domenica 21 maggio 2023

Breve indagine internazionale - Racconto

 


Questo racconto fa parte della raccolta PICCOLI CRIMINI INNOCENTI, edito su Amazon.

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Breve indagine internazionale

 

 

 

 

 

Racconto


 

 

 

 

 

Copyright © 2023 Romano Greco

Tutti i diritti riservati.

 

I personaggi e gli eventi descritti in questo libro sono frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi corrispondenza con persone reali, vive o morte, o con fatti realmente accaduti è pertanto da considerarsi puramente casuale e non voluta dall’autore. Il ricorso a nomenclature di Enti, Aziende, Strutture ministeriali o statali, nonché a sigle o marchi di fabbrica, come pure a personaggi dello spettacolo o trasmissioni audiovisive è finalizzato unicamente a dare veridicità alle ambientazioni.

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o memorizzata in un sistema di recupero dati o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopie, registrazioni o altro, senza l’espresso consenso scritto dell’autore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

A Morgantown, Virginia, USA, Patricia Cromowel, software engineer e, all’occorrenza, hacker, appoggiò i piedi sul tappetino fuori dalla doccia, indossò l’accappatoio e avvolse i capelli in un asciugamano. Uscendo dal bagno lasciò cadere un’occhiata sul monitor del laptop acceso sul piccolo tavolo accanto alla finestra.

Viveva a New York City ed era lì in visita dai suoi genitori. Un breve incontro, in verità, dal momento che la sera precedente, dopo appena una settimana dal suo arrivo, loro erano partiti per una nuova crociera. Fra le isole dei Caraibi, questa volta, e non sarebbero tornati prima di un mese.

Sullo schermo, una piccola icona ammiccava per annunciarle una notifica. Lesse: Boxer nose, Naso da pugile, e tirò dritto sorridendo.

Abbandonò accappatoio e asciugamani sul letto e scosse i capelli, tinti di viola e arancione. Sollevò il seno destro davanti allo specchio e si voltò leggermente di lato, per vedere il riflesso della farfalla tatuata vicino al capezzolo.

Il suo amico Sirio, criminology professor in Forlì, Italy, che lei chiamava Boxer nose per via del naso schiacciato, voleva mettersi in contatto con lei.

Un pensiero malizioso la fece sorridere.

Indossò delle mutandine molto succinte e cliccò sull’icona lampeggiante.

“Ciao Pat. Camera 43. Un anno. Prenoto?”

Non ebbe bisogno di avviare il traduttore: un breve flashback fu più che sufficiente.

Oltre la finestra, un agosto afoso e umido. Al di qua dei vetri, una casa vuota.

Il ricordo della riviera romagnola, degli italiani chiassosi, della brezza profumata in riva al mare la sera e anche… perché no? della camera 43, la fecero decidere.

Prenotta…

Consultò il traduttore e corresse:

“Prenota”.


 

 

 

 

2

 

 

 

 

 

 

 

Il tabellone elettronico nell’atrio Arrivi Internazionali dell’aeroporto di Bologna Borgo Panigale indicava che il volo AA04365 delle ore 10:35 da New York, con scalo a Londra, era in orario. Sirio seguì le indicazioni e si accodò alle altre persone in attesa al varco di arrivo. Una bambina sui dieci, undici anni faceva saltelli impazienti trattenuta dalla madre; una sedicenne in minigonna e scarpe da palestra si sporgeva verso le porte scorrevoli ogni qual volta si aprivano; un giovanotto atletico con la barbetta rasa sorrideva fra sé; una coppia di anziani si teneva per mano scambiandosi sottovoce dei commenti.

«Sirio, mi amor

Patricia correva verso di lui facendo saltellare i capelli variopinti e facendo ballonzolare le rotelle del trolley. Si ostinava a voler esercitare il proprio italiano, senza rendersi conto di confonderlo, molto spesso, con lo spagnolo. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò sulla bocca.

«Finally, my love… finalmente.»

Si era soffermata a osservarlo.

«Sei sempre uguale, my friend

«E tu sempre splendida.»

La bambina undicenne era corsa incontro al padre saltandogli addosso e facendolo barcollare all’indietro; la sedicenne stava baciando il suo boyfriend con lo zaino in spalla; la coppia di anziani sorrideva e faceva carezze ai due nipotini con gli occhi vergognosi, mentre la loro mamma li sospingeva dicendo: Su, su… salutate i nonni; il giovanotto atletico allargava le braccia verso un altro talmente simile a lui da poter essere fratelli, invece si erano dati un bacio da fidanzati e adesso si stavano avviando abbracciati verso l’uscita.

Sirio prese la maniglia del trolley e passò il braccio attorno al fianco di Patricia.

«Stanca?»

«Oh, no. Tanta voglia for the sun… di sole… di mare. Subito,» si lasciò andare a una risata, riversando indietro la testa.

La loro amicizia era nata in due poltrone vicine del teatro dell’opera di Bologna, aveva raggiunto piena maturazione nella camera 43 della pensione Vacanze Felici di Cesenatico e si era conclusa nell’atrio partenze di quello stesso aeroporto.

Raggiunsero la fedele Clio color melanzana di Sirio.

«Oh, the little city car,» esclamò la ragazza, e aggiunse, col suo entusiasmo squisitamente yankee, «Oh yes, tutto muy bello, muy bello. Staremo assieme giorno y noche

Continuava a confondere lo spagnolo con l’italiano, ma Sirio evitò di correggerla.

«Purtroppo, per oggi pomeriggio, ho un impegno,» dovette confessare.

«Oh…» fece lei con la voce delusa, «avevi promesso.»

«Sì, è vero. Ma sai come succede… quelle noiose convocazioni improvvise dei magistrati… la giudice Valtesi…»

«Una donna, dunque…»

«Già, una donna.»

«Giovane?»

«Beh, non vecchia…»

«Bella?»

«Direi di sì.»

«Più di me?» lei inclinò la testa, fissandolo maliziosa da sott’in su.

«Oh no, certo che no,» le sorrise, «ma si tratta del mio lavoro e non posso sottrarmi. Comunque sarà una breve riunione. Tornerò presto e sarò tutto per te.»


 

 

 

 

3

 

 

 

 

 

 

 

La camera 43 dell’hotel Vacanze Felici aveva un piccolo balcone che affacciava verso il mare.

«Oh, beautiful,» esclamò Patricia, sporgendosi dalla ringhiera.

Subito sotto di loro i villeggianti affollavano la piscina, occupavano sdraio e lettini, sorseggiavano bibite e leggevano libri; i bambini facevano tuffi, si inseguivano sull’erba. Poco più in là, sulla strada, le automobili procedevano adagio, cercando parcheggio o uscendone. I marciapiedi erano gremiti di ragazze in prendisole ridotti e di giovanotti a torso nudo. Gli ombrelloni nel lido si protendevano fino al mare, fitti e allineati come militari in parata. Frotte di bagnanti si crogiolavano lungo il bagnasciuga. Riflessi di luce bianchissima baluginavano sulle increspature dell’acqua e motoscafi scorrevano lenti, al largo, inseguiti da una scia silenziosa. Dal campo di beach volley nell’arenile arrivavano a intermittenza le incitazioni smorzate dei giocatori e dal chiosco dello stabilimento balneare giungeva la musica di una canzone latinoamericana. Si udiva qualche strombazzamento dalla strada e poi, sotto di loro, risuonavano il brusio smorzato dei villeggianti e le grida festose dei ragazzini.

Patricia gli circondò le spalle con le braccia e lo baciò.

«Gracias,» gli sospirò sulla bocca.

Il solito problema della lingua, ma non era il momento di sottilizzare. Sirio l’abbracciò. Tenendola stretta cominciò a dirigersi verso il letto, ma lei, agitandogli l’indice davanti al naso, disse sorridendo: «Non si può».

«Perché?»

«Your judge friend is waiting for you… la tua amica giudice ti aspetta.»

La lasciò andare, a malincuore: «Hai ragione, mi dispiace. Che farai?»

«Oh, non preoccuparti for me, starò benissimo… sea, sun, mare, sole… ho tutto quello che voglio. Tu vai, vai pure a svolgere il tuo lavoro di profiler

Gli sembrò di sorprendere una luce maliziosa, mentre lo diceva.


 

 

 

 

4

 

 

 

 

 

 

 

Intorno alle due di notte Sirio aprì con precauzione la porta della camera 43 e la lasciò socchiusa. Il climatizzatore, sopra di lui, ronzava e spingeva sulle sue spalle aria fresca. Col chiarore proveniente dal corridoio distinse l’ingresso del bagno, proseguì sulla moquette e si sporse oltre lo spigolo del muro. Patricia dormiva nella parte più distante del letto, il respiro regolare, completamente nuda.

Gli dispiaceva svegliarla, così accese la luce sullo specchio del bagno, richiuse in silenzio la porta verso il corridoio, fece scorrere l’acqua nella vasca e si immerse. Abbassò le palpebre e appoggiò la nuca contro il bordo. Il tepore dell’acqua era gradevole, rilassante.

 

“My love”, aveva esclamato Patricia, quando l’aveva chiamata al telefono, nel pomeriggio, “sei di ritorno?”

“Purtroppo no, ci sono stati degli sviluppi inattesi, non posso allontanarmi. Si tratta di una inchiesta complessa, sai, magistrati, funzionari delle forze dell’ordine… la commissario capo Ruggentini…”

La commissario?” aveva sottolineato lei.

“Una donna… sì. Ma vedrai, mi farò perdonare.”

“Non importa”, si era ravvivata, “ti aspetterò sveglia.”

Le aveva chiesto di non farlo, aveva insistito affinché andasse a dormire: era sicuramente stanca per il viaggio, per la differenza del fuso orario, il jet lag…

“Mi troverai ad aspettarti, mi amor”, era stata categorica lei.

Aveva lasciato il rubinetto aperto, l’acqua gli lambiva le orecchie, percepì che Patricia mormorava qualcosa, nel sonno, di là dalla parete sottile. Sirio aprì gli occhi e attese di vederla entrare. Immaginò che lo fissasse con gli occhi assonnati e gli dicesse mi amor, mentre scivolava nell’acqua vicino a lui…

Ma non venne, e tornò ad abbassare le ciglia.

Uscì dalla vasca dopo un’altra mezz’ora, si frizionò nell’accappatoio e andò a distendersi accanto a lei, che borbottò qualcosa nel sonno e gli appoggiò il braccio sul petto; gli passò entrambe le gambe sulle sue, bloccandolo; il respiro era caldo, i capelli profumati, la sua nudità eccitante, ma continuava a dormire.

Gli dispiacque svegliarla.

Ammirò a lungo, con la poca luce che filtrava dalla finestra, la piccola farfalla che svolazzava immobile accanto al capezzolo della sua amica.

Prese sonno molto… molto tempo dopo.


 

 

 

 

5

 

 

 

 

 

 

 

Svegliandosi, non la trovò accanto a sé. La custodia del suo notebook giaceva sull’etagère, aperta e vuota. Provò a chiamarla, ma il cellulare risultava irraggiungibile o spento. Indossò dei calzoncini e una t-shirt e scese nella hall, ma la receptionist non seppe dirgli dove fosse andata. Al bar non c’era, in piscina nemmeno e al telefono la voce elettronica ripeteva la solita tiritera entusiasta: “Non è raggiungibile…”

Sirio attraversò il lungomare ed entrò nello stabilimento del lido.

Incrociò il suo sguardo quando sventolò la mano verso di lui per richiamarne l’attenzione. Sedeva su un trespolo all’ombra del gazebo incannucciato annesso al chiosco delle bibite. Sul tavolino erano appoggiati il laptop col coperchio bianco rialzato e due bicchieri di liquido arancione. Sullo sgabello accanto, di spalle, sedeva un tipo atletico in canotta rosa shocking.

«Mi amor, here I am... qui, sono qui...»

Li raggiunse e Patricia si protese per baciarlo sulla bocca.

«Lui è Max. Pensa, l’avevo scambiato per uno che si è imbarcato a Londra sul mio volo. Così l’ho chiamato… e mi ha raccontato una storia incredibile,» disse, in inglese.

Il giovanotto atletico, una barbetta rasa che Sirio aveva già visto, aveva negli occhi la stessa espressione di un cane sgridato. Gli porse la mano, fece per alzarsi.

«Perdonatemi, tolgo il disturbo.»

Voce pacata, quasi musicale.

«Ma no,» Patricia lo trattenne per il polso, «Sirio è un criminologo, potrà aiutarti.»

L’uomo sollevò il sopracciglio: «E come? Ormai…»

«Il tuo amico londinese è sparito?» chiese Sirio.

Patricia emise un gridolino eccitato: «Lo vedi? Ti ha appena visto e già ha capito tutto».

«Ho solo fatto due più due. Avevo notato con quanta trepidazione eri in attesa, al gate degli arrivi internazionali, ieri mattina, e con quanto affetto hai abbracciato il tuo amico. Adesso lui non è qui, tu hai quest’aria afflitta e Patricia ha appena detto che posso aiutarti in qualità di profiler. Dunque, vuoi raccontarmi cos’è accaduto esattamente?»

Patricia gli fece di sì con la testa. Sirio accostò al tavolo uno sgabello e sedette, con un piede appoggiato sul traverso e l’altro penzoloni.

Max esitava: «Come stavo raccontando a Patricia… ho conosciuto Andy su una chat di incontri. Era così gentile… abbiamo flirtato per qualche tempo sul web, poi abbiamo deciso che mi avrebbe raggiunto, per una piccola vacanza assieme. Lui vive a Londra…»

Patricia, troppo eccitata per parlare in italiano, si intromise d’impeto nella sua lingua: «È quanto gli aveva detto, ma, a questo punto, c’è da credergli?» si era intromessa Patricia.

Sirio approfittò dell’interruzione per chiedere: «Capiva l’italiano?»

«No, comunicavamo in inglese.»

«OK. Quindi?»

Max sospirò: «Ieri abbiamo trascorso una giornata d’amore perfetta; poi, stamattina, mi sono svegliato con una emicrania insopportabile e lui non era accanto a me. L’ho chiamato. Era sparito… e con lui il mio braccialetto d’oro, i soldi che avevo nel portafogli, la carta di credito e…»

«Pressoché tutti i risparmi sul conto corrente,» finì Patricia per lui.

«Come c’è riuscito?»

«Ha eseguito un bonifico a proprio favore, dal mio computer,» Max rispose a occhi bassi.

«Come ha potuto?»

«Nel portafogli conservavo un biglietto con i codici per accedere all’internet banking. Forse ha utilizzato addirittura l’applicazione installata sul mio smartphone, dopo avermi drogato col sonnifero. Ho sporto denuncia, naturalmente. Che stupido sono stato… non conosco nemmeno il suo cognome… il poliziotto mi guardava con un’espressione…»

Accasciato, scuoteva la testa.

«Non vi siete registrati, in albergo?»

«Io avevo già pernottato la notte precedente. Avevo la chiave, così appena arrivati siamo saliti in camera. Nella hall c’era un viavai indescrivibile, nessuno ha badato a noi.»

«Ed è sparito anche da quel sito di incontri…» Sirio indicò il laptop di Patricia.

«Già!» confermò lei.


 

 

 

 

6

 

 

 

 

 

 

 

Sirio conosceva le qualità informatiche della sua amica. Una sera dell’anno precedente, mentre si trovavano a cena in un ristorante della riviera, si era accorto di aver dimenticato in macchina lo smartphone. Quando era uscito a prenderlo, il finestrino della Clio era stato trasformato in un tappeto di schegge di cristallo sparse sul sedile e il cellulare era sparito. Ebbene, Patricia era riuscita a intercettarlo con una delle sue applicazioni pirata e a seguirlo. Avevano raggiunto il ladruncolo, un tossicomane giovanissimo di scarsi cinquanta chili, e gli era stato facile farselo restituire.

«Fin dove puoi arrivare, con quello?» le chiese, accennando al laptop bianco.

«In teoria, ovunque. Dipende da dove vuoi che vada e da quanto tempo avrei a disposizione,» rispose lei, sempre nella sua lingua.

«Hai ancora il numero del tuo volo?» le chiese ancora.

«Ho il ticket sullo smartphone,» lo orientò verso di lui per mostrarglielo.

«Molto bene. American Airlines, volo AA04365, atterrato a Bologna alle ore dieci e trentacinque di ieri. Cerca la lista dei passeggeri imbarcatisi a Londra.»

Patricia scosse la testa.

«Non è poco. Mi stai chiedendo di violare il sito di una compagnia aerea, superare i blocchi di sicurezza e aggirare i vari firewall. Beh, potrei anche riuscirci, ma non prima del prossimo Natale. Non avresti una domanda di riserva?»

Sirio si rivolse a Max: «Hai provveduto a bloccare il conto corrente, immagino».

Il giovane aveva seguito quello scambio di battute con la fronte corrucciata.

«Certo,» rispose, «e anche la carta di credito.»

«Bene, se fornisci le coordinate bancarie a Patricia, vediamo di scoprire dove si trova il bravo Andy, in questo momento. Vero, Pat?»

«Questo è più facile,» si rivolse a Max, «sarà come se tu avessi richiesto, in un qualsiasi sportello Bancomat, gli ultimi movimenti della carta, qualche minuto prima del blocco.»

Cominciò a digitare sulla tastiera i dati che le forniva.

«Ha speso poco più di duecento euro in un negozio di calzature in via Robespierre, a Cesenatico…»

«È ancora qui?» si guardò alle spalle il giovane, con gesto istintivo.

«C’era intorno alle nove.»

«Un momento, come conosceva il codice segreto della carta?» chiese Sirio.

«Beh, deve averlo memorizzato mentre pagavo il conto del ristorante, ieri a cena.»

Patricia riprese: «Poi ha pagato cinquanta euro a una compagnia dei taxi.»

«Si è fatto portare in aeroporto?» chiese Max.

«Forse… o forse no. Patricia, puoi individuare quel tassì?» la pressò Sirio.

«Il nome della compagnia, appare sulla ricevuta di pagamento. Le vetture sostano in una piazzetta a ridosso di via Robespierre, che è qui vicino, mi dice la mappa. Vediamo se trovo un varco…» continuava a percuotere i tasti a velocità iperbolica, «ecco, sono entrata nei loro tracciati GPS. Dopo le nove si sono mosse due macchine. Ho bisogno di incrociare un secondo dato. Max, qual è il numero di telefono di Andy?»

«Lo ha spento. Ho provato a chiamarlo più volte.»

«Era spento mentre provavi, riproviamo. Su, dettamelo.»

Lui lo richiamò dalla rubrica e orientò lo smartphone verso di lei, perché potesse leggerlo.

«Eccolo,» esclamò Patricia, dopo qualche tentativo sulla tastiera del personal, «lo ha acceso per pochi minuti, verso le dieci. Bingo! Taxi e smartphone si trovavano nel medesimo punto della E45

Sirio la incalzò: «La vettura, dimmi, ha proseguito fino all’aeroporto?»

«Sì.»

«Ti dispiace dare un’occhiata alla partenza del prossimo volo per Londra?»

«L’ho già fatto io,» esclamò Max, «alle diciannove.»


 

 

 

 

7

 

 

 

 

 

 

 

Era passato mezzogiorno. Gli ombrelloni formavano ombre dal cerchio quasi perfetto. Sotto la tettoia annessa al chiosco delle bibite, giovani in bermuda colorati e ragazze in bikini ordinavano panini e stappavano bottiglie di birra.

Sirio ragionava in fretta.

«Abbiamo poco tempo,» considerò.

«Per fare cosa?» chiesero, quasi assieme, gli altri due.

«Per fermarlo.»

«Lo ritieni possibile?» domandò Patricia.

«Forse no, ma voglio provarci. Intanto… puoi seguire il flusso del denaro uscito dal conto di Max e vedere dov’è finito?»

«Se conoscessi la sua identità e se disponessi del tempo necessario, ci riuscirei. Al momento, per come stanno le cose, sarebbe possibile soltanto alla sua banca o agli informatici della polizia; ma, negli USA, questo è consentito soltanto dietro ordinanza di un giudice. Qui da voi ritengo sia più o meno lo stesso.»

Gli informatici della polizia… un giudice…

Sirio inseguiva velocissimi pensieri.

Sotto gli sguardi accigliati degli altri due, richiamò un numero dalla rubrica dello smartphone.

«Ah, Sirio!» rispose una voce femminile.

Patricia doveva averla sentita, perché fece una smorfia da clown made in USA, sollevando gli occhi, scuotendo la testa e fingendo di borbottare: Bo, bo, bo

Lui la ignorò e si rivolse alla persona al telefono: «Ah, commissario, avevi il mio numero nella memoria, vedo. Bene! Dovrei rubare pochi minuti del tuo tempo…»

Gli fu necessario un buon quarto d’ora per riferirle la disavventura del giovanotto in canotta rosa seduto sullo sgabello accanto a lui.

«Sappiamo che il truffatore, che si faceva chiamare Andy, in questo momento è in aeroporto e intende imbarcarsi per Londra col prossimo volo. È l’ultima occasione che abbiamo di fermarlo e assicurarlo alla giustizia.»

«Sirio,» disse la commissario Ruggentini, «comprendo il tuo… chiamiamolo entusiasmo e voglio sorvolare sulle modalità utilizzate per conoscere la posizione del presunto sospettato, però, mi insegni, io non posso arrestare un cittadino, oltretutto uno straniero, a semplice richiesta di chicchessia, sia pure un criminologo.»

Lui insistette: «Non potresti almeno sollecitare la compagnia di volo a rivelarci la sua identità?»

La voce all’altro capo della linea divenne impaziente: «Non vedo a che ti potrebbe servire… e poi, ti sembrano proposte da fare a un commissario di polizia nell’esercizio delle proprie funzioni?»

Sirio ignorò l’eccezione e continuò a insistere: «Però, se inseguendo il flusso del denaro trafugato si scoprisse che è finito sul conto corrente di questo Andy, sarebbe una prova e si potrebbe procedere al fermo.»

«Sarebbe una supposizione! Avvengono miliardi di transazioni bancarie, in ogni momento, e non è detto che siano delle truffe. Ti prego, non insistere, il tuo cliente ha sporto denuncia, la legge farà il suo corso.»

La denuncia avrebbe solo fornito dati per aggiornare statistiche, sapeva, ma tenne per sé questa considerazione e aggiunse, con un tono carico di sottintesi:

«Potrei chiedere un favore alla giudice Valtesi, in questo senso…?»

Ruggentini sbuffò apertamente: «Che posso dirti? Fai come credi».

Riagganciò senza salutare.

Sirio sorrise.

«Adesso Marianna,» disse, come fra sé, spostando il pollice sui tasti del cellulare.

Anche a lei riassunse la disavventura di Max e le comunicò la propria intenzione di fermare Andy. Anche lei lo diffidò dal prendere qualsiasi iniziativa, perché, ripetette più volte, agiva al di fuori di qualsiasi prassi giuridica.

«Dovresti saperlo!» aveva riagganciato.

Anche lei senza un saluto.

«Are you crazy?» esclamò Patricia, «sei impazzito? Come potevi sperare in una risposta diversa?»

«Sapevo perfettamente cosa avrebbero risposto, sia l’una che l’altra, ma lo scopo delle telefonate era tutt’altro.»

«E quale?» Patricia era perplessa.

«Lanciare un sasso nello stagno… sai, provoca onde,» le sorrise, mostrando l’espressione più furbesca del proprio repertorio.

Max seguiva quei battibecchi senza capire.

«Sei pazzo,» ripeté la ragazza.

«È tardi,» ignorò il commento, «e dovremo sbrigarcela da soli. Perciò mettiamoci al lavoro, se vogliamo concludere questa faccenda entro le sette.»


 

 

 

 

8

 

 

 

 

 

 

 

Tutt’e tre, cambiatisi d’abito in fretta, adesso correvano sulla E45 in direzione dell’aeroporto di Bologna, stipati nella piccola utilitaria viola.

Sirio accennò, con un gesto della mano, al personal che Patricia teneva appoggiato sulle ginocchia: «Attiva il tuo lancia razzi».

«What? Lancia… razzi?»

«So bene che nelle tue mani quel laptop può trasformarsi in una rampa di lancio per testate nucleari,» le ammiccò.

«Ah, okay, che vuoi che faccia?»

«Il nostro Andy ha acceso il cellulare per pochi minuti, poi è tornato irraggiungibile e lo è tutt’ora, giusto?»

«È così,» confermò Max, dal sedile posteriore.

«Se avesse sostituito la SIM, tu, Patricia, tramite l’indirizzo IP del cellulare, potresti risalire al nuovo numero?»

«Se ha fatto qualche telefonata, sì.»

«Allora procedi. L’ideale sarebbe di poter entrare nel suo telefonino prima che lo spenga all’imbarco.»

La piccola Clio viaggiava al di sopra dei limiti di velocità consentiti, il ticchettio dei tasti del personal sovrastava il brontolio del motore e il fruscio dell’aria.

«Ci sono,» esultò Patricia, «sono nel suo smartphone.»

«Bene. Adesso, in inglese, invia questo sms al nuovo numero di Andy: Caro Andy, le scarpe che hai acquistato in via Robespierre, prima di salire sul tassì per fuggire, non ti permetteranno di andare lontano. Il percorso dei trentamila euro che hai trafugato dal conto corrente di Max, mi porterà fino a te. Sarò la tua ombra. Ti aspettano solide manette e una cella con sbarre robuste.»

«Non capisco, ma okay…» maltrattò la tastiera.

«Molto bene. Adesso, tramite il GPS, riesci a seguire i suoi spostamenti?»

«Ecco… yes… lo vedo! Posso anche aumentare la risoluzione e collocarlo nello spazio, se vuoi.»

«Certo. Dov’è?»

«È nell’atrio partenze.»

«Dobbiamo fare in modo che abbia l’impressione di essere osservato.»

«Cos’è? Una tecnica di condizionamento, di quelle che insegni nelle tue lezioni?»

Sirio, invece di rispondere, tornò a chiederle:

«Hai visto The Truman Show? Hai letto 1984 di Orwell? Nessuno può trovarsi a proprio agio in un reality che lo insegue a tempo indeterminato. Soprattutto se ha la coscienza sporca».

«Del tipo: Il grande fratello incombe su di te?» Scherzò Patricia.

«Scriviglielo,» disse Sirio.

«Davvero?»

«Perché no. Deve sentirsi i nostri occhi addosso, come se fossimo lì e potessimo scrutarlo.»

«Si sta spostando,» disse lei, «è nel bar dell’aeroporto.»

«Scrivigli: Goditi questi ultimi momenti di libertà, fra poco l’unico caffè che potrai bere ti sarà offerto dalle prigioni italiane

Patricia, concentrata, seguitava a percuotere la tastiera.

«Okay,» ripetette, premendo il tasto di invio.

«Puoi verificare se lo ha letto?»

«Li legge tutti subito. Me lo immagino… a fissare incredulo il cellulare e a guardarsi attorno.»

«Non capisco,» giunse la voce di Max, dal sedile posteriore, «cosa contate di ottenere?»

«Pressione psicologica. Continueremo a bersagliarlo finché non saremo lì.»

«A quel punto?»

«Se conosco la natura umana, qualcosa accadrà.»

«Si starà chiedendo chi siamo,» si intromise Patricia, «forse starà immaginando che lo sorvegliamo tramite il circuito delle telecamere. Starà cercando di capire se sia possibile.»

Tacquero per alcuni minuti. Nell’abitacolo angusto rimase il fruscio monotono della velocità, accompagnato dal ticchettio intermittente della tastiera.

«Ho reperito nel web una fotografia recente dell’area ristoro,» disse la ragazza.

«Inviagli un sms come se ti trovassi sul posto e potessi osservarlo.»

«Il cartellone della pubblicità ti nasconde, ma so che sei lì... può andar bene?»

«È perfetto. Invialo.»

«Pensate che potrei scrivergli dei messaggi anche io?» chiese Max.

«Perché no. Bombardamento a tappeto!»

A Sirio sfuggì un risolino.

Continuarono a tartassare il nuovo numero di Andy finché furono in vista delle luci dell’aeroporto.

«Patricia,» disse Sirio, «un ultimo messaggio dal notebook: Non prenderai quel volo… poi passa l’applicazione sul tuo smartphone.»

La Clio, senza rallentare, diresse verso gli ingressi delle partenze internazionali.

Si bloccò in un’area destinata alla sosta dei pullman e scese.

«Fatto,» disse Patricia, uscendo, «e adesso?»

«Vediamo di mantenere la promessa che gli abbiamo appena fatto.»

Corsero tutt’e tre verso l’atrio illuminato.

Mancavano due minuti all’apertura dei cancelli d’imbarco. Sirio rilevò l’informazione sul tabellone luminoso e attraversò l’atrio senza rallentare. Lunghe code di passeggeri affollavano il banco del check-in e fu costretto ad aggirarle. Raggiunse il gate del volo per Londra e si fermò a osservare la fila in attesa.

«Lo vedi?» chiese Patricia, raggiungendolo.

«No.»

«Eccolo,» ansimò Max, tendendo il braccio.

Il suo sosia aveva fatto capolino e li aveva scorti. Era uno dei primi della fila. Si era ritratto.

Sirio afferrò Max per il gomito e lo sospinse avanti, Patricia affrettò il passo, per rimanergli vicino. Le persone in attesa, man mano che li notavano, si facevano da parte con espressioni preoccupate.

Raggiunsero Andy, che rimase a fissarli immobile, a occhi sbarrati.

«È lui?» chiese Sirio a Max, in inglese.

«Yes.»

«Deve venire con noi in commissariato,» gli intimò, sempre in inglese.

L’altro alzò di scatto le mani in alto come un militare che si arrende, mentre una voce femminile e autoritaria, alle spalle di Sirio, di Patricia e di Max, scandiva, in un inglese scolastico ma accettabile:

«Mister Andrew Hastings, da questa parte, prego, dobbiamo eseguire dei controlli».

La commissario Ruggentini, scortata da un agente in divisa, afferrò Andy per il gomito e lo indusse a seguirla verso il posto di polizia dell’aeroporto.


 

 

 

 

9

 

 

 

 

 

 

 

Ruggentini aveva chiesto a tutti e tre di aspettare in sala d’attesa. La giudice Valtesi fece il suo ingresso poco dopo, assieme a un poliziotto. Gli occhi dardeggiavano come lampi laser durante battaglie nella galassia.

«Sei un mascalzone, mi hai manipolata e hai manipolato anche Ruggentini.»

Sirio sospirò: «Ho solo indicato a te e a lei il percorso più breve per arrivare dal punto A al punto B. Per identificare Andy prima che tornasse a Londra, non esisteva altro sistema che incrociare i nominativi dei passeggeri sul volo con cui era arrivato con quelli dell’aereo su cui stava per salire; per accertare che fosse lui il truffatore, era necessario verificare a chi fosse stato accreditato il bonifico. Io ero impossibilitato sia all’una che all’altra operazione, voi due avete potuto.»

Marianna tentennò il capo: «Hai voluto fare di testa tua. Mi auguro si possa dimostrare la colpevolezza di quell’uomo, altrimenti…»

«Potrebbe denunciarmi per averlo diffamato?» la prevenne Sirio, scegliendo la sua più genuina espressione da canaglia.

«Sì, questo,» confermò lei, scambiando con Patricia un’occhiata carica di domande e delle relative risposte.

Sirio procedette alle presentazioni: «Lui è Max, la vittima della truffa… Lei, una mia amica di New York…»

«Comunque, sei un furfante,» l’interruppe, meno decisa, la giudice, prima di aggiungere, «vado a interrogare il fermato, voi aspettate qui.»

Uscì evitando di stringere mani, seguita dal poliziotto.


 

 

 

 

10

 

 

 

 

 

 

 

Oltre i vetri della finestra che affacciava sulle piste di decollo dell’aeroporto, era buio già da un pezzo. Nella luce grigia che pioveva dal soffitto a riquadri bianchi, Sirio fissava le teste ciondoloni di Patricia e di Max, che dormicchiavano sulle sedie a schiera, di fronte a lui. Dopo la mezzanotte c’era stato un certo tafferuglio, quando dei poliziotti avevano trascinato per il corridoio un ubriaco massiccio e violento. Erano accorsi altri agenti dagli uffici, per dare manforte ai colleghi. Lo avevano sospinto verso qualche camera di sicurezza.

Non ricordava di essersi mai tirato indietro davanti a un’indagine e a volte si era chiesto perché lo facesse e soprattutto se ne valesse la pena.

Conosceva la risposta.

Qualsiasi indagine richiedeva dosi massicce di tempo, caparbietà e costanza, per raggiungere un risultato concreto. Migliaia di crimini, considerati minori, rimanevano impuniti, essenzialmente perché nessuno poteva dedicare loro l’attenzione e la sollecitudine di cui necessitavano. Una delle prime regole, scritta in neretto sul decalogo del buon investigatore, recitava che le inchieste devono essere avviate il prima possibile, poiché col tempo le tracce sbiadiscono fino a dissiparsi. Ebbene, sapeva che senza il suo intervento le indagini di routine si sarebbero protratte per mesi, l’identità di Andy sarebbe rimasta sconosciuta e il denaro non sarebbe più stato recuperato.

Entrò la commissario Ruggentini.

Patricia e Max si riscossero, mentre diceva:

«Che gli avete fatto? Continua a ripetere che le spie vogliono ucciderlo. Ci ha mostrato una serie di messaggi ricevuti sullo smartphone,» sorrise, «posso desumere che siano opera vostra o devo avviare indagini per scoprire da chi provenivano?»

Entrò anche la giudice Valtesi. Doveva aver colto le ultime parole, perché disse:

«Quel ragazzo era terrorizzato. Sentirsi l’alito del Grande fratello perennemente sul collo… cos’è, una nuova forma di tortura?»

Sirio scosse la testa.

«Non potevo sapere se effettivamente voi due sareste intervenute, dovevo renderlo malleabile quanto bastava da indurlo a seguirci in commissariato.»

Marianna agitò la mano.

«Lasciamo correre, ha confessato. Ha riferito dettagli su altre truffe, qui in Italia. Casi irrisolti che abbiamo recuperato dall’archivio telematico. Le modalità erano più o meno le stesse, contattava le vittime tramite dei siti social… maschi o femmine, per lui era indifferente, quindi faceva in modo di farsi invitare, così come ha fatto in questa occasione, infine arraffava quanto più poteva e spariva. A questo punto,» si rivolse alla giovane vittima del raggiro, «dobbiamo procedere a un riconoscimento ufficiale da parte di Max e a raccogliere le vostre testimonianze. Dopo di che sarete liberi di tornarvene a casa.»

Fu necessaria un’altra ora, per il disbrigo delle ultime formalità.

Intorno alle cinque del mattino Sirio e Patricia raggiunsero la piccola Clio, che aspettava coperta di bruma nel parcheggio dei pullman. Max aveva preferito rientrare in taxi, giudice e commissario con le rispettive vetture di servizio.

Il traffico sulla E45 si limitava a qualche autocarro e a poche automobili. Il flusso dei vacanzieri sarebbe iniziato di lì a poche ore.

Il profilo della donna era un punto fermo, rispetto al panorama che scorreva oltre il finestrino dalla sua parte. Provò un crampo allo stomaco: era venuta dall’America espressamente per lui e lui l’aveva trascurata e coinvolta in una avventura che non la riguardava.

Lei ruppe il silenzio per chiedere:

«Avevi previsto tutto. La reazione di Andy, l’intervento delle tue amiche commissario e giudice… tutto».

La sua faccia imbronciata gli causò un’ulteriore stretta di rimorso.

«Beh, previsto… diciamo che ci contavo.»

«E mi hai indotta a fare l’hacker a tempo pieno,» gli fece l’occhiolino.

Sirio cominciò a sperare.

«Sei un mostro e un pazzo,» esclamò Patricia.

Poi cominciò a ridere: «Il pazzo più geniale che abbia mai incontrato».

Gli si gettò al collo per baciarlo.

La vetturetta viola sbandò più volte, prima di rimettersi in carreggiata.


giovedì 11 maggio 2023

Un caso anomalo - Racconto


 
QUESTO RACCOINTO FA PARTE DELLA RACCOLTA "PICCOLI CRIMINI INNOCENTI".
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Un caso anomalo

1

 

Il mese di giugno del duemilacinque era stato particolarmente torrido, in Sicilia, e non sembrava che luglio sarebbe stato da meno. Molti corsi d’acqua si erano prosciugati, la siccità danneggiava le colture e, fatto curioso, nelle zone rurali, specie in prossimità di fattorie, stalle o altri assembramenti di bestiame, malgrado le ripetute disinfestazioni si verificava una recrudescenza allarmante di Calliphora vomitoria, più comunemente detto moscone della carne.

Nel resto d’Italia, tutto questo arrivava attraverso i notiziari.

A Forlì, alle due del pomeriggio, il professor Anselmo Urbani, disteso sul divano, che giusto il giorno precedente aveva spostato sotto il getto del condizionatore, spense la televisione e si tirò su a sedere.

Il medico, dopo aver sbuffato alla lettura degli esami ematici, gli aveva raccomandato di evitare la pennichella postprandiale e di soprassedere al consumo di carni rosse, alcoolici e dolciumi e, soprattutto, di fare ogni giorno una passeggiata di almeno un’ora, preferibilmente fuori di città, immerso nella natura, se voleva abbassare colesterolo, glicemia e tutta una serie di valori – che aveva enumerato con sadico puntiglio – pena più serie patologie che, dietro l’angolo, in agguato, lo aspettavano.

Urbani strinse i pugni e allargò le braccia, stirandosi con quanta più energia gli fu possibile (era pur sempre attività fisica… o no?), quindi si avvicinò alla finestra, che stava esattamente sotto la bocchetta dell’aria gelida. Fuori la calura riverberava lungo la fascia d’asfalto della strada, oltre gli zampilli intermittenti che irrigavano il prato all’inglese. Il professore sbuffò, decidendo di rinviare la passeggiata a dopo il tramonto, quindi, con calma, si spostò verso il tavolo a centro stanza, sul quale, rincasando dal lavoro, aveva abbandonato la corrispondenza arrivata quella mattina.

La lettera, ripiegata due volte all’uso commerciale e contenuta in una busta con la finestra trasparente, proveniva da Palermo. Al disotto delle intestazioni affiancate del Ministero della Giustizia e della Regione Sicilia, che sponsorizzavano l’iniziativa, così recitava: “Oggetto: Seminario sulle procedure atte a contrastare la criminalità organizzata”.

Urbani lesse rapidamente il testo:

“Egregio professore, facendo seguito ai contatti telefonici intercorsi, confermiamo che il Suo intervento è programmato per lunedì 11 luglio p.v. alle ore… In attesa di incontrarLa… Cordialmente…”

Al foglio erano spillati i biglietti aerei e la prenotazione per due stanze presso il Superior Hotel di Palermo.

Il professore se ne era completamente dimenticato.

Con preoccupazione tornò a guardare, fuori dalla finestra, la luce incandescente che colorava di arancione la chioma del pino davanti alla casa. E si trovava a Forlì, figuriamoci cosa poteva essere Palermo! Poi il discorso… roba del mese passato! A proposito, che ne era stato del discorso?

Chiamò Sirio.

Si erano lasciati non più di tre ora prima, in facoltà, dopo una lezione sugli alibi contraffatti e i moventi fuorvianti.

«Dove sei?» quasi l’aggredì, quando rispose.

«In riviera.»

Immaginò il corpo tonico del suo allievo disteso al sole.

«Che fai?»

«Sdraiato su un telo.»

Ho indovinato! Si congratulò con se stesso.

Qualche giorno prima, aveva sorpreso una studentessa del terzo anno mentre gli strapazzava il naso da pugile. Immaginò che fossero insieme.

«Con chi?» domandò, curioso.

«Con… Professore, perché tutte queste domande?»

Urbani, lisciandosi il pizzo bianco della barba, sorrise fra sé per la propria arguzia.

«È arrivato l’invito a quel seminario sulla mafia,» spiegò allo studente, «non ricordo dove ho messo il discorso che avevo preparato.»

«Non può ricordarlo,» giunse, dopo una risata, la voce del suo giovane amico, «perché non ha preparato alcun discorso.»

Gli sovvenne che il ragazzo si era offerto di redigerlo al posto suo. Finse di non averlo mai dimenticato:

«Appunto… quando me lo porti?»

«Già fatto,» esclamò il suo allievo preferito, «l’ha infilato nel primo cassetto dello scrittoio, nello studio.»

Urbani, fingendo un black-out per non doversi giustificare, chiuse la comunicazione.


 

2

Nella vasta sala conferenze del Superior Hotel di Palermo, Sirio aveva preso posto in una poltrona d’angolo dell’ultima fila, da cui abbracciava l’ambiente intero. Nel prestare orecchio ai relatori che a turno si spostavano dal lungo tavolo fino al leggio, replicati sul maxi schermo affisso alla parete di fondo, osservava i presenti, li catalogava, li suddivideva per gruppi omogenei. Personalità politiche occupavano la prima e la seconda fila, rigorosamente in ordine di importanza nella gerarchia nazionale, regionale e comunale; rappresentanti delle varie forze di polizia, di cui alcuni in uniforme; poi cronisti, sia di testate nazionali che locali, fra i quali spiccavano più o meno noti volti del piccolo schermo.

Il relatore di turno, fra altri luoghi comuni, allarmismi e assicurazioni circa le incisive azioni di controffensiva delle Istituzioni, si accalorava, affermando come la criminalità organizzata quasi ostentasse i propri crimini, incurante delle leggi e con disprezzo spudorato nei confronti della giustizia e dello Stato.

Sirio notò il giornalista, sui cinquanta, baffetti sottili e occhiali cerchiati di nero. Sedeva con le gambe accavallate e le braccia conserte in una poltrona lungo il corridoio. Lo notò per via della custodia a tracolla marchiata Nikon e per il fatto che, al contrario di altri suoi colleghi, non effettuava riprese né scattava fotografie dell’evento; anzi, sembrava, non tanto annoiarsi, quanto subirlo.

Dal palco venne annunciato un break coffee: potevano accomodarsi nella sala adiacente.

Sirio e Urbani si ritrovarono accanto a un maresciallo dei carabinieri in divisa, in fila al tavolo del buffet, un cinquantenne con i baffi folti, curati, con i capelli segnati dalle prime striature.

«Io la conosco,» disse a Urbani, voltandosi, dopo aver ordinato un caffè. Urbani rimase a osservarlo interdetto, tenendo in equilibrio un cumulo di pasticcini, in bilico nel piatto che sosteneva all’altezza del mento.

«Lei non può ricordare,» gli venne in soccorso il maresciallo, «sedevamo vicini alla prima dell’Aida, al teatro comunale di Bologna, due anni fa. Ci siamo presentati e abbiamo scambiato qualche commento durante l’intervallo, nel foyer. Io mi chiamo Achille Preposti e lei è il professor Urbani, se non ricordo male.»

«Una memoria notevole,» ricambiò il sorriso il professore, con il piatto nella destra e un pasticcino tra il pollice e l’indice della sinistra, agitandosi nell’impossibile tentativo di porgergli la mano.

Sirio notò il cronista con la macchina fotografica a tracolla che si avvicinava.

«Ah, il maresciallo Preposti…» disse, ignorando sia il professore che Sirio.

L’altro ne sembrò scontento: «Oggi la Nikon è rimasta nella custodia…»

«Non le sfugge niente! D’altra parte, cosa c’era da immortalare? Un susseguirsi di pseudo esperti e tuttologi?»

Preposti si schiarì la voce, rivolgendosi al professore: «Le presento Giulio Cassioro».

Seguirono strette di mano.

Urbani presentò Sirio a entrambi.

«Il prossimo intervento è il suo,» disse Preposti al professore.

«Già,» rispose Urbani, con un sorrisetto schivo che lo fece assomigliare al Poirot degli sceneggiati, «dovrò disquisire di mafia… io che vengo da Forlì.»

Il giornalista sembrò sul punto di intromettersi, ma il trillo di un cellulare e il maresciallo che lo estraeva di tasca, lo bloccarono.

«Pronto,» rispose Preposti, facendo un passo indietro.

Chi era all’altro capo della linea possedeva una voce squillante e concitata: «Maresciallo, abbiamo trovato l’assessore… è morto!»

Preposti sembrò chiudersi attorno al telefono. Si allontanò ancora.

Altri telefoni avevano cominciato a squillare.

Urbani si rivolse al cronista:

«Assessore? Morto?»

Cassioro, adesso, sembrava elettrizzato, si guardava attorno, come assimilando l’animazione che si andava diffondendo nella sala.

«Riccardo Pellosi,» rispose al professore, «era scomparso da alcuni giorni. Venga, lei che proviene da Forlì… se vuole erudirsi sui metodi della mafia. Non si preoccupi per il suo discorso sul palco, tanto qui, fra cinque minuti, non ci sarà più nessuno.»

Infatti la sala si andava vuotando.

Magistrati e funzionari di polizia rispondevano ai telefoni cellulari, si scambiavano commenti, informavano i politici che li assediavano curiosi. I cronisti orecchiavano, chiamavano le redazioni.

A quanto pareva le notizie scorrevano di bocca in bocca a una velocità incredibile e tutti, a quanto pareva, sapevano esattamente cosa fare e dove recarsi.

Sirio e il professore tennero dietro a Cassioro.

«Salite,» disse il giornalista, facendo scattare l’apertura di una Fiat Seicento celeste.

Con qualche contorcimento Sirio riuscì a salire dietro, sul sedile ingombro da scatole e buste in pvc piene di qualcosa. Urbani si compresse al posto del passeggero.

Cassioro partì facendo stridere le ruote sull’asfalto e riuscì, costringendo le autovetture che sopravvenivano a brusche frenate e manovre azzardate, a collocarsi dietro un’autopattuglia dei carabinieri che, lampeggianti e sirena accesi, si stava avviando in quel momento.


 

3

Quando fu chiaro che la piccola Fiat non avrebbe potuto tener dietro alle volanti, Giulio Cassioro chiamò qualcuno col cellulare:

«Dov’è il morto?»

Rimase in ascolto qualche secondo, poi lasciò cadere l’apparecchio sul cruscotto. Il traffico cittadino, che fin quando seguivano i carabinieri si apriva per lasciarli passare, si era richiuso davanti a loro, ma il giornalista, ignorando segnaletica e colore dei semafori, tirava dritto senza rallentare, incurante di clacson, frenate e imprecazioni degli altri automobilisti.

Il professore aveva allentato la cravatta, aveva aperto i primi bottoni della camicia, sudava. Non soltanto, forse, per l’alito ardente che entrava dai finestrini aperti o perché non aveva avuto il tempo di togliere la giacca. Impugnava con la destra la maniglia sotto il tettuccio e con la sinistra distesa cercava di puntellarsi contro il cruscotto della vetturetta.

«Io non volevo venire…» si lamentò.

Raggiunsero una strada fuori città, talmente stretta da non consentire il sorpasso, e dovettero incolonnarsi. Cassioro voltò la testa verso di loro.

«Pellosi è scomparso da tre giorni ed è da tre giorni che lo ripeto: Lo ritrovate imbottito di pallettoni da cinghiale!»

«Come mai questa certezza?» chiese Sirio, sporgendosi nello spazio fra i due sedili anteriori.

«Voce di popolo, voce di Dio,» esclamò il giornalista, «è il mio mestiere. Io ascolto. Su quest’isola non esistono i segreti, le voci scorrono sotto la superficie, come l’acqua dolce di certe sorgenti che affiorano dagli scogli al disotto di quella salata del mare. La distingui ma non la vedi, se la percepisci è solo nella trasparenza. Qui, tutti ascoltano, ma nessuno parla. L’assessore Pellosi, per semplificare, da una parte contraccambiava piaceri a personaggi in odore di mafia, dall’altra vendeva favori ai poveracci… assunzioni in Comune, sovvenzioni statali agli agricoltori, sgravi fiscali… e chi sa cos’altro. La gente parla, fa il passaparola.»

«Un uomo potente…» insinuò Sirio.

«Qui, se hai le protezioni giuste, lo sei, potente!»

«Ma allora, perché ucciderlo?» domandò Urbani.

Cassioro, affrontando una curva senza rallentare, disse:

«È tutto da scoprire. Di sicuro ha fatto uno sgarbo a qualcuno che conta, non so se mi spiego… e badate bene che io non ho paura a pronunciare la parola mafia. Ma ecco, siamo arrivati».


 

 

4

Autovetture e furgoni con le sigle delle reti televisive sostavano lungo le siepi che costeggiavano i due bordi della strada. Un cordone di poliziotti impediva l’accesso a un viottolo sterrato che si inoltrava nella campagna.

«Stampa,» esibì il tesserino Cassioro.

Il poliziotto si limitò a fargli un cenno col mento.

«Laggiù, con gli altri».

Raggiunsero un ponticello.

Fra i parapetti di mattoni, era assembrata una piccola folla. I cronisti puntavano telecamere e macchine fotografiche provviste di teleobiettivo verso un punto preciso, nel greto del torrente in secca.

Sirio e Urbani seguirono Cassioro.

Il professore aveva lasciato la giacca sul sedile e aveva rimboccato le maniche della camicia chiazzata di sudore. Si deterse la faccia col fazzoletto.

«Che ci faccio qui?» sospirò.

Il letto del torrente, largo circa quattro metri, che d’inverno doveva portare acque impetuose, era ridotto a una pietraia che riverberava sotto il sole allo zenit.

A circa quindici metri, il corpo dell’assessore giaceva fra i ciottoli, coperto da un panno bianco. Un uomo dalla corporatura possente a giudicare dal gonfiore in corrispondenza dello stomaco. Dal panno sporgevano ginocchia, caviglie e piedi enormi. Alcuni agenti del RIS, in tuta, guanti e calzari bianchi, si muovevano lì attorno. Più oltre, a distanza, Sirio riconobbe il maresciallo Preposti assieme ad altri agenti in divisa e ad alcuni personaggi in borghese, probabilmente i magistrati. Altri poliziotti perlustravano gli argini, chinandosi a scrutare tra la vegetazione.

Giulio Cassioro, montato il teleobiettivo, scattava in successione. Per liberarsi le mani aveva ceduto il binocolo a Sirio. Urbani, qualche passo dietro la folla stipata dei giornalisti, si limitava a sbuffare e ad asciugarsi la fronte col fazzoletto. Gli inviati dei telegiornali sceglievano le inquadrature e parlavano ai microfoni, davanti alle telecamere.

Sirio puntò il binocolo. Il lenzuolo che copriva il cadavere era punteggiato di grossi mosconi verdi. Sciamavano, si ammassavano sulle macchie scure del sangue, che spiccavano all’altezza del torace e delle mani del morto, si infilavano o fuggivano dai lembi. Una donna in tuta bianca con la stampigliatura dei RIS si chinò per fotografare qualcosa fra la ghiaia. Sirio la seguì col cannocchiale, mentre raccoglieva l’oggetto, qualcosa di pendulo, che inseriva in una bustina trasparente per i reperti.

Non era riuscito a distinguere.

«Ha raccolto un bracciale,» disse Cassioro spostando il teleobiettivo della Nikon, come se gli avesse letto nel pensiero, «al computer vedremo meglio.»

Un elicottero della polizia stava sorvolando la zona e perlustrava le due sponde. Durante uno dei passaggi discese sulla perpendicolare del cadavere, stazionò qualche attimo, poi riprese quota e proseguì.

Trascorsa un’oretta, sul ponticello l’attenzione andava scemando, molti parlottavano ai cellulari, altri scambiavano commenti. Urbani si sventolava col fazzoletto, seduto su un masso all’ombra di un ulivo. Cassioro seguitava imperterrito a fotografare.

«Lo portano via,» disse qualcuno.

I barellieri si stavano avvicinando al cadavere, incespicando nei ciottoli. Erano le due del pomeriggio, la temperatura superava i quaranta gradi, i mosconi ronzavano sulla piccola folla ammassata, che adesso tornava a interessarsi di quanto si svolgeva nella pietraia.

I barellieri appoggiarono la lettiga e rimossero il lenzuolo.

Alcuni poliziotti si erano schierati per formare un schermo, ma il ponticello si trovava più in alto di loro. I Clik degli otturatori continuarono a susseguirsi in un crescendo frenetico.

Poi qualcuno, fra quelli che osservavano la scena, si voltò di scatto, ci furono esclamazioni di raccapriccio.

Mosconi verdi sciamarono dal sangue aggrumato sui moncherini delle mani amputate.


 

5

L’ambulanza si era allontanata sobbalzando, seguita da alcune autopattuglie e da qualche veicolo senza insegne. Il maresciallo Achille Preposti seguitava a dare indicazioni ai vari agenti ancora impegnati a individuare eventuali tracce. Quando infine andò verso il ponticello, i cronisti lo circondarono.

Sirio e il professore, che finalmente aveva rinunciato all’ombra dell’ulivo per avvicinarsi, si tennero qualche passo indietro; Giulio Cassioro predispose lo smartphone alla registrazione.

Ci fu un concitato susseguirsi di domande:

«Come è stato ucciso?»

«Avete ritrovato l’arma?»

«A quando risale la morte?»

«Avete dei sospetti?»

Il maresciallo attese che facessero silenzio, scostò i microfoni più pressanti, lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro:

«Signori, posso dirvi ben poco, come vedete le indagini sono appena all’inizio. È stato ucciso da un unico colpo di pistola al cuore, sparato a bruciapelo… e l’arma non è stata ritrovata».

«Avete dei sospetti?» insistette il cronista molto giovane che aveva parlato poco prima.

Il maresciallo evitò di guardarlo, qualche suo collega non poté trattenere un sorriso, un poliziotto scosse la testa.

«Ma la morte,» chiese un altro del gruppo, «a quando risale?»

Preposti si voltò verso di lui, un reporter sulla sessantina.

«Sarà necessario attendere i risultati dell’autopsia.»

«È morto qui o ce l’hanno portato?» chiese l’inviata di una TV locale.

«Siamo propensi a ritenere che sia stato ucciso altrove e che poi il corpo sia stato abbandonato dove l’avete visto. C’è un viottolo sterrato che corre lungo il greto del fiume, lo attraversa e prosegue sull’altro versante. Sul terreno soffice e nella sabbia ci sono diverse tracce di pneumatici. Però, per saperne di più, bisognerà aspettare i risultati delle indagini scientifiche.»

La voce acuta della cronista di una televisione nazionale sovrastò quella degli altri:

«Le mani, perché mutilargli le mani?».

Il maresciallo le concesse un sorriso condiscendente: «Questo, al momento, nessuno può saperlo, se non l’autore del crimine».

«Ma… sono state ritrovate?» insistette lei, con una smorfia di disgusto.

«No,» rispose il maresciallo, «no, le mani non erano vicino al corpo e non sono state trovate, come non è stato rinvenuto lo strumento utilizzato per mozzarle; probabilmente una mannaia o un grosso coltello da macellaio, a giudicare dai tagli netti sui polsi.»

Le risposte del maresciallo, notò Sirio, pur non essendo evasive, erano sempre ponderate.

Giulio Cassioro si fece spazio fra i colleghi.

Seguì un attimo di silenzio rispettoso.

«Il movente,» disse, «da tempo, da più parti, si bisbiglia che l’assessore fosse in odore di mafia. Pensa che avesse fatto qualche sgarro alla Cupola e, per questo, le mani troncate?»

Era chiaro, il giornalista più che una domanda, stava cercando di far passare una sua ipotesi, ma il maresciallo non cadde nel tranello:

«Ripeto, le indagini sono appena all’inizio. Qualsiasi congettura rimane da dimostrare. Adesso vogliate scusarmi, non posso aggiungere altro».

Si stava avviando verso l’auto di servizio, seguito dai suoi uomini, quando li levò, sopra al brusio diffuso, la voce acerba dell’inviato molto giovane:

«Avete dei sospetti?»


 

6

Sirio era scettico, circa l’opinione di Giulio Cassioro.

Il giornalista propendeva per l’omicidio di mafia, motivando la mutilazione inferta al cadavere come un messaggio, un monito per chi in futuro l’avesse avversata.

«I criminali comuni,» insistette Cassioro, mentre nella piccola Fiat procedevano per tornare all’hotel Superior, «camuffano il delitto, seminano false piste, si nascondono. Invece mafia e terrorismo lo ostentano, la prima in segno di disprezzo nei confronti dello Stato, l’altro mirando a soppiantarlo. I crimini perpetrati dalle organizzazioni mafiose, per tornare al nostro caso, sono eclatanti, per dimostrare potere ed esprimere disprezzo, se non derisione, nei confronti della legge costituita.»

«È una visione, rispettabile, ma esclusivamente da cronista,» replicò Sirio, «un investigatore non può avere opinioni preconcette.»

L’altro si stava infervorando: «Io vivo in questo paese e lo conosco. Qui vigono regole diverse che altrove. L’omertà…».

«Le tre scimmiette,» l’interruppe serafico Urbani.

Finora se n’era rimasto a occhi chiusi appoggiato allo schienale, lasciando che l’aria calda che entrava dai finestrini gli scorresse sul viso. Parlò senza spostarsi, muovendo appena le labbra:

«Non vedo, non sento e non parlo. Le mani mozzate… un monito minaccioso, come il sasso in bocca per le spie o i genitali strappati ai molestatori. È questo che intende? Ma allora, perché il colpo di pistola e non di lupara?».

«I tempi cambiano, evolvono,» rispose Cassioro.

«Eh no,» il tono perentorio dell’esclamazione strideva con l’immobilità rilassata del professore, «eh no, se le mani mozzate volevano essere una firma, l’uso dell’arma sbagliata la cancella. Anzi fa pensare che l’omicida stia tentando di mascherare il movente, per precostruirsi un alibi. Come a dire: se sono stati loro, non sono stato io.»

Sirio conosceva il professore da anni, sapeva quanto fosse indolente. Se adesso affrontava la gran fatica di una minilezione di criminologia a quelle temperature da mezzogiorno di fuoco, significava che si era stufato dell’atteggiamento saccente del giornalista. La situazione diventava divertente, gli diede man forte:

«Verrebbe da pensare che dopo averlo ucciso, l’assassino abbia pensato a questo stratagemma per sviare i sospetti. Così come il fatto che abbia trasportato il cadavere nella pietraia… allontanandolo da sé».

Adesso Giulio Cassioro ascoltava. Si distrasse un attimo dalla guida per girare la testa verso Sirio. Annuì pensieroso, come per incitarlo a proseguire.

«Se così fosse,» riprese Sirio, «si tratterebbe di cercare qualcuno che avesse dei conti in sospeso o che odiasse Riccardo Pellosi al punto da ucciderlo. Escluderei si tratti di una donna ed escluderei il concorso di più persone, perché sottintenderebbe una premeditazione e un affiatamento di complici che è difficile immaginare, per una azione tanto cruenta. Quindi un solo uomo, che possegga o abbia accesso a un veicolo in grado di percorrere il tratto sconnesso e pietroso del torrente prosciugato e una forza tale da caricare e poi scaricare il cadavere, nonché la capacità e il sangue freddo di mozzargli le mani con un colpo preciso e netto di una mannaia o altro coltellaccio da macellaio.»

Scese il silenzio.

Il professore era tuttora immobile, il giornalista improvvisamente concentrato nella guida.

«Macellaio…» disse, «vi dispiace se facciamo una deviazione fino a casa mia?»

«Purché abbia il condizionatore acceso,» borbottò il professore.


 

7

La piccola Seicento svoltò in una traversa, addentrandosi in una zona semiperiferica fatta di palazzine modeste circondate da orticelli, infine si infilò, quasi senza rallentare, tra due vetture in sosta davanti a una pasticceria.

«Ecco, siamo arrivati,» annunciò il giornalista scendendo e affrettandosi ad aprile lo sportello al professore. Afferrò la custodia della macchina fotografica e li precedette verso un portoncino scrostato, poco più avanti del negozio; attraversò a passo veloce un androne interno col soffitto a volta annerito; passò attraverso solidi odori stantii di cucinato e superò di slancio il cartello “guasto” appeso alla grata dell’ascensore.

«Io sto al secondo piano,» annunciò senza rallentare, avviandosi per i gradini consumati.

Il professore sbuffò e prese ad arrancare in salita, aggrappandosi al corrimano.

Sul pianerottolo, affacciavano due soli ingressi, l’uno contrapposto all’altro. Grosse maniglie di ferro ritorto, infisse nel legno scuro delle porte, sormontate da una grata semicircolare. Una finestra, al centro, di fronte all’ascensore inservibile, affacciava sul cortile interno. Vialetti sconnessi, qualche alberello d’arancia fra aiuole dimenticate.

«Prego, entrate,» fece strada Cassioro.

Un corridoio quasi buio, benché fosse un pomeriggio assolato di luglio. A destra la cucina. Un tavolo di legno massiccio al centro, seggiole impagliate, una panca sotto la finestra, un frigorifero di forma quasi ovale che risaliva alla preistoria.

«Accomodatevi,» disse il padrone di casa.

Sirio si sentì sospinto indietro nel tempo, quando i nonni, aprendo agli ospiti, li invitavano: Accomodatevi!

Chi lo dice più, al giorno d’oggi?

Di condizionatori nemmeno l’ombra, ma la temperatura risultava accettabile, la calura veniva respinta dallo spessore dei muri.

Giulio stava frugando nel frigo. Appoggiò sul tavolo dei tramezzini imbottiti. Li offrì agli ospiti, che rifiutarono.

Lui invece ne addentò uno.

Attraverso la porta, si vedeva un personal computer acceso, nella camera accanto, appoggiato su un piccolo scrittoio di legno scuro. Urbani si era accomodato a gambe larghe su una seggiola impagliata. In quella posizione, con le spalle alla finestra e la cassapanca sullo sfondo, sembrava in posa per un flash al magnesio.

«Non mi è chiaro perché siamo qui,» si guardò attorno.

«La parola macellaio…» Cassioro ingoiò l’ultimo boccone del tramezzino, «io sono un cronista che non aspetta le notizie, le va a cercare e, mentre frugo, scatto una infinità di fotografie. Venite, voglio farvi vedere una cosa.»

Sirio l’aveva seguito verso il computer, nella stanza accanto; il professore aveva sbuffato, tornando a passarsi il fazzoletto sulla fronte, ma non si era alzato.

«Anni addietro,» spiegò il giornalista, utilizzando il mouse per richiamare delle raccolte fotografiche sullo schermo, «svolsi un’indagine presso il Mattatoio comunale. Qualcuno mi aveva segnalato delle irregolarità e volevo ricavarne un articolo. Le voci parlavano di bestiame, proveniente da aziende agricole non controllate, immesso irregolarmente nel ciclo di macellazione. Tutto questo avveniva fuori dall’orario di attività dell’impianto e persino nottetempo, aggirando così i controlli igienico sanitari. Per prima cosa, ottenuti i permessi, mi recai nella mia veste ufficiale di cronista indipendente… Ah, eccole!»

Cliccò e aprì la raccolta di foto che gli interessava.

In sequenza si succedettero immagini di autocarri con le stampigliature di bovini sulle fiancate, di cortili gremiti di bestiame, di staccionate metalliche per instradarlo alla macellazione, di pareti piastrellate, di banconi col ripiano di marmo, di coltelli e mannaie con lame di varie dimensioni. Cassioro aveva fissato la pistola col punteruolo mentre veniva appoggiata sulla fronte degli animali, il momento in cui stramazzavano a terra, i muletti a forche che trasportavano le carcasse nel reparto scuoiatura e i quarti di bestia, le carni rosse e nude, appesi ai ganci metallici. Infine, cronista puntiglioso, aveva dedicato qualche scatto anche agli ambienti di servizio, alla mensa e agli spogliatoi per il personale. Qualcuno gli aveva mostrato della documentazione amministrativa, che aveva diligentemente fotocopiato e archiviato.

«Tutto eseguito a norma di legge,» commentò, «ma io, non convinto, cominciai ad appostarmi all’esterno e, in effetti, camion entravano e uscivano, fuori dagli orari d’apertura. Purtroppo, non potendo controllare che cosa contenessero, nemmeno potevo provare i miei sospetti. In conclusione, quella inchiesta, fu un fallimento. Però…»

Fece scorrere le sue fotografie sullo schermo, quasi stesse inseguendo un pensiero preciso.

«Però durante uno dei miei appostamenti, mi capitò di sorprendere qualcuno. Eccolo qui, l’assessore Riccardo Pellosi, mentre scende dalla sua Mercedes nel parcheggio del mattatoio.»

Un uomo molto alto e robusto, con grosse labbra sporgenti in un faccione butterato. Nelle inquadrature successive si guardava attorno, infine puntava verso l’edificio.

«Macellaio è stata la parola chiave,» considerò Cassioro, parlando quasi a se stesso.

Urbani, che fino a quel momento era rimasto accanto alla finestra seguendo da lontano seguito i loro commenti, si avvicinò a Sirio, alle spalle del giornalista, che intanto stava aggiungendo:

«Eccolo qui».

Appoggiò il puntatore del mouse sulla faccia dell’uomo, altrettanto gigantesco, con una barbona fulva e folte sopracciglia irsute che, con addosso un lungo grembiule di cuoio, andava incontro all’assessore.

«Mi ricordavo di lui.»

Cassioro si appoggiò allo schienale per voltarsi a guardarli.

«Si chiama Massimiliano Rubichi. Assieme alla moglie abita due camere di un cascinale semidiroccato fuori Palermo. Un tipo litigioso, bevitore e giocatore d’azzardo… con precedenti penali per rissa aggravata e lesioni personali.»

«Sa molte cose, lei,» considerò Sirio.

«Devo saperle. Ho un archivio che alimento in continuazione, contando che un giorno o l’altro mi torni utile per i miei articoli. Guardate.»

Sul personal si succedettero delle immagini.

Pellosi e Rubichi avanzano l’uno verso l’altro, torvi, protesi in avanti; sono di fronte, minacciosi; primissimo piano dei due con le fronti quasi a contatto. L’uomo del mattatoio ha la bocca spalancata: sta urlando. L’assessore gli preme una pistola sotto le costole, l’altro stringe i pugni.

Nelle successive, l’uomo col grembiule di cuoio si sta allontanando, si volta, punta l’indice contro il funzionario.

Sirio fece un gesto con la mano: «Le fotografie non provano nulla, se non un alterco, forse una minaccia dell’assessore nei confronti dell’altro, per via della pistola. Comunque sarebbe opportuno portarle al maresciallo Preposti, chi sa non gli tornino utili».

Cassioro era tornato in cucina e adesso mordeva un secondo tramezzino.

«Come avrete capito non corre buon sangue tra me e il maresciallo…»

«Il motivo?» chiese Sirio.

L’altro parlò con la bocca piena: «Ogni città ha delle zone d’ombra. Luoghi in cui lo spaccio è palese, se non sfacciato; uffici pubblici che fanno della corruzione una prassi; ambienti di lavoro in cui non vengono rispettate le norme di sicurezza… sono sotto gli occhi di tutti ma nessuno le vede. Be’, se un cronista sposta la cenere e scopre i carboni accesi, qualche brutta figura può risultare inevitabile».

Il professore aveva recuperato il proprio posto vicino alla finestra spalancata, si agitò, sbuffò.

«Il maresciallo non mi ha dato l’impressione di una persona superficiale.»

«Non lo è, ne sono convinto, lungi da me il pensare una cosa del genere,» replicò Cassioro mostrando i progressi della masticazione, «né intendo intralciare le indagini. Ma sono un cronista, devo sapere. Prima di consegnare le fotografie voglio verificare una cosa e vi chiedo di aiutarmi…»

Li fissava, adesso, alternativamente.

Il professore guardò l’orologio e sbuffò, Sirio chiese: «Per fare cosa?»

«Una piccola deviazione. Guardate,» sollevò una chiavetta USB, «le foto sono qui dentro. Una piccola deviazione e le portiamo al maresciallo.»

Lo studente interpellò il suo professore con lo sguardo.

Urbani strizzò gli occhi. Se Sirio lo conosceva, e lo conosceva fin troppo bene, la sua indolenza gli stava mostrando lunghe attese su marciapiedi infuocati, in attesa di tassì palermitani privi di climatizzatore, che l’avrebbero condotto attraverso interminabili strade arroventate.

«E sia,» sospirò.

Cassioro, passando accanto al tavolo di cucina, agguantò al volo un paio di tramezzini.


 

8

«Guida tu, per piacere,» aveva detto a Sirio il giornalista, sventolando i tramezzini.

Il professore si era rassegnato a comprimersi sul divano posteriore. Dal sedile del passeggero Cassioro indicava il percorso.

Il casolare sorgeva isolato, a ridosso di una strada che aveva dimenticato l’ultima passata di asfalto. La breccia del sottofondo affiorava, scricchiolava come sgretolandosi sotto le ruote. Procedevano a sobbalzi fra cumuli di rifiuti e scarti di demolizioni edilizie. La vecchia costruzione, un po’ arretrata in quella che un tempo doveva essere stata l’aia, non aveva quasi più traccia di intonaco, le finestre del piano terreno erano state tamponate coi mattoni, le persiane al piano superiore erano sbilenche e mancavano di molte stecche. Da una parte, mezzo nascosta dietro un cespuglio di oleandri abbandonato a se stesso, era parcheggiata una Range Rover marrone con la targa di almeno vent’anni prima.

Cassioro bussò col pugno sulla porta, perché campanelli non c’erano campanelli o batacchi.

«Cu è?!»

Voce di donna, ma greve.

«Mi chiamo Giulio Cassioro e sono un giornalista, apre per piacere?»

«Epperché?»

«Per cortesia, mi apra, devo chiederle una cosa.»

La donna ingombrava completamente il vano della porta. Era alta perfino più di Sirio e pesava almeno centocinquanta chili. Capelli scarmigliati, labbro inferiore sporgente, occhi sospettosi. Assieme a lei uscì il tanfo rancido del cucinato.

«Allora?»

Cassioro era indietreggiato di mezzo passo: «C’è suo marito?».

«No.»

«La Range Rover? Non è la sua?» insistette.

«Col motorino uscì, stamattina presto.»

«Ah, e quando lo possiamo trovare?»

«Tardi, ritorna.»

Cassioro assunse un tono discorsivo, cortese: «Senta signora… in che rapporti era suo marito coll’assessore Pellosi?»

Gli occhi del donnone, da sospettosi, diventarono foschi: «Manco lo conosce… all’assessore, mio marito».

Sirio seguiva da vicino la scena. Da giovane apprendista profiler studiava i messaggi inconsapevoli delle espressioni della gigantessa. Aveva esitato sul verbo! Stava per dire conosceva? Inoltre: troppa precipitazione a disgiungere la parola assessore da marito!

Urbani si era allontanato per rifugiarsi in un cono d’ombra. Senza preavviso il giornalista dispiegò a due mani la foto di Pellosi, quella in cui spingeva la pistola nelle costole del Rubichi, fuori dal mattatoio.

«Perché?» chiese soltanto.

La moglie accennò un mezzo passo indietro.

«A lui ce lo dovete chiedere…» aveva perso baldanza, lo sguardo, da fosco, era adesso intimorito.

«Va bene,» incalzò Cassioro, «quando lo posso trovare?»

«No. Lui qua non ritorna… partito è.»

Si era contraddetta, mentiva.

«E mo andate via.»

Si videro sbattere la porta in faccia.

Il cronista, ripiegando la fotografia, si avviò alla macchina a testa bassa, brontolando. Tenne aperto lo sportello del passeggero per consentire al professore di riprendere posto dietro.

«Guida tu,» porse a Sirio la chiave dell’accensione.

Quando Sirio scorse la mano protesa oltre l’angolo della casa e la pistola puntata, Cassioro si trovava ancora in equilibrio instabile, con un piede dentro la vettura e l’altro a terra.

Il giovane, in rapida successione, ruotò la chiave d’avviamento, premette sul gas e rilasciò la frizione. La piccola Fiat ebbe un sobbalzo in avanti, il finestrino dal lato del passeggero andò in frantumi, Giulio Cassioro cadde scompostamente sul sedile.


 

9

Massimiliano Rubichi venne arrestato alcune ore dopo. Non aveva più la pistola, ma l’esame al guanto di paraffina confermò che aveva sparato. Il proiettile, recuperato nel poggiatesta dell’utilitaria del cronista, risultò essere stato esploso dalla stessa arma che aveva ucciso l’assessore. Anche il bracciale rinvenuto nel greto del torrente apparteneva al dipendente del mattatoio, come dimostrarono le fotografie recuperate dagli inquirenti nella USB di Cassioro. Le successive indagini del maresciallo Preposti risalirono a un cospicuo debito che Rubichi aveva contratto con l’assessore: interessi da usura, che non riusciva a pagare.

L’assassino, nel corso degli interrogatori cui venne sottoposto, confessò che c’era stata una ennesima colluttazione fra lui e l’usuraio. Gli aveva strappato l’arma e gli aveva sparato a bruciapelo.

«E le mani? Perché mozzargliele?» gli era stato chiesto.

Lui aveva spiegato: «Sempre stise pe’ pigghiari e pigghiari, pe’ arraffare denari».

Nella hall del Superior, il maresciallo Preposti, in borghese, guardò il professore e guardò Sirio, sprofondati nelle poltrone di fronte a lui.

Poi disse, girando la testa:

«Non hanno capito… vuoi tradurre tu?»

«Ma sì che capirono, il siciliano lingua internazionale è!»

Cassiolo, sfiorando la benda che gli fasciava la fronte, sorrise.

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Emancipazione - Racconto

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