venerdì 23 ottobre 2020

Il poligono irregolare - Racconto






ANTEPRIMA:


Il poligono irregolare


Giovedì.

«Da queste parti ci abita una che conosco, si chiama Lisa» disse Ric accanto al casco a barchetta di Marc.

Marc diede gas e fece impennare il motorino, così Ric, che stava dietro, dovette abbracciarlo per non cadere.

In verità Marc si chiamava Marco e Ric Enrico. Questa cosa dei nomi americani se l’era inventata qualcuno a inizio anno scolastico e tutti l’avevano ripresa, anche qualche professore progressista come il Tullio; la vecchia Triburzi invece, quella quasi pretendeva che le dessero del lei. Il Tullio era giovane, era al primo anno di insegnamento e li aveva messi al banco assieme, Ric e Marc.

Il motorino tornò sulle due ruote e Marc chiese, girando un po’ la testa: «Ah… e  com’è questa Lisetta?»

Marc era alto e robusto, dimostrava diciott’anni invece dei quindici che aveva. Era alto, robusto e prepotente; il duro della classe, quello che non aveva paura nemmeno del preside e che se non gli andava di entrare se ne rimaneva a fumare appoggiato al muro accanto al portone della scuola sfidando con lo sguardo la Triburzi, e anche il preside, a dirgli qualcosa. Invece Ric non arrivava al metro e mezzo e pesava quarantacinque chili. Ric si era trasferito da Bologna quest’anno e il Tullio, il primo giorno, l’aveva messo al banco con Marc, dal momento che con lui nessuno ci resisteva e stava solo. Invece loro due erano diventati amici e si dividevano le sigarette di tabacco che comprava Ric e gli spinelli che Marc rubava a suo padre. Sniffare non sniffavano, anche se Marc avrebbe potuto attingere dalla scorta di suo padre; non sniffavano perché Marc non voleva diventare come sua madre, che era più il tempo che passava al centro di recupero di quello che stava a casa.

«È bionda… ha dodici anni» rispose Ric. Che intendesse Marc l’aveva capito, ma non gli andava di raccontargli che era magra, piatta e con l’apparecchio per i denti.

«Ah… e i suoi lavorano?»

Ric rispose senza rifletterci: «Sì, tutt’e due». Poi capì il motivo vero della domanda e si pentì di avergliene parlato.

Alle due del pomeriggio, in aprile, Forlì dormicchiava, e per la zona dei villini avevano incontrato solo un paio di ragazze in bicicletta e un vecchio col cane al guinzaglio; dai villini arrivava soltanto il frusciare degli alberi e nessun altro sospiro.

«Be’» disse Marc «se abita qui, almeno è ricca. L’andiamo a trovare?»

Ric non sapeva come uscirne.

«Ma no» disse «oggi non mi va, qualche altra volta semmai…»

«Te la vuoi spassare da solo, eh macho» sghignazzò Marc.

Ric gli fece una risata accanto al casco, voleva essere una risata da macho vero, ma non gli venne troppo bene.

Marc diede gas e Ric dovette affrettarsi ad abbracciarlo.

Il motorino si impennò un’altra volta.



Sirio, alle due del pomeriggio, ritornava a piedi verso casa. Era giovedì, aveva pranzato alla mensa dell’università e pregustava di andarsene in riviera per godersi un pomeriggio da Pasqualone e riflettere sul caso del brevetto trafugato; il quale, così lineare nell’esposizione dell’industriale Matteo Massolombardo, secondo Sirio presentava non secondari e inquietanti risvolti morbosi. Ci rimuginava da lunedì sera, quando erano usciti dalla riunione e Urbani aveva esclamato: «Finalmente un incarico semplice, ce lo risolviamo in una settimana… mi sembrano quasi soldi rubati».

Poi, siccome glielo aveva promesso, intorno alle otto doveva essere di nuovo a Forlì per assistere alla semifinale del torneo di scacchi. Il professor Urbani gareggiava per accaparrarsi il titolo, per il terzo anno consecutivo, e non gli avrebbe perdonato una defezione.

I due adolescenti sul motorino uscirono dalla traversa giusto davanti a lui. Quello alla guida robusto, con la fibbia del casco ciondoloni; l’altro minuto, col naso a punta e gli occhi un po’ sporgenti; entrambi portavano al lobo sinistro un orecchino, identici fra loro, due piccoli rubini sicuramente di valore, sicuramente appartenuti a una donna. Sirio ragionò rapidamente sul ventaglio di implicazioni possibili per cui gli orecchini di una donna fossero finiti al lobo di due adolescenti. Imboccato il viale costeggiato dai villini il motorino si impennò e percorse alcuni metri sulla ruota posteriore, col ragazzo seduto dietro che abbracciava l’altro per non essere sbalzato di sella.

Sirio memorizzò la targa.


Lo stabilimento balneare di Pasqualone a Cesenatico in aprile era chiuso. Ma Pasqualone teneva aperto il chiosco bar tutto l’anno, e a richiesta faceva anche da mangiare. Ci campava.

Sirio ci andava perfino d’inverno, se il tempo era buono e non aveva impegni. Ci si trovava bene e Pasqualone, napoletano verace, era simpatico e metteva buonumore.

Invece quel giovedì tirava vento di tramontana sul litorale di Cesenatico, e Sirio aveva chiesto a Pasqualone di sistemargli la sdraio da spiaggia in un cantuccio del locale da cui, attraverso i vetri della portafinestra, poteva scorgere il mare in burrasca.

Il chiosco era fatto di robusta muratura e all’interno il frastuono dei marosi e il sibilo del vento arrivavano attutiti.

Seduto nella sdraio Sirio aveva ricostruito ogni dettaglio, ogni impressione dell’incontro nell’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo.

Sirio non credeva che la verità sia quella che ci si mostra, anzi, spesso è quella che ci viene nascosta. La verità svelata, che concerneva l’ambito economico, era il furto del brevetto da parte di un’azienda concorrente di un prodotto di proprietà della Massolombardo Farmaceutica. Le verità nascoste, al momento, rivestivano un carattere per così dire… sentimentale. Ma soldi e sesso vanno spesso a braccetto, si sa.

Quanto poi alla verità bell’e pronta del dipendente sorpreso a carpire i segreti aziendali riversandoli su una pennetta USB… be’, troppo lineare, troppo semplice per non meritare una verifica.

Non c’erano altri avventori e Pasqualone, finito di lustrare il ripiano del banco, riempì due bicchieri e venne da Sirio.

«Whiskey, professore, di quello buono; ma ditemi, che vi succede? oggi non siete del vostro solito umore.»

«Segga accanto a me Pasqualone, le vorrei raccontare una storia, della quale, purtroppo, non conosco ancora il finale. Le va di sentirla, o ha da fare?»

«Da fare? No, no, con questo tempo non entrerà nessuno.»

Pasqualone aprì una seconda sdraio accanto a Sirio e riuscì ad incastrarcisi.

«Tutto comincia col furto di una molecola.»

«Una molecola, professo’?»

«Già, un integratore per gli sportivi…»

«E chi l’ha rubato?»

«È quanto dobbiamo scoprire, caro Pasqualone. Ma cominciamo dall’inizio.»



Il lunedì precedente.

La segretaria bionda e perfetta che aveva aperto sovrastava il professore di tutta la testa.

«Puntualissimi» sorrise lanciando un’occhiata all’orologio digitale appeso sopra il tornello per le presenze dei dipendenti, che in quel momento era scattato a segnare le 19:01 di Lun. 12 Apr. «Sono tutti di là. Faccio strada.»

Le mannequin sulla passerella spostano avanti il piede in modo da appoggiarlo su una linea all’interno dell’altro. Dà loro eleganza. E comporta lo spostamento di lato dell’anca, molto seducente; specie se osservato di spalle. Ebbene la segretaria, più sobria, allineava il tacco del piede che spingeva avanti alla punta dell’altro, senza per questo risultare meno seducente o elegante; cosa che Sirio poté apprezzare per il breve tratto del corridoio in cui li precedette.

L’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo era vasto e luminoso. L’ampia finestra affacciava sullo stabilimento e due basse ciminiere dissolvevano nell’aria un filamento di fumo bianco. Al di qua di una scrivania di ultima generazione col piano di cristallo tanto lucido da credere che fosse refrattario alla polvere, sedevano un uomo atletico sui quaranta e una donna molto bella, che si voltarono subito verso la porta, due sorrisi da Beautiful della prima stagione televisiva. L’industriale Massolombardo, doppiopetto gessato, capelli sale e pepe ancora folti pettinati indietro, si alzò dalla scrivania e venne ad abbracciare il professore, suo vecchio compagno di scuola.

La stessa età eppure così diversi.

Il professore, la testa con qualche capello bianco all’intorno appoggiata su un corpo a forma di uovo, presentò Sirio come: «Il mio assistente».

L’industriale appoggiò la mano sulla spalla della bella signora dallo splendido sorriso: «Mia moglie Eleonora, nonché Presidente della Massolombardo Farmaceutica e socio di maggioranza», quindi su quella del quarantenne atletico «e Giorgio Dediscentis, il mio legale, nonché amico».

Tutti presero posto attorno allo scrittoio, il professore al centro, l’avvocato e la bella moglie alla sua sinistra e Sirio a destra, un po’ arretrato, in quanto Assistente; mentre la segretaria bionda, a un cenno d’assenso di Matteo Massolombardo faceva la spola fra un tavolino imbandito e gli ospiti per porgere tazzine di caffè, liquori e pasticcini, impegnata nell’esercizio impossibile di non voltare le spalle a nessuno mentre si chinava. Nel porgere l’ultima tazzina, quella destinata al titolare, si protese verso lo scrittoio nello spazio ristretto fra le sedie di Urbani e Dediscentis. Nessuno avrebbe dovuto vedere, e nessuno avrebbe potuto vedere la mano di Dediscentis infilarsi sotto la gonna e indugiare in una carezza sulle belle gambe, se non Sirio, dalla sua posizione arretrata.

«Cercherò di essere breve» esordì Matteo Massolombardo girando il cucchiaino nel caffè e rivolgendosi al professore «come sai noi produciamo essenzialmente integratori per lo sport. È un mercato inflazionato, per cui è inevitabile scontrarsi con una concorrenza spietata. La soluzione è distinguersi, rinverdire, prendere le distanze dagli altri produttori, soprattutto rinnovare l’offerta. Così, circa un anno fa ho incaricato il nostro settore di ricerca affinché studiasse una nuova miscela energizzante da destinare agli sportivi. Un investimento di ordine economico considerevole, giunto finalmente a maturazione e pronto a ripagarci con risultati concreti.»

La segretaria bionda prese a ritirare tazzine e bicchieri.

Questa volta, per raggiungere Massolombardo, girò attorno allo scrittoio.

Esiste una distanza minima, una specie di aura individuale che viene inconsapevolmente rispettata. Varia in base a motivi legati alla cultura del posto. Negli Stati Uniti è stimata intorno ai centoventi centimetri, in Italia scende a circa sessanta fra gli estranei per arrivare a quaranta fra conoscenti e amici. Il contatto fisico, al difuori delle strette di mano e degli abbracci di saluto è limitato ai familiari o alle persone intime. Nel prendere la tazzina la segretaria bionda appoggiò il seno alla spalla di Massolombardo, e lui non si ritrasse. Forse non se ne rese conto, perché stava dicendo:

«Ebbene, finalmente il nuovo prodotto era pronto; decidemmo di chiamarlo Besmance, avevamo anche lo slogan, The best for your performance, se non che, al momento di depositare la richiesta di brevetto scoprimmo che era stata presentata la settimana precedente un’istanza per la nostra stessa molecola dalla Interium, un’azienda nostra concorrente.»

«Spionaggio industriale» esclamò il professore.

«Bravo» si diede una pacca sul ginocchio Massolombardo «più precisamente furto di informazioni aziendali riservate…»

«Che intendi?» domandò il professore.

«Che non c’è stato spionaggio dall’esterno, la nostra molecola è stata trafugata da qualcuno all’interno. E sappiamo anche chi è.»



Sempre giovedì.

Nel parco comunale che delimitava il quartiere dei villini era vietato introdurre motocicli. Marc, questo era certo, il motorino incustodito non lo lasciava; così si fermarono alla prima panchina, ombreggiata da un pino, in modo da tenerlo d’occhio; sedettero sulla spalliera e appoggiarono i piedi sulla seduta, le guance sui pugni, i gomiti sulle ginocchia. Ogni tanto passava qualcuno in pantaloncini e canotta e correndo faceva scricchiolare la ghiaia, ma per lo più era silenzio, il ronzio del trafficò, al di là della siepe lungo il perimetro, quasi non arrivava. Avevano mangiato un panino fuori dalla bottega del pane e Ric aveva pagato le birre; un paio se l’erano scolate mentre mangiavano e la terza era posata vicino ai piedi fra loro; ogni tanto si chinavano a prenderla e mandavano giù un sorso, a turno. Poi riappoggiavano le guance sui pugni.

Un po’ veniva sonno.

Ric pensava a Lisa, la ragazzina che abitava ai villini. L’aveva conosciuta l’estate precedente al lido, avevano gli ombrelloni vicini e i genitori avevano preso discorso e anche loro due si erano parlati e avevano fatto il bagno assieme. Negli ultimi giorni erano anche usciti, con altri ragazzi che conosceva lei, a prendere il gelato e passeggiare sul lungomare. A Ric un po’ gli piaceva, ma non le aveva detto niente. All’inizio perché gli sembrava presto, poi perché a giorni si sarebbero separati; lui per tornare a Bologna, lei a Forlì. Ric si diceva che si sarebbero potuti sentire, scambiarsi le foto tramite WhatsApp come facevano un po’ tutti… ma quando poi stava con lei rimandava e insomma non gliel’aveva detto.

A settembre la famiglia di Ric si era trasferita a Forlì.

Sua madre, infermiera, aveva finalmente ottenuto il trasferimento e sarebbe potuta stare vicina ai genitori, anziani, che non stavano troppo bene; e suo padre, che era magazziniere, avrebbe pendolato da Forlì a Imola che tanto già pendolava da Bologna e, fatti i conti, ci voleva stesso tempo e stessa spesa.

Così un pomeriggio che Ric stava con la madre fuori dal centro commerciale vicino al Parco della Resistenza avevano incontrato la madre di Lisetta. Come stai? Come mai qui…? Insomma erano finiti a casa sua a prendere il tè. E Ric aveva rivisto Lisa, si erano chiusi nella sua cameretta e lei gli aveva mostrato sul tablet le fotografie dell’estate e gli aveva fatto leggere certe poesie che ogni tanto scriveva lei, perché le piaceva scriverle.

Poi non si erano più rivisti.

Sua madre qualche volta nominava la madre di Lisa e di andarli a trovare, ma suo padre non era  propenso, diceva che non gli pareva il caso, che gli sembravano gente snob, e lui col marito di lei non ci si ritrovava perché non c’erano argomenti in comune.

Così non se n’era fatto niente.

Adesso pensava di potarci andare con Marc, e fantasticava di come sarebbe stato e di che si sarebbero detti… ma poi no, non era una buona idea di andarci con Marc.

Arrivarono due guardie del comune, due donne, con la divisa bianca e il berretto; una era robusta e la divisa le schiacciava il seno, l’altra magra, col naso a becco. Indossavano i guanti di garza bianca. Quella robusta fece di no col dito e Ric capì e si lasciò scivolare fino a sedersi per bene; e subito invidiò Marc, che al solito se n’era fregato, da vero macho.

Le due vigilesse fecero finta di nulla e tirarono dritto chiacchierando fra loro.

Marc gli bussò sulla spalla e gli porse uno spinello. Accese il suo con l’accendino e glielo passò.

«Che dici, ci andiamo dalla tua amichetta del villino?»

Il sapore del fumo era dolce, e gli dava subito alla testa… un passero saltellò sulla ghiaia qualche metro più in là e gli sembrò molto buffo, gli venne da ridere.

«No, no, oggi no. Qualche altro giorno ci andiamo.»

Dovette scivolare in avanti per poter appoggiare la testa alla spalliera. Guardò Marc, che sembrava una torre puntata verso il cielo, stava aspirando con la testa rivolta verso l’alto, teneva dentro il fumo e poi ne soffiava un poco guardando in su.

Ric chiuse gli occhi, perché gli veniva da vomitare, ma non poteva farlo, perché sarebbe stata la fine anche con Marc, così prese aria e tenne gli occhi chiusi, sperando di riprendersi presto. Sentì Marc che diceva:

«E che fanno i genitori della tua amichetta, che vivono ai villini?»

«I ricercatori.»

«E che mestiere è? Ci si guadagna bene?»

«Boh? Una casa farmaceutica, forse inventano medicine.»



Pasqualone vuotò il bicchiere in un sorso.

«Professo’, ma che… la segretaria se l’intende con l’avvocato e pure col principale? Un triangolo insomma.»

«Sembrerebbe… Ma cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate. Erano soltanto impressioni, al momento.»

«Se lo dite voi…!»

Pasqualone si grattò la tempia: «Ma poi, se hanno scoperto il ladro, dal professore amico vostro, che vogliono? Andate avanti professo’, che sta cosa va chiarita».

La segretaria bionda aveva passato una cartella al professore.

«È tutto nel dossier» aveva detto l’industriale Matteo Massolombardo indicando la cartella, quindi aveva teso la mano verso l’avvocato Giorgio Dediscentis, come a dire: Tocca a te.

La segretaria bionda già pronta alle spalle dell’avvocato con un personal computer acceso glielo passò.

«Guardate!»

Dediscentis aveva una voce profonda e carezzevole. Scandiva ogni parola come concentrato affinché avesse la giusta intonazione. Premette il tasto di invio e rivolse lo schermo verso il professor Urbani.

Un uomo dall’ampia stempiatura, in camice da laboratorio, era ripreso dall’alto. A bordo immagine la stampigliatura della data di una diecina di giorni prima e l’orario: 17:58.

«Quest’uomo si chiama Antonio Diroberto, è il tecnico cui era stato affidato l’incarico di realizzare la molecola. Bene, sul suo monitor potete vedere che sta copiando la cartella del Besmance su una pennetta USB.»

Dediscentis zumò in maniera tale che potessero distinguere i dettagli.

«Bene, adesso ponete attenzione alla telefonata che sta per ricevere.»

Sul tavolo del tecnico di laboratorio ronzò un telefono cellulare, invisibile, perché l’uomo col suo corpo lo copriva alla telecamera: «Pronto».

L’uomo ascoltò. Poi disse: «Sto copiando adesso il file».

Ascoltò.

«Va bene, te lo porto subito.»

Dediscentis mise in pausa.

«Come vedete» disse «abbiamo il colpevole.»

«Perché non lo denunciate?» chiese il professor Urbani.

«Non possiamo esibire questa prova. Le leggi sulla privacy ci vietano di effettuare riprese video dei dipendenti durante il lavoro. Ma…»

Era il re dell’oratoria Dediscentis, aveva pensato Sirio, perfino le pause a effetto.

Dediscentis riprese, riavviando la registrazione:

«Come potete notare, il tecnico Antonio Diroberto risponde alla telefonata alle diciotto e zero due, ed estrae la memoria USB alle diciotto e zero quattro. Tutto quello che accade dalle diciotto, termine dell’orario di lavoro, in poi, può essere oggetto di prova a carico. Ma c’è di più…» altra pausa a effetto, prolungata, interminabile «il tecnico Antonio Diroberto, da quel giorno, non si è più presentato al lavoro. È scomparso!»

Il professor Anselmo Urbani si schiarì la voce: «In conclusione cosa vi aspettate che io faccia?»

L’industriale Matteo Massolombardo disse: «Anselmo, la Massalombardo Farm ha investito capitali ingenti in questo progetto. Se non torniamo in possesso della formula e avviamo la produzione si rischia la bancarotta. Questo significa che il ladro, quell’analista, deve essere giudicato colpevole, in modo tale da indurre la Interium a restituire il brevetto.»

«Capisce professore l’importanza della cosa?» si intromise la bella signora Eleonora.

L’avvocato, per non essere da meno, scattò in piedi; sembrava volesse gridare Vostro onore mi oppongo. Brandiva il portatile come Mosè le Tavole della legge.

«Dobbiamo inchiodare quest’uomo! Vogliamo una perizia autorevole e circostanziata da presentare nel momento in cui decideremo di adire le vie legali! Il suo incarico consiste in questo!»

Il piano di cristallo refrattario alla polvere era sostenuto da lucentissime gambe di acciaio: Specchi.

Nessuno avrebbe dovuto vedere, nessuno avrebbe potuto vedere se la gamba più prossima alla signora Eleonora non l’avesse riflessa mentre infilava la mano sotto il cavallo dei calzoni dell’avvocato, in un gesto intimo, orgoglioso e complice.

E Sirio la vide.



Pasqualone si menò una fragorosa pacca sulla coscia.

«Professo’, ma allora la moglie se l’intende coll’avvocato! Un altro triangolo!»

Nella foga scosse il proprio bicchiere, che era vuoto, l’appoggiò e prese quello di Sirio, che era pieno. Lo vuotò d’un sorso. Si puntò entrambi gli indici alle tempie.

«Insomma, se capisco bene. La segretaria se l’intende col principale e l’avvocato. L’avvocato con la moglie del principale e la sua segretaria; il principale… altro che triangoli, questo è un politico irrazionale! No. Com’è che si dice, professo’?»

«Poligono irregolare.»

«Ecco, bravo, quello! E poi c’è la faccenda del furto della molecola.»


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lunedì 12 ottobre 2020

La virgola della Sibilla - Racconto




La virgola della Sibilla

 

 

In alto a sinistra, il simbolo a forma di fiamma e la dicitura “Carabinieri” attestavano l’autenticità del filmato. In basso a destra la data: 23 aprile, l’ora e i minuti (14:05) e lo scorrere dei secondi. La telecamera stava inquadrando il pianerottolo di una rampa di scale e l’esterno della porta blindata di un appartamento. Chi la stava utilizzando la faceva zumare sul pulsante del campanello e la targhetta: “Int. 6 – Antonio Debresci”.

Una voce fuori campo diceva: «È questa casa sua, signor Debresci?»

La telecamera si spostò di scatto su chi aveva parlato e inquadrò un uomo in divisa, con i baffi e le basette brizzolate, con i gradi di maresciallo dei carabinieri. Accanto a lui, un uomo magro sulla trentina con una voglia a forma di fragola sulla tempia, fece un cenno affermativo con la testa: «Sì».

«Ha con sé le chiavi?»

«Sì» ripetette l’uomo giovane.

La telecamera venne puntata sulla mano di Antonio Debresci che estraeva dalla tasca dei pantaloni una chiave di sicurezza. La tenne sospesa, aveva l’impugnatura di plastica azzurra, di quelle intercambiabili.

«Apra» disse il maresciallo.

Antonio Debresci fece ruotare la chiave nel cilindro e spinse l’anta.

Dentro era buio.

«Faccia strada, signor Debresci, e accenda le luci.»

La telecamera era puntata verso l’interno dell’appartamento. Per qualche attimo la nuca e le spalle di Debresci riempirono l’inqua­dratura. Poi Debresci ruotò il busto per arrivare all’interruttore e improvvisa la luce illuminò l’ambente. L’immagine si spostò in una carrellata circolare e inquadrò un uomo seduto su una seggiola da cucina al centro della stanza. Nello specchio alle sue spalle si vedevano i nodi delle funi che lo tenevano aderente alla spalliera, la testa gli ciondolava sul petto. Sulla tovaglia a fiori che ricopriva il piccolo tavolo di fianco a lui era appoggiato qualcosa. Quando l’obbiettivo ingrandì i dettagli, si poté riconoscere una doppietta. Le due canne e la cassa erano state tagliate.

Si avvertì un conato fuori campo.

La telecamera ruotò per inquadrare Antonio Debresci che si piegava in avanti per vomitare, poi, come per un ripensamento, tornò di scatto sull’uomo seduto e zumò.

L’uomo seduto non aveva la faccia.

  

Undici mesi dopo.

 La lettera, consegnatagli nella mattinata del diciotto marzo, era contenuta in una busta inviatagli dai suoi genitori. Padre Salvatore Meraci, giovane prete da poco assegnato alla parrocchia di Santa Lucia in Forlì, si rigirò fra le mani per l’ennesima volta la seconda busta e tornò a leggerne il mittente: “Antonio Debresci, c/o Avv. Giovanni Capurno, via Aspromonte, 14, 90134 Palermo”.

Padre Salvatore aveva conosciuto sui banchi delle scuole medie, a Roma, un Antonio Debresci. Ma era stato una ventina d’anni prima, e da allora si erano persi di vista. Davvero non sapeva spiegarsi come Antonio, oggi, volesse mettersi in contatto con un ex compagno di classe, dopo così tanto tempo.

La lettera, inoltre, scritta a mano, con parole sparse in maiuscolo, era a dir poco demenziale. 

Palermo, 13 marzo.

Caro Salvatore, amico mio, ultima spes, cerca di capirmi, ricordi i pomeriggi a studiare il latino e le lingue morte e sconosciute? Ora sto impazzendo. QUESTA MIA vita È un REBUS. Devo confessarti che sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO.  NON POSSO CHIEDERE PERDONO A DIO PER QUESTO DELITTO. Non ho più altri cui potermi rivolgere… ed ho pensato a te. Vorrei poterti dire di più, se il destino mi aiuterà ti fornirò un altro messaggio. Ma non so se avrò la forza di scriverlo. Ti prego non dimenticarmi.

Il tuo amico… (seguiva una firma illeggibile).

“P.S.1: SIMPATICI ricordi. Morse e fuggi era il nostro motto, ricordi?

“P.S.2: Oggi è il 13… il 13 che si ripete. Codice 13, come dimenticarlo. 

L’indirizzo comunque non lasciava dubbi: era proprio per lui, inviata presso l’abitazione dei suoi genitori a Roma; che evidentemente l’amico Antonio Debresci non aveva dimenticato.

  

Padre Salvatore non sapeva risolversi se gettarla nella spazzatura e non pensarci più oppure… già, oppure che?

Chiese il parere del parroco.

Don Pasquino si rigirò lettera e busta per le mani. Lesse e rilesse.

«So io come fare» disse infine, e richiamò dalla rubrica del cellulare il numero del professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico. Gli spiegò il fatto. 

«Vediamo…!» Disse il professore.

Siccome abitava a due passi, fece la strada a piedi fino alla canonica.

«Mi sembra la lettera di un mentecatto… o di un mitomane. Io non ci darei peso più di tanto, ma, a scanso di qualsiasi scrupolo di coscienza voglio sentire l’opinione di Sirio.»

  

«Chiarissima!» Affermò Sirio.

Sei occhi lo fissavano quasi fosse stato un prestigiatore che annunciava di voler estrarre una tigre dal cilindro. 

«Caro Salvatore amico mio non ha bisogno di commenti mi pare; eravate amici o no?»

«Be’, sì, studiavamo insieme, il pomeriggio, quasi sempre a casa dei miei. Facevamo le scuole medie, lui aveva la passione dei linguaggi più inusuali. Ricordo che aveva studiato i sistemi di crittografia dei codici in uso presso i vari eserciti durante il corso dell’ultima guerra. Aveva una curiosità incredibile… se non comprendeva qualcosa ci si intestardiva fino a venirne a capo. Intelligente, sì, molto intelligente.»

«Bene. Quindi se si rivolge a lei in quanto ultima spes, ultima speranza, possiamo credergli; e prendere sul serio l’invocazione cerca di capirmi! Bene, capirlo, ma come? Ce lo spiega: le lingue morte e… soprattutto, sconosciute! Le parole, ora sto impazzendo, non necessitano di commenti. Ma perché impazzisce? Ce lo dice subito, però prima ci fornisce la “chiave” di lettura per accedere al messaggio: le prime parole scritte in maiuscolo. Proviamo a leggerle a se stanti: Questa mia è un rebus. La lettera, quindi, deve essere interpretata come un arcano il cui vero significato è nascosto. Andiamo avanti: Sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. Perché la virgola dopo uomo, quando la sua posizione naturale sarebbe prima della parola NON che segue?»

Si fermò e rivolse lo sguardo dall’uno all’altro dei tre.

«A questo punto devo raccontarvi una storia, che forse già conoscete ma è utile evocare.»


Il seguito potrai leggerlo sulla raccolta :

"Indagini sulla morte di Betty"

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lunedì 28 settembre 2020

Indagini sulla morte di Betty - Racconto






Indagini sulla morte di Betty

 

 

I faldoni che costituivano il fascicolo relativo alle indagini sulla morte di Betty gravavano minacciosi al centro dello scrittoio come un vulcano attivo su un’isoletta indifesa. Mancava una settimana a ferragosto e il giudice istruttore Corrado Dedubiis voleva andarsene in ferie. Di quei faldoni poteva affermare di conoscere ogni singola pagina.

Due anni prima i sommozzatori dei Vigili del Fuoco, come documentato dalle numerose fotografie inserite del dossier, avevano faticato non poco per estrarre il corpo della donna incastrato fra gli enormi, sconnessi cubi frangi-flutti che contornavano il porticciolo di Piranella, a sud di Cervia. Le ferite rile-vate dal medico patologo erano risultate compatibili sia con l’ipotesi di una caduta accidentale nello spazio fra quei massi sconnessi, ma anche – ed era questo che aveva richiamato l’attenzione dei media e destato raccapriccio nell’opinione pubblica – con la possibilità di un assassinio brutale.

All’epoca era stato avviato d’ufficio un procedimento per omicidio contro ignoti.

Le indagini avevano appurato trattarsi di Elizabet Schiller, quarantotto anni al momento del decesso, nata e domiciliata a Londra, figlia del magnate dell’industria siderurgica Robert Schiller.


La reazione della stampa anglosassone era stata immediata e feroce, la domanda si rincorreva sui network come una lugubre eco: È stata uccisa Elizabet Schiller? E perché?

La vita di Elizabet era stata ricostruita con una lente da microscopio. Affezionata frequentatrice della riviera romagnola, ben sette anni vi era tornata almeno due volte, in estate e durante le festività natalizie, sempre per periodi di due settimane, soggiornando in alberghi, sì lussuosi, ma ogni volta differenti. Negli ultimi tre anni le abitudini erano mutate. Veniva una volta soltanto e si tratteneva per i mesi di agosto e settembre, sempre presso l’hotel Jolie, una palazzina candida situata sul lungomare di Piranella, pressoché dirimpetto al porticciolo turistico.

Nelle fotografie da viva non era stata quel che si dice una bellezza da copertina. Esile, i capelli di un biondo slavato, un po’ curva, quasi dimessa. L’immagine più recente, un cartoncino da fotografo di strada, come attestava il timbro impresso insieme alla data sul retro, la ritraeva nel giorno in cui era arrivata a Piranella. Sullo sfondo il mare rilucente dei riflessi del sole e uno yacht lussuoso.

Immagini queste, tutte inserite nel dossier e in qualche modo rimbalzate da una testata giornalistica all’altra, da un talk show nostrano a quelli di Londra.

Le immagini da morta erano più numerose e custodite a doppia chiave nel fascicolo del giudice istruttore. La riprendevano intrappolata, scomposta, tra i blocchi di cemento; documentavano le operazioni che i sommozzatori aveva-no dovuto eseguire per poterla estrarre; e poi la mostravano distesa sulla strada sterrata al centro del molo, da varie angolazioni; fissavano ferite ed escoriazioni; evidenziavano il tatuaggio di un quadrifoglio sul braccio sinistro che conteneva in ogni petalo una lettera dell’alfabeto: “s-s-l-e”; e ancora il dettaglio della profonda ferita sulla fronte, quella che sicuramente l’aveva uc-cisa, compatibile sia con l’urto contro lo spigolo di uno di quegli infidi blocchi di cemento quanto con il colpo inferto da un corpo contundente.

Le indagini, esperite in sinergia tra la polizia italiana e quella anglosassone, coadiuvate persino dall’Interpol, avevano consentito di risalire, in patria, ad alcune frequentazioni maschili a vario titolo; ma non le si conoscevano relazioni sentimentali in Italia.

Moventi legati a motivi di gelosia o comunque di relazione erano stati accantonati. Inoltre, quando i sommozzatori erano riusciti a districarla dagli scogli, aveva ancora a tracolla una borsetta contenente documenti, gioielli e denaro, il che escludeva altresì il movente della rapina.

Il personale del Jolie, ove la Schiller aveva soggiornato fino al momento della morte, interrogato, si ricordava di lei, ma nessuno era stato in grado di ap-portare il pur minimo contributo alle indagini.

Tutto questo, unitamente ai referti necroscopici – che avevano appurato l’assenza di acqua nei polmoni – e alla documentazione fotografica dei reperti rinvenuti nelle vicinanze – cicche di sigarette, bottiglie di plastica… perfino un risciò sconquassato – tutto questo e altro ancora era contenuto nel corposo dossier appoggiato al centro dello scrittoio del giudice istruttore Corrado Dedubiis, il quale adesso lo fissava con la stessa preoccupazione che avrebbe rivolto a una bomba pronta ad esplodere.


Il professor Anselmo Urbani, docente in Criminologia e Psicologia Criminale presso l’università di Bologna, sede distaccata a Forlì, a sessant’anni conservava sufficiente spirito di autoironia da ammettere che somigliava più a un Poirot della televisione che non a un accademico. Stante le sue specifiche competenze professionali, delle volte riceveva incarichi di consulenza sia da parte del tribunale che dalla polizia investigativa.

A una settimana da ferragosto – il professore già pregustava di andarsene in ferie in qualche posto prossimo al Polo Nord – il giudice Corrado Dedubiis l’aveva convocato nel proprio ufficio presso il tribunale di Forlì.

Dedubiis era un giovane magistrato sulla quarantina dai capelli neri e la barba corta molto curata. A dispetto della calura, che il condizionatore mitigava appena, lo accolse in giacca doppiopetto in lino chiara e cravatta righettata.

«Professore le devo affidare un caso» disse, dopo aver esaurito sbrigativa-mente le formalità circa la reciproca salute «riguarda la morte di Elizabet Schiller, ne avrà sentito parlare.»

Urbani annuì con la testa. I telegiornali, a intervalli di tempo più o meno lunghi, riproponevano i dettagli e i dubbi riguardo la presunta uccisione della turista inglese. Per cui «certo» ne aveva sentito parlare.

«Ebbene» aveva spiegato il magistrato, siccome dopo ben due anni di inda-gini nessun elemento nuovo era intervenuto a convalidare o smentire la tesi dell’omicidio, tenuto conto delle continue pressioni dell’ambasciata d’Inghilterra, considerate le sollecitazioni dei familiari della vittima che invocano la verità e infine, ma non da ultimo, perché preoccupato dall’insistenza dei media, aveva deciso di chiedere il parere finale di un profiler accreditato.

«Professore» aveva concluso «capisco che siamo alla vigilia di ferragosto, ma lei deve fornirmi un parere circostanziato entro due settimane da oggi.»

«Due settimane? Dopo due anni di indagini inconcludenti?»

«Due settimane, non un giorno di più, perché fra due settimane, allo scade-re della mezzanotte, anniversario della morte della Schiller, io rischierò il linciaggio mediatico e la carriera, per cui mi dia la risposta che preferisce… incidente, assassinio, suicidio, intervento alieno o soprannaturale… insomma quello che più le aggrada, ma mi dia una risposta.»

Con gesto plateale il giudice Corrado Dedubiis sospinse verso il professor Anselmo Urbani due anni di inchieste, perizie, fotografie, promemoria, interpellanze, verbali, testimonianze e altro e altro ancora contenuti nel corposo dossier appoggiato al centro della sua scrivania.


Adesso, a una settimana da un ferragosto che si preannunciava rovente, Urbani decise che non valeva la pena di perder tempo a cercare una verità sul-la morte di Betty, considerato che due anni di indagini non avevano saputo trovarla, tanto più che il giudice Dedubiis era pronto ad accettare per buona qualsiasi verità. Decise che faceva troppo caldo per mettersi a lavorare. Decise che la povera Betty era accidentalmente scivolata e precipitata fra i blocchi di cemento. Decise che Sirio sarebbe stato felice di risparmiargli tempo e sudore buttando giù per lui una relazione che comprovasse questa tesi.


Tutto questo decise, il professore. Senza tener conto che se qualcuno prevede, non è poi detto che qualcun altro sia disposto a provvedere.

«La famiglia della vittima» aveva detto Urbani sospingendo l’incartamento in-contro a Sirio «invoca la verità, qualsiasi essa sia. Ma ritengo dovrà prendere atto che si è trattato di un incidente. Non ci sono elementi per affermare il contrario. Ti andrebbe di darmi una mano a buttar giù una relazione in questo senso?»

Sirio aveva chiesto di darci un’occhiata, al fascicolo, e se l’era portato a casa. E adesso, a ventiquattro ore di distanza, nel soggiorno del professore disse:

«Già dagli elementi contenuti nel dossier è lampante come sono andate le cose. Ma a questo punto sono necessari alcuni riscontri sul posto al fine di convalidare le ipotesi.»

Sul posto?

Immediatamente nell'immaginazione del professore si accesero visioni di soli infuocati, di panorami marziani riverberanti calore, di respiri schiacciati da colonne d’afa.

«Ma no… la verità, ne convieni anche tu, è nel dossier. Due righe di relazione, Sirio, la povera Betty, forse un colpo di sole, è precipitata. Tragico incidente. Giudice contento, dolore della famiglia ridimensionato, stampa tacitata…»

«Professore, la conclusione cui è giunto lei non è una verità, ma una resa».

Il professore si risentì: «Che intendi?»

«Che qualsiasi indagine presuppone innanzi tutto una ricognizione sul luogo di ritrovamento della vittima. Me lo ha insegnato lei…!»

Urbani gli rivolse uno sguardo perplesso: «Non crederai davvero di poter trovare un qualche elemento sfuggito a non so quanti esperti della scientifica e investigatori, sia nostrani che anglofoni… E dopo due anni!»

«Suvvia professore, siamo in agosto e un po’ d’aria di mare non può farci che bene!»

Sirio lo stava fissando con quell’espressione da innocente farabutto che gli procurava un certo successo con le matricole del primo anno, ma che il professore trovava irritante. Si pentì di averlo messo a parte del dossier. Avrebbe fatto prima e meglio a scriversi da solo la relazione per Dedubiis nell’ambiente condizionato della propria casa. Invece adesso, come arginare l’esuberante entusiasmo da giovane profiler di Sirio?

«Scriverai la relazione?»

«Certo.»

«Cerchiamo di far presto però…»

«Oh, ci basteranno poche ore. Piccole conferme.»

Il professore sollevò gli occhi al cielo, verso il condizionatore impostato al massimo.

«E sia» si rassegnò «andiamo a Piranella.»


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"Indagini sulla morte di Betty"

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venerdì 18 settembre 2020

I bambini devono ridere - Racconto






Anteprima:

I bambini devono ridere

 

Sirio notò che il modo di camminare era cambiato. Marta era scesa dal SUV metallizzato della Mercedes e veniva verso i tavolini del bar sul marciapiede ingombro di turisti.

Sirio sapeva che al primo contatto il cervello registra automaticamente dei dettagli rilevanti e si concentrò a focalizzarli. L’energia con cui Marta spingeva avanti le gambe, come se camminasse decisa e sicura sopra un asse d’equilibrio, cancellò di colpo il ricordo della ragazza dagli occhi brillanti e i modi festosi che era stata al primo anno di università.

Sirio si alzò per andarle incontro. Nello sguardo, appena si sfilò gli occhiali da sole, sorprese la stessa tristezza che le aveva velato la voce la sera precedente, quando l’aveva chiamato al telefono. Marta gli porse la mano e Sirio la trattenne fra le sue mentre si protendeva per baciarla su entrambe le guance.

«Ciao Marta.»

«Sirio… ciao. Mi osservavi, sono cambiata molto?»

«Sì, in meglio.»

«Anche tu sei cambiato, hai un’aria… efficiente.»

Due lievissime rughe d’espressione a lato della bocca le rattristavano il sorriso.

Sirio le chiese: «È passato un mucchio di tempo… come mi hai trovato?».

«Ho chiesto in facoltà. Così ho anche scoperto che sei diventato un professore… docente in criminologia… E così ce l’hai fatta. D’altro canto chi più di te poteva meritarlo?»

Il loro era stato un amore giovanile, peraltro molto breve. Marta aveva scoperto di non essere tagliata per sondare le menti criminali e aveva cambiato facoltà e città. Si erano persi di vista.

Sirio la guidò sul marciapiede del lungomare fino al tavolino del bar prendendola sottobraccio, l’invitò ad accomodarsi, fece un cenno di richiamo a un cameriere. Intorno a loro Cervia si crogiolava dell’animazione di una domenica assolata di fine giugno, assaggio delle ferie.

Ordinarono degli analcolici.

«Così» disse Sirio «ti sei sposata, hai una figlia e un nuovo marito, mi accennavi al telefono.»

«Troppe cose per una di trentasette anni… vero?»

«Be’, no, sembrerebbe una situazione ideale.»

«Sembrerebbe… sarebbe potuta esserlo… se non ci fosse il sospetto…»

Si bloccò, l’espressione imbarazzata. Sirio la sollecitò:

«Ti va di raccontarmi dall’inizio?».

Marta abbassò gli occhi, prese a giocherellare con le stanghette degli occhiali sul tavolino. Poi si riscosse con un piccolo fremito.

«Ecco, l’inizio.» Adesso sembrava distratta da quelli che passavano sul marciapiede e dalla musica che proveniva dai chioschi di bevande sul lido. «C’è mai un inizio? Si tratta di proporzioni semmai. Da uno stato di felicità si passa all’infelicità cedendo ogni giorno un po’ più di sorrisi a favore di maggiori incertezze e preoccupazioni, e anche dolori… ed è così lento il processo che nemmeno te ne accorgi. Ma hai ragione, ti ho cercato per parlarti di me e chiederti aiuto e dunque da un punto qualsiasi devo incominciare.»

Abbandonò gli occhiali sul tavolo e disse:

«Martina… sì l’ho chiamata col suo stesso nome, piccola Marta… a undici anni, ancora bambina, non rideva più. Io alla sua età ancora ridevo, i bambini devono ridere, non credi anche tu?»

Sirio non rispose e Marta riprese:

«È cambiata all’improvviso quando il mio nuovo marito è venuto a vivere con noi».

«Non capisco… Vi siete sposati senza aver avuto un periodo di convivenza?»

Marta scosse la testa.

«Adesso vedo che tutto è così assurdo… sul momento mi sembrava perfettamente normale. Gianni, quest’uomo che ho sposato, era un mio dipendente… dico era perché adesso mi ha pressoché soppiantata, di fatto è diventato il padrone della mia azienda. Vedi Sirio, dopo aver lasciato Forlì mi iscrissi alla facoltà di medicina, a Milano, in verità senza grandi risultati. Ma ai miei, a Torino, sembrava non importare. I miei erano divorziati e non avevano quasi contatti fra loro; mia madre conviveva con un altro e mio padre pensava unicamente alla sua azienda; e non davano a vedere gliene importasse qualcosa se diventavo un medico o un minatore. A quel tempo frequentavo Sandro, figlio di un imprenditore di Novara, e anche lui non era un gran che come studente. I soldi non ci mancavano e ce la spassavamo… tu sai che intendo.»

Sirio accennò di sì.

«Martina è nata prima o dopo il vostro matrimonio?»

«Dopo, ma era stata concepita prima. Ancora non so spiegarmi come sia accaduto, ma in quel periodo ci facevamo di tutto… uno sballo continuo. Non so, avrò dimenticato di prendere la pillola… comunque è successo. E Sandro, quando gliel’ho detto… la felicità fatta persona… Cominceremo una nuova vitaTi amerò per sempre… Ed era sincero, povero Sandro; subito disintossicazione per me e per lui, subito in chiesa a giurarci fedeltà eterna e reciproco amore fin che morte non ci separi. Quanti buoni propositi, ma poi è sempre il destino che decide per noi.»

Marta fece ondeggiare il bicchiere vuoto.

«Per favore, Sirio, ordinamene un altro.»

Sirio fece un segnale a un cameriere.



Marta sorseggiò dal nuovo drink e accavallò le gambe. Gambe davvero bellissime. Aveva rimesso gli occhiali scuri e spostava la testa, come attratta dal viavai variopinto dei turisti. Appoggiò gli occhiali sul tavolino e prese fra le sue la mano di Sirio.

«Subito dopo il matrimonio con Sandro» disse, lisciandogli distrattamente le dita «prima che Martina nascesse, mio padre è morto. Infarto, fulminante. Era in piedi, assieme ad alcuni dipendenti… mi hanno detto che stava ridendo. È crollato a terra ed era morto.»

«Mi dispiace…»

«No, no» l’interruppe Marta «credo sia stata una bella morte, se mai può essere bella la morte. Se ci pensi… stava bene, era nella sua azienda, che credo sia stata il suo unico amore, addirittura rideva… Nessuna agonia o lunga sofferenza, semplicemente un discendere l’ultimo gradino…»

Marta tornò ad appoggiarsi alla spalliera e scosse di nuovo lentamente la testa.

«Mio padre produceva calzature, scarpe di pregio che esportava perfino in America… Un’azienda piccola ma molto ben condotta. L’indomani del funerale una delegazione di funzionari capitanata da Gianni, quello che sarebbe diventato il mio secondo marito, si è presentata a casa mia. Una mancanza al vertice così improvvisa… ordini da evadere, fornitori che si dovevano pagare… le maestranze allarmate dalla possibilità di perdere il posto di lavoro. Mia madre aveva la sua vita e non ne voleva sapere, così, con la pancia di sette mesi, ho fatto il mio primo  ingresso nell’azienda di mio padre. È stata dura. Un mondo estraneo, sconosciuti che mi consigliavano di vendere questo e comprare quest’altro, roba da decine di migliaia di euro e io che non sapevo se e di chi fidarmi… Poi è nata Martina.»

Marta sorrise, con quell’espressione un po’ amara che le conferivano le due piccole fossette di lato alla bocca; giocherellò qualche istante con le stanghette degli occhiali sul tavolo.

«Sarebbe dovuto essere un momento felice, e forse lo è stato, ma giusto un momento. Con Sandro i rapporti si erano incrinati dopo la morte di mio padre; io tutto il giorno in azienda; e quando rientravo ero stanca; e lui mi accusava di essere scontrosa, e probabilmente aveva anche ragione. Ma la verità è, secondo il mio punto di vista, che anche lui era un figlio di papà allevato nella bambagia com’ero stata io, e adesso non riusciva a crescere, o meglio, non era costretto a crescere, come invece era accaduto a me. Ma basta, per farla breve mi ha mollata e se n’è tornato non so dove a fare la sua vita da studente mantenuto.»

Diede una spinta agli occhiali sul tavolo.

«Scusa, mi sono lasciata andare.»

«Non preoccuparti» le sorrise Sirio «è uno stato d’animo comprensibile. Piuttosto, è mezzogiorno, se hai appetito possiamo spostarci da qualche parte a mangiare qualcosa.»

«Un ristorante? No, no… ti ringrazio, davvero non sono in vena… ma se ti va puoi ordinare due panini da mangiare qui. Preferisco andare avanti a raccontarti la mia storia.»

 

 

La tenda bianca distesa sopra i tavolini del bar a momenti frusciava come una vela. La calura riverberava sull’asfalto dopo il passaggio delle automobili. Qualche tavolo più in là una ragazza rise forte per qualcosa che avevano detto i suoi amici.

«Il mio Sirio» disse Marta dopo aver finito il panino e bevuto un sorso di prosecco «il mio Sirio dal naso sbilenco e la faccia da mascalzone… e col cuore da bambino buono. Te le ricordi le risate che ci facevamo? Che dici, era l’età o eravamo noi?»

«Penso entrambe le cose» sorrise Sirio.

«Eravamo ancora bambini… o almeno io lo ero. Quando si cresce non si ride più.»

Sirio si protese e le strinse la mano. 

«Spiegami questa cosa, Marta. Spiegami perché Martina ha smesso di ridere.»

Marta appoggiò l’altra mano su quella di Sirio e prese ad accarezzargliela soprappensiero:

«L’ho cresciuta da sola, e credo di averle dato un’infanzia felice, malgrado il lavoro, malgrado il tempo che dovevo passare fuori di casa. Ho vissuto per lei, devi credermi. Mai… non dico un uomo, ma uno svago, per sei anni. Poi è successo, e non so nemmeno io spiegarmi come e perché. Gianni si occupava della contabilità. Accadeva rimanessimo in azienda oltre l’orario per discutere qualche problema dell’amministrazione, anche da soli io e lui… e senza che me ne rendessi conto deve essersi insinuato nei miei pensieri e nei miei desideri. Tutto sommato è un bell’uomo… un po’ ingessato… non so se mi spiego, di quelli ogni momento in self-control… Poi una sera è successo. Non chiedermi com’è andata, non saprei risponderti, so che a un certo momento eravamo distesi sul tappeto e lui mi ripeteva di amarmi, di avermi sempre amata e che mi avrebbe amata per sempre. Che dire… all’improvviso ho ritrovato l’allegria, la felicità e la voglia di vivere… e Martina sembrava contenta anche lei e sembrava che Gianni le piacesse. Così, nemmeno un anno, e l’ho sposato.»

«E quando hai notato il mutamento di umore, in Martina?»

«Ecco, questo è il punto» disse Marta «le avevo fatto conoscere Gianni fin da subito… fin da quando il nostro rapporto aveva assunto una sua stabilità, intendo, e lei lo aveva accettato, facevamo delle gite nei fine settimana, io, lei e Gianni, e Gianni passava da noi le serate… e io li vedevo giocare e scherzare assieme. È questo che mi ha tranquillizzata e fatta decidere per il matrimonio. Ma appena Gianni è entrato in casa tutto è cambiato… come ti ho detto.»

Era tornata a distrarsi col viavai della gente e Sirio tornò a stringerle la mano sul tavolino del bar.

«Marta, che cosa mi stai nascondendo?»

«Nulla, ti ho cercato proprio per parlartene… ma non è facile. Una notte mi sono svegliata, forse avevo sete o dovevo andare in bagno… non ha importanza… e Gianni accanto a me non c’era. L’ho sorpreso nello studio davanti al portatile… È stato tutto così rapido… ha abbassato lo schermo e si è voltato a guardarmi, ma rimanendo seduto. Ha accavallato le gambe… Dovevo controllare una cosa sui bilanci, ha detto, mi ha detto di tornarmene a letto che mi avrebbe raggiunta subito…»

«E…?»

«Non ne sono sicura, non sono sicura di niente… è stato tutto così veloce… mi è sembrato ci fossero dei bambini nudi sullo schermo prima che lo abbassasse… e lui era eccitato, ha cercato di nasconderlo incrociando le gambe… ma non sono certa di niente, ripeto.»

«Di sicuro è un sospetto terribile il tuo, di esserti portata in casa un pedofilo avendo una figlia di undici anni. E dov’è Martina adesso?»

«Da mia madre… e Gianni probabilmente in azienda. Adesso capisci in che situazione mi trovo? E c’è dell’altro che debbo dirti.»

 

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