uomo che
apprezzava il “momento”, così mi disse Annarita; in definitiva, ancora una
volta, l’antitesi di Fulvio; il quale invece era sempre teso a costruire,
conservare, proteggere. A questo punto, professore, i motivi dell’”evasione” di
Annarita con Giorgio ormai sono chiari; e benché il loro rapporto non si
basasse sull’amore, con la A maiuscola – Annarita lo riconosceva – comunque si
instaurò fra di loro una sorta di complice confidenza.»
«Oh…!» esclamò il professore, con una bella
voce soddisfatta e senza traccia di sonno.
«E a questo punto siamo ritornati al
momento in cui aveva avuto inizio il racconto di Annarita, nella camera di
Giorgio, nel suo letto, dopo l’amore, quando è facile sciogliersi e lasciarsi
andare alle confidenze. I suoi sfoghi, mi disse Annarita, Giorgio ormai li
conosceva e non sembrava lo disturbassero, rimaneva ad ascoltarla puntellato
sul gomito e con la testa appoggiata sulla mano. “Io penso” le disse quella
volta “che tu dai troppo peso alla sua mania del Catenaccio… a ogni modo sai
che c’è? Mi hai fatto venire voglia di vederla questa tua casa costruita come
una cassaforte di banca. “Tu qui da me ci vieni” le disse “e io da te mai!” Ad
Annarita la curiosità di Giorgio le sembrò legittima, tanto più che introdurre
di soppiatto il suo amante in quella specie di fortificazione che era la sua casa
aveva in sé un che di intrigante, di avventuroso. Così accettò, promettendogli
che avrebbe organizzato le cose in modo da evitare rientri inaspettati da parte
di Fulvio. Be’, professore, il seguito glielo devo raccontare proprio con le
parole esatte di Annarita…»
«Certo, certo, dimmi, dimmi…!»
Sirio impostò la voce: «”Eccitati entrambi
da quest’idea…” avviarono lì, nel letto di Giorgio, una specie di gara a chi
inventava le situazioni erotiche più improbabili: Lei lo avrebbe aspettato nuda
nella vasca, o sotto la doccia, o si sarebbe nascosta da qualche parte e lui,
arrivando all’improvviso, l’avrebbe scovata! Tanto più la stuzzicava questo
gioco, in quanto prevedeva la profanazione da parte di un estraneo della sua
casa, la quale era stata strutturata proprio per impedire l’acceso di qualsiasi
estraneo. Fu così, mi raccontò Annarita, che mentre Giorgio la baciava
predisponendola ad amarsi di nuovo, gli aveva serrato nel pugno le chiavi di
casa.»
L’esclamazione spontanea del professore – Sirio
l’aveva sentita soltanto in qualche fiction in costume – esprimeva tutta la sua
partecipazione: «Ohibò!»
«La sera successiva, di ritorno dal cinema,
dov’era stata con le amiche, Annarita trovò la porta di casa spalancata e senza
tracce di scasso, il sistema di allarme disinserito dall’interno, e le stanze…
completamente vuote! Annarita, dopo il primo istante di smarrimento, cominciò a
piangere, di un pianto irrefrenabile. Così la trovò Fulvio, rientrando dalla
banca, accasciata in un angolo, sul pavimento nudo, con la testa nascosta fra i
gomiti. A lui disse che senza accorgersi aveva smarrito le chiavi. “Non andò
sulle furie” mi spiegò Annarita “senza quasi mostrare emozioni disse che
pazienza, l’assicurazione avrebbe risarcito, che avrebbero arredato di nuovo la
casa come e anche meglio di prima… E poi” le disse ancora Fulvio, già aveva
idea di installare un nuovissimo apparato elettronico “il quale avrebbe ovviato
in futuro ad analoga eventualità…” Annarita mi disse che seduta sul pavimento,
le guance rigate di pianto lo ascoltava, così razionale e lungimirante, ma pure
non trovava conforto all’idea che tutte le sue cose, che le erano sembrate
rinchiuse e prigioniere, ora fossero fuori, libere… già, come un usignolo
scappato dalla gabbia, che, poverino, non sa volare…!»
Cadde il silenzio.
Sirio sentiva – così gli sembrava – le
rotelline dentate degli orologi antichi che giravano a piccoli scatti dentro al
cervello del professore: Tic tac, tic
tac…
«E che c’entra tutta questa storia con
l’alfiere di casa bianca in c4 alla tredicesima mossa?»
Sirio lo sapeva, non è corretto rispondere
a una domanda con un’altra domanda: «Che ore sono, professore?»
«Le quattro e quattro minuti…» rispose il
professore.
Tic
tac, tic tac…
Sirio capì che aveva capito quando cadde la
comunicazione. Fu come vedere il professore sbattere sull’apparecchio la
cornetta grigia del telefono da tavolo grigio che teneva sul comodino.
Sirio rimase con la testa appoggiata alla
spalliera del letto, nella penombra e nel silenzio pesante intervenuto a quel
tonfo inascoltato. Adesso, un po’, gli rimordeva per lo scherzo che gli aveva
tirato, al suo amico professore. Stava per chiamarlo, per scusarsi… Ma poi, domattina,
anzi, fra non molto, in facoltà… Be’… come se lo vedesse: Il professore
l’avrebbe ignorato, avrebbe scantonato scorgendolo di lontano, gli avrebbe
tenuto il broncio… Sì, questo. Sirio sorrise senza volerlo: Be’, nella tarda
mattinata, valutò, gli avrebbe offerto un gran bel caffè… ristretto… o un
cappuccino… forse… forse, anche… una brioche… con la panna. Certo, questo: con
la panna!
Sirio lasciò penzolare la testa: Meglio, molto meglio con la panna…!
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