Prologo
Il
terrore le aprì gli occhi.
L’odore fu violento, le
tolse il respiro.
Dubitò di avere gli occhi
aperti, non vedeva.
Avrebbe voluto urlare, non
poteva.
Qualcosa, come una grossa
spina, forse una lunga scheggia di legno, le si era conficcata nel petto, sotto
il seno sinistro – o così le pareva – e faceva molto male. Provò a spostarsi,
ma il dolore aumentò. Dovette rinunciare.
L’uomo le aveva piegato il
braccio, ricordò, il dolore l’aveva fatta svenire. Sì, doveva essere andata in
quel modo: era svenuta. Ma adesso?
Riconobbe l’odore: plastica.
Un sacco nero di plastica.
Riconobbe il tanfo: rifiuti
rancidi!
Le venne un conato di vomito,
ma riuscì a fermarlo in gola. L’urlo che avrebbe voluto lanciare fino alle
stelle rimase strozzato.
Nell’oscurità in cui viveva –
o in cui stava morendo – riconobbe il ronzio di un’automobile di passaggio.
I piedi. Poteva muovere le
gambe, sì, soltanto le gambe, trattenute ma non bloccate dalla plastica nera
del sacco. Scalciò. Sentì lo scossone ripercuotersi contro il cassonetto, sentì
anche un sordo rintocco, flebile, inutile.
La macchina era passata ed
era tornato il silenzio.
Immaginò che fosse notte,
nessuna strada di Bologna era così silenziosa di giorno. Immaginò che il sacco
non fosse stretto e chiuso, perché riusciva a respirare. Poi avvertì il ronzio
di un altro motore e dopo qualche minuto di un altro ancora. Si rese conto che sollevando
in alto gli occhi riusciva a vedere qualcosa.
Il braccio destro doveva
essere fratturato all’altezza del gomito, non riusciva a muoverlo e non gli
faceva male, non più. Era come se non l’avesse.
Il braccio sinistro: provò a
spostarlo. Era bloccato e dolente ma sentiva di averlo. Era piegato sotto di
lei, incastrato fra qualcosa di rigido e tagliente che, mentre cercava di liberarlo,
le lacerava la carne. Forse sollevandosi sarebbe riuscita a tirarlo via. Ci
provò, ma la fitta al petto la fece urlare.
Si impose di respirare
adagio, per recuperare la calma e lasciar passare il dolore.
Piano, si
disse, fai piano.
Inspirò ed espirò. Fece dei
respiri brevi, trattenuti, senza gonfiare il petto, tenendo gli occhi chiusi,
ignorando il braccio inerme che non sapeva dove fosse e l’altro intorpidito
incastrato dietro alla schiena. Si concentrò a pensare che voleva vivere, che
se avesse perso la calma, se si fosse agitata, sarebbe morta. Soltanto la calma
poteva aiutarla a sopravvivere.
Il cuore smise di pulsare
nelle orecchie, si era calmato.
Bene, adesso doveva
ragionare.
Adesso doveva trovare il
modo di liberarsi, di richiamare l’attenzione. Qualsiasi cosa, pur di salvarsi.
Punta
i piedi e sollevati. Un poco, solo un poco, si disse.
Con piccoli spostamenti,
centimetro dopo centimetro, riuscì finalmente a districare il braccio. Subito
lo tese al disopra della testa e allentò l’orlo della busta. Entrò aria, fetida
quanto si vuole ma aria. Da respirare! Ed entrò luce, dei lampioni stradali ma
luce: il colore della vita. Tornò la speranza.
Non che fosse cambiato
molto. Il dolore al petto rimaneva in agguato, ridestandosi al minimo movimento.
Le impediva di muoversi. Non avrebbe potuto liberarsi da sola, ma avrebbe
potuto urlare. Qualcuno si sarebbe pur avvicinato, prima o poi, e l’avrebbe
salvata.
Trascorse del tempo.
Qualche vettura passava
frusciando. Anche qualche camion, col motore che rimbombava. Lo spostamento
d’aria faceva tremare il cassonetto.
Era rimasta immobile a
lungo, respirando adagio, e non avvertiva più le fitte alle costole. Bene,
forse sarebbe riuscita a sospingersi più in alto e portare la testa fuori.
Forse.
Puntò i piedi e fece
pressione.
Urlò.
Lottò per non svenire di
nuovo e rimase immobile, grata a Dio per il fatto di riuscire ancora a respirare.
Rimase immobile e attese.
Trascorse altro tempo,
passarono automobili, camion, qualche scooter.
Lei attese. Attese che
qualcuno arrivasse per restituirle la vita.
Riconobbe il frastuono. Il
camion della raccolta doveva trovarsi a una ventina di metri. Vuotato quel
gruppo di cassonetti, sarebbe venuto da lei. Sentì il motore che andava su di
giri, il ruzzolare delle rotelle sull’asfalto, il colpo secco dei ganci che
afferravano il cassonetto, il soffio degli stantuffi che lo sollevavano, lo
sbatacchiare del portello mentre veniva vuotato, il sibilo della pressa che
comprimeva i rifiuti nel cassone. Ecco, si spostava, veniva verso di lei col
potente motore diesel quasi ansimante. Si era fermato e borbottava, ma lei non riusciva
a vederlo per via del coperchio. Cominciò a urlare. Ignorando il dolore al
petto continuò a gridare. Quel maledetto motore saliva di giri, copriva la sua
voce. La stavano spostando, le ruote sotto di lei traballavano e la sbatacchiavano.
La bocca le si riempì di sangue. La costola aveva perforato il polmone. Avvertì
lo schiocco dei ganci e capì che la stavano sollevando. I pistoni idraulici
stavano per scaricarla tra i rifiuti e la pressa si stava posizionando.
Per un attimo vide il cielo
dell’alba, celeste, trasparente, pulito. Poi il terrore le fermò il cuore e
tutto fu nero.