venerdì 2 aprile 2021

Catenaccio - Racconto

 



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Il catenaccio

 

Sirio venne catapultato seduto da un colpo particolarmente violento del cuore, dopo… quanto? Un’ora?

Un’ora e ventidue minuti da che si era messo a letto, gli rivelarono i LED della sveglia sul comò, che in quell’istante passarono a segnare le 2:42 – 01 Apr.

Sirio premette il pulsante di microfono alzato sullo smartphone più in fretta che poté pur di farlo zittire.

«Professore, che succede?»

«Sirio, che soprassalto!»

Già, lui…!

«Sirio sapessi che spavento…»

Una rapina? Una vendetta? Un malore? Pensava Sirio.

Riversò le coperte, pronto a precipitarsi.

Il professore, nella sua carriera di consulente della giustizia, qualche innocente lo aveva scagionato, ma, per contro, diversi balordi li aveva fatti incriminare.

E minacce ne riceveva…!

Inoltre, passati i sessanta… sovrappeso… chi sa, il cuore? Ma anche: mangiava troppo, e beveva di più… Il fegato…? Trepidava Sirio.

«Alla tredicesima…!»

La tredicesima?

Ecco che tutto si spiegava: il professore era impazzito!

«Calma, professore, respiri, mantenga la calma arrivo subito…»

Sirio era in piedi, in mutande e canotta, teso come un corridore dei cento a ostacoli sulla linea di partenza.

«Se tu, alla tredicesima mossa, avessi spostato l’alfiere di casa bianca in c4, mi avresti battuto con un matto imparabile in sette mosse.»

Sirio si ritrovò seduto a bordo del letto a fissare nello specchio, alla luce mesta del lume sul comodino, un’espressione di se stesso che gli era sconosciuta.

«È per questo che mi ha svegliato?»

«Dormivi?»

«Che ore sono, professore?»

«Le due e cinquanta…»

Il sonno era ormai perduto, pensava Sirio – dopo quel rimbombo del cuore! – tanto valeva rimanersene sveglio. E poi, perché no? Perché privarsi di una piccola vendetta nei confronti di chi ne era la causa?

«Sa professore, questa cosa dell’alfiere in c4 mi ricorda una storia che mi ha raccontato tempo addietro una mia amica…»

«Amica?»

Il professore aveva abboccato.

«Sì. Peraltro molto bella, la quale aveva un amante… già, proprio così! Lei si chiamava Annarita e l’amante…»

«Sirio!» trionfante l’interruppe il professore.

«No, no, non io, non a quel tempo, era successo prima. Lei era più matura di me… e, insomma, sì, avevamo una relazione, e lei mi raccontò questa storia in tutta franchezza… sa com’è quando si entra in intimità… Insomma, il marito di Annarita si chiamava Fulvio e l’amante Giorgio. Il suo racconto – ricordo – Annarita l’incominciò con questa esclamazione: Evadere! La stessa parola detta, mi confidò quella volta, al suo amante Giorgio dopo… be’, ha capito. Gli disse, parlando del marito: ”Evadere. È questo che voglio. Adesso se ne è inventata un’altra: vuole mettere le inferriate alle finestre. Ma ti pare? Al quarto piano di un palazzo di otto!?” Ma forse, professore, prima di questo episodio è bene che le racconti di questo Giorgio e delle circostanze che li avevano portati a incontrarsi. Sulle motivazioni di Annarita è presto detto, e con le sue precise parole, che ricordo molto bene: “Giorgio era l’esatto contrario di Catenaccio!”»

«Catenaccio?»

«Già, così, Catenaccio. Nel gergo dell’enigmistica sarebbe un “Falso dispregiativo”, volendo intendere che Annarita non disprezzava affatto il marito, anzi, come scopriremo alla fine di questa storia, ne provava una affettuosa gratitudine… Comunque, a proposito del nomignolo lei vorrà saperne il motivo!? Be’, Annarita me lo spiegò più o meno così: Fulvio, il marito appunto, lavorava in banca, anzi, era il direttore di un’agenzia importante di Bologna, dove entrambi abitavano, e questa sua professione, si era confidata Annarita con l’amante, e in seguito anche con me, gli aveva innescato nel cervello una specie di deformazione: di voler blindare la loro casa tanto quanto era blindata la sua banca.»

«Ah…!» partecipava il professore all’altro capo della linea.

Sirio quasi lo vedeva, con i pochi capelli argentati scarruffati e la barbetta a pizzo, appoggiato ai cuscini contro la spalliera del letto, nella penombra dell’abatjour anni sessanta.  

«Annarita e Fulvio, mi confidò Annarita, si erano sposati tardi: lei quaranta, lui quarantacinque, dopo una frequentazione breve. L’avevano deciso, o almeno per lei era stato questo, più per sfuggire alla solitudine che per amore vero. E la mania di Fulvio… come poteva sospettarla? Dopo il matrimonio, parliamo degli ultimi anni ottanta, quando le banche fornivano buone condizioni di credito ai dipendenti, mi spiegò, decisero di cercare una casa più spaziosa in cui trasferirsi, sempre a Bologna, o nelle vicinanze immediate. Lei desiderava un attico pieno di luce, oppure una villa immersa nel silenzio. Sulle dimensioni Fulvio concordava: grande, grandissima; non così per quanto riguardava l’ubicazione, poiché, le spiegò, sia il piano attico che le ville isolate sono facilmente attaccabili: Furti e, Dio non voglia, intrusioni da Arancia Meccanica. Un piano intermedio sarebbe stato più facile da difendere. “Che controbattere?” mi disse Annarita di aver confidato al suo amante Giorgio.»

«Eh…!» sospirò il professore, di là dal telefono.

O forse era uno sbadiglio?

«Mi segue, professore?»

«Sì, sì, va’ avanti.»

Seguiva!

«Che poteva controbattere Annarita al marito? Va bene, così vuoi e così sia! E un appartamento che si confacesse alle prerogative di entrambi infine lo avevano trovato, vasto, vastissimo: prendeva l’intero quarto piano di un palazzo di otto! “A questo punto” si era sfogata Annarita, dapprima con Giorgio, quindi con me “era incominciata la serie infinita dei Catenacci”. Dapprima Fulvio aveva suggerito di sostituire la porta d’ingresso con un’altra, blindata! munita di doppia serratura di sicurezza e anima d’acciaio, come l’hanno quasi tutti nelle città, per cui Annarita: niente a ridire; poi era stato installato un sistema di allarme con sirena e luce gialla lampeggiante sul balcone e rimando sonoro alla centrale di polizia, che pure utilizzavano in molti, e quindi niente da replicare; dopo ancora la parete confinante col vano delle scale era stata ricostruita in cemento armato, visto che è possibile – le diceva Fulvio – aprire un varco in quelle di mattoni… Insomma, si lamentava Annarita, non passava settimana o mese che Fulvio non partorisse un’idea nuova per blindare, corazzare, rendere impenetrabile la loro casa.»

Di là dal telefono Sirio sentiva silenzio: che si stesse addormentando?

«Professore?»

«Eh? Sì. Dimmi, Sirio, dimmi.»

Sveglio!

Sirio, per precauzione, visto mai si appisolava, alzò appena la voce: «A certo punto, così mi raccontò Annarita, tutto questo voler chiudere e rinserrare le fomentava, forse per ribellione, forse per stanchezza, come una voglia, anzi una necessità di evadere. In altre parole, mi disse, man mano che nella sua casa diventava più difficile entrare, lei sentiva più prepotente il bisogno di uscire, dapprima gli oggetti, poi anche se stessa. Questa… che lei chiamò necessità, si manifestò dapprima col fare regali, distribuendo a piene mani soprammobili e suppellettili, anche di pregio: alle vicine, alla domestica, alla Caritas parrocchiale; poi con spese rilevanti, ma non per quadri, tappeti o altri oggetti da tenere in casa, dove sarebbero andati a far compagnia agli altri che lei sentiva prigionieri, bensì per occasioni di allontanarsi, appunto evadere, dalla sua casa, per frequentare centri benessere, palestre e teatri, oppure ristoranti rinomati, ove offriva cene alle amiche. Fulvio, mi spiegò, non era avaro, e nemmeno geloso, la lasciva fare senza lamentarsi. La sua nuova mania, riteneva Annarita, in certo qual modo equilibrava quella di Fulvio, per cui, per un certo periodo, le cose erano andate avanti così. Poi accadde un evento che interruppe questo equilibrio. Oh, nulla di eccezionale, intendiamoci, forse a lei professore le sembrerà incredibile, ma le cose stanno davvero così, o almeno, per Annarita stavano così: rimase fuori dalla sua casa per aver dimenticato le chiavi all’interno.»

Il professore borbottò qualcosa.

Un preludio del sonno? Già russava?

«Professore?» lo chiamò Sirio.

E il professore: «Già, sì, rimase fuori di casa per aver lasciato le chiavi all’interno.»

Ecco! Adesso era sveglio; e Sirio riprese: «Mi disse Annarita che le cose stavano in questi termini: In una casa normale sarebbe stato un incidente da poco: la gente comune lascia una copia delle chiavi alla portinaia, a un parente, un amico o un vicino, proprio in previsione di simili eventualità; oppure, a mali estremi estremi rimedi, fa intervenire un fabbro che scassini la serratura; o si cala dal balcone del piano di sopra; sfonda il muro, chiama i pompieri… insomma, a mali estremi una soluzione si trova. Già, mi disse che pensava fissando la porta, in una casa normale, non in casa sua, che era stata congegnata per essere impenetrabile, talmente impenetrabile da restare preclusa perfino a lei stessa. E comunque, stando così le cose, non le rimase che bussare ai vicini perché le consentissero di telefonare in banca al marito – a quel tempo i cellulari… cos’erano? – affinché venisse a portarle le chiavi. Fatalità, proprio quel giorno, Fulvio era fuori di Bologna per delle verifiche in una filiale. Dopo svariati tentativi che le risparmio, professore, Annarita riuscì a parlargli: sarebbe tornato immediatamente. Purtroppo, da dove si trovava, non poteva essere a casa prima di un quattro o cinque ore. Le consigliò, visto che era passato mezzogiorno, di recarsi a pranzo in un ristorante lì vicino, dove l’avrebbe raggiunta.»

«Dura ancora molto?» sbadigliò, questa volta senza ritegno il professore.

«No, no, siamo alla fine» si affrettò a rassicurarlo Sirio. Be’, a questo punto voleva arrivare fino in fondo:

«Eccola dunque nel ristorante, la nostra Annarita, possiamo immaginare irritata, seduta da sola ad arrovellarsi per l’incidente, che per quanto banale comunque la indispettiva. E mentre aspetta i piatti si accorge di un tipo, non giovane, con i capelli tagliati lunghi, qualche tavolo più in là, che continua a fissarla, e un po’ mettendola a disagio. Cerca di tenerlo d’occhio senza farsi accorgere, ed ecco che quello solleva il calice del vino e muove le labbra per dire “prosit”, ma senza voce. Ora, mi disse Annarita, lo sguardo, l’espressione, il movimento della bocca che nel pronunciare prosit sembrava un bacio, tutto questo fece sì che invece di sdegnarlo come aveva deciso, gli sorrise… Mi segue, professore?»

«Be’, già me l’immagino com’è andata a finire…!»

«Bravo professore. Nel più classico dei modi…»

Sirio diede un’occhiata ai LED sopra al comò: ancora qualche minuto.

Riprese: «Ma prima di arrivare a questo, per capire Annarita, e anche un po’ giustificarla, le devo riferire le sue precise parole, per quanto preciso possa essere un ricordo. Disse che così, fatalmente, era cominciata la storia con quel “bell’imbusto” di Giorgio. Già, usò questa espressione, ricordo, che oggi non va più… ma che lei, la sua generazione, professore, intende benissimo. Che Giorgio fosse un bell’imbusto lei lo capì fin da subito, lì stesso nel ristorante: portava i capelli come li usavano i giovani di quei tempi, il che, insieme all’abbronzatura fuori stagione e al sorriso spavaldo, la dicevano lunga. E poi testa grande, naso adunco, spalle forti. Indossava una camicia di flanella a scacchi e, sopra, un giubbotto nero di pelle. Spavaldo, dunque, e risoluto, e intraprendente; e ancora, come ben presto poté scoprire frequentandolo, del tutto imprevidente… l’esatto opposto di Fulvio, a farla breve!»

«A farla breve se l’è portato a letto…!» disse la voce risvegliata del professore nel telefonino.

«Be’… sì. Dopo alcuni incontri, come si dice: platonici? Annarita accettò di vedere la casa di Giorgio, con una certa trepidazione o forse attesa o curiosità; e si rivelò esattamente come se l’era aspettata: intanto al piano terreno di un condominio, una porta di ingresso in legno, priva della minima sicurezza e con le finestre, che davano su una strada poco frequentata, spalancate! Ma altri dettagli le indicarono fin da subito la natura di quest’uomo, che non era ancora il suo amante ma lo sarebbe diventato: l’arredamento sobrio ma confortevole; un impianto stereofonico – lei se li ricorda professore!? – sofisticatissimo e altrettanto costoso; un televisore enorme col videoregistratore incorporato – parlo di altri tempi, che lei conosce meglio di me! Insomma l’idea che se ne fece Annarita fu di un uomo che apprezzava il “momento”, così mi disse Annarita; in definitiva, ancora una volta, l’antitesi di Fulvio; il quale invece era sempre teso a costruire, conservare, proteggere. A questo punto, professore, i motivi dell’”evasione” di Annarita con Giorgio ormai sono chiari; e benché il loro rapporto non si basasse sull’amore, con la A maiuscola – Annarita lo riconosceva – comunque si instaurò fra di loro una sorta di complice confidenza.»

«Oh…!» esclamò il professore, con una bella voce soddisfatta e senza traccia di sonno.

«E a questo punto siamo ritornati al momento in cui aveva avuto inizio il racconto di Annarita, nella camera di Giorgio, nel suo letto, dopo l’amore, quando è facile sciogliersi e lasciarsi andare alle confidenze. I suoi sfoghi, mi disse Annarita, Giorgio ormai li conosceva e non sembrava lo disturbassero, rimaneva ad ascoltarla puntellato sul gomito e con la testa appoggiata sulla mano. “Io penso” le disse quella volta “che tu dai troppo peso alla sua mania del Catenaccio… a ogni modo sai che c’è? Mi hai fatto venire voglia di vederla questa tua casa costruita come una cassaforte di banca. “Tu qui da me ci vieni” le disse “e io da te mai!” Ad Annarita la curiosità di Giorgio le sembrò legittima, tanto più che introdurre di soppiatto il suo amante in quella specie di fortificazione che era la sua casa aveva in sé un che di intrigante, di avventuroso. Così accettò, promettendogli che avrebbe organizzato le cose in modo da evitare rientri inaspettati da parte di Fulvio. Be’, professore, il seguito glielo devo raccontare proprio con le parole esatte di Annarita…»

«Certo, certo, dimmi, dimmi…!»

Sirio impostò la voce: «”Eccitati entrambi da quest’idea…” avviarono lì, nel letto di Giorgio, una specie di gara a chi inventava le situazioni erotiche più improbabili: Lei lo avrebbe aspettato nuda nella vasca, o sotto la doccia, o si sarebbe nascosta da qualche parte e lui, arrivando all’improvviso, l’avrebbe scovata! Tanto più la stuzzicava questo gioco, in quanto prevedeva la profanazione da parte di un estraneo della sua casa, la quale era stata strutturata proprio per impedire l’acceso di qualsiasi estraneo. Fu così, mi raccontò Annarita, che mentre Giorgio la baciava predisponendola ad amarsi di nuovo, gli aveva serrato nel pugno le chiavi di casa.»

L’esclamazione spontanea del professore – Sirio l’aveva sentita soltanto in qualche fiction in costume – esprimeva tutta la sua partecipazione: «Ohibò!»

«La sera successiva, di ritorno dal cinema, dov’era stata con le amiche, Annarita trovò la porta di casa spalancata e senza tracce di scasso, il sistema di allarme disinserito dall’interno, e le stanze… completamente vuote! Annarita, dopo il primo istante di smarrimento, cominciò a piangere, di un pianto irrefrenabile. Così la trovò Fulvio, rientrando dalla banca, accasciata in un angolo, sul pavimento nudo, con la testa nascosta fra i gomiti. A lui disse che senza accorgersi aveva smarrito le chiavi. “Non andò sulle furie” mi spiegò Annarita “senza quasi mostrare emozioni disse che pazienza, l’assicurazione avrebbe risarcito, che avrebbero arredato di nuovo la casa come e anche meglio di prima… E poi” le disse ancora Fulvio, già aveva idea di installare un nuovissimo apparato elettronico “il quale avrebbe ovviato in futuro ad analoga eventualità…” Annarita mi disse che seduta sul pavimento, le guance rigate di pianto lo ascoltava, così razionale e lungimirante, ma pure non trovava conforto all’idea che tutte le sue cose, che le erano sembrate rinchiuse e prigioniere, ora fossero fuori, libere… già, come un usignolo scappato dalla gabbia, che, poverino, non sa volare…!»

Cadde il silenzio.

Sirio sentiva – così gli sembrava – le rotelline dentate degli orologi antichi che giravano a piccoli scatti dentro al cervello del professore: Tic tac, tic tac…

«E che c’entra tutta questa storia con l’alfiere di casa bianca in c4 alla tredicesima mossa?»

Sirio lo sapeva, non è corretto rispondere a una domanda con un’altra domanda: «Che ore sono, professore?»

«Le quattro e quattro minuti…» rispose il professore.

Tic tac, tic tac…

Sirio capì che aveva capito quando cadde la comunicazione. Fu come vedere il professore sbattere sull’apparecchio la cornetta grigia del telefono da tavolo grigio che teneva sul comodino.

Sirio rimase con la testa appoggiata alla spalliera del letto, nella penombra e nel silenzio pesante intervenuto a quel tonfo inascoltato. Adesso, un po’, gli rimordeva per lo scherzo che gli aveva tirato, al suo amico professore. Stava per chiamarlo, per scusarsi… Ma poi, domattina, anzi, fra non molto, in facoltà… Be’… come se lo vedesse: Il professore l’avrebbe ignorato, avrebbe scantonato scorgendolo di lontano, gli avrebbe tenuto il broncio… Sì, questo. Sirio sorrise senza volerlo: Be’, nella tarda mattinata, valutò, gli avrebbe offerto un gran bel caffè… ristretto… o un cappuccino… forse… forse, anche… una brioche… con la panna. Certo, questo: con la panna!

Sirio lasciò penzolare la testa: Meglio, molto meglio con la panna…!


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Anteprima:

Confidenze di letto

 

 

 

 

 

 

 

Sirio avrebbe saputo consigliarla.

Il venticinque le passò accanto ed Erika fece una corsetta fino alla fermata; in dieci minuti l’avrebbe scaricata in stazione.

Sirio tutto sembrava fuorché un professore, con quel naso da pugile e l’espressione da farabutto. Avevano avuto una relazione, all’incirca quattro mesi addietro. Breve. Perché quando era tornata dalle vacanze invernali già stava con un’altra. Ma gli stavano dietro un po’ tutte, quindi un po’ se l’aspettava. Niente telefonate, niente messaggi, se si escludeva un laconico “buon Natale!”

Comunque nessuna scenata o broncio. Ne avevano parlato civilmente, seduti al tavolino della mensa, durante la pausa pranzo, e avevano convenuto che sarebbero rimasti buoni amici.

Scese dal venticinque e si affrettò verso l’ingresso della stazione ferroviaria.

Da Bologna a Forlì, un’oretta. Per le nove sarebbe stata in facoltà.

Aveva trovato posto accanto al finestrino.

Il Regionale sferragliava, mentre fuori scorrevano campi e casolari, gli alberi in fioritura.

Erika era al primo anno, stava preparando un esame di psicologia e ne aveva già superati un paio con una buona media. Sirio non era un suo docente, l’aveva conosciuto e cominciato a frequentare semplicemente perché esisteva e non potevi non notarlo e non potevi non rimanere ad ascoltare se ti parlava.

Tutt’altra cosa di Moreno, uno grezzo, con la testa rasata e l’orecchino, che le si era messo dietro in discoteca. Dopo uno spinello e qualche bicchiere di birra se l’era ritrovato nel letto. Faceva l’elettricista, veniva da un paese sperduto della Calabria e passava due ore ogni sera in palestra a sollevare pesi. Aveva la fissazione di diventare ricco!

Tra loro andava avanti senza infamia né lode da circa un mese. Qualche cena a base di pizza, qualche drink pomeridiano e qualche serata in discoteca; nel letto, un po’ frettoloso, ma accettabile.

Però!

Se non ci fossero i però la vita sarebbe come il panorama che scorreva fuori dal finestrino del treno, senza suoni. Case, alberi, persone, animali anonimi e fugaci. Insomma, tremendamente monotona.

Ma il però di Moreno la inquietava.

Ne parlerò a Sirio. Lui saprà cosa è meglio fare. Si ripetette.

 

Imbastito sul manichino, il modello aveva perso il suo fascino.

Sabrina, capelli neri legati a coda, quarantadue anni portati con eleganza, ci girò attorno una seconda volta, mentre la sarta l’osservava con il puntaspilli a mezz’aria.

«Non ti piace?» le chiese la sarta.

«Me l’aspettavo diverso. Forse è il tessuto, forse la fantasia… oppure il colore…»

Le squillò il telefonino e si voltò per rispondere: «Michele?»

«Senti,» rispose suo marito, «non vengo per pranzo, devo vedere il direttore della banca e poi quelli dell’ufficio acquisti di un’azienda che vuole rinnovare il parco macchine…»

«Come mai il direttore di banca?» l’interruppe, «altri problemi?»

«Niente che non posso gestire,» tagliò corto Michele, e chiuse.

Durante la telefonata la sarta era tornata al banco da lavoro e Sabrina la raggiunse.

«Prova a tagliarlo su velluto di cotone e poi chiamami,» le disse, avviandosi verso gli uffici.

Suo marito stava diventando una preoccupazione. Da qualche parte doveva esserci un’emorragia: soldi che uscivano, senza che lei avesse idea di dove finissero. Era già dovuta intervenire per risanare i bilanci del suo autosalone ed evitargli la bancarotta. Quando si erano sposati, cinque anni prima, lei aveva il proprio atelier e lui l’attività di rivendita di automobili d’occasione; ciascuno aveva seguitato a curare i propri affari in maniera indipendente, conservando i vecchi conti bancari; anche quelli personali. Di comune accordo si erano limitati a creare una cassa per le spese del menage familiare. Quindi Sabrina non aveva idea di quanto guadagnasse e di che fine facesse fare ai suoi soldi. Che si permettesse una vita dispendiosa lo vedeva, che potesse avere un’amante – una sanguisuga – non lo escludeva, che non sapesse amministrarsi lo dava ormai per scontato.

I sentimenti avevano poco o niente a che vedere in tutto questo. Entrambi erano gente pratica. Si erano conosciuti e amati – o avevano creduto di amarsi – poi la passione era scivolata nel disinteresse, quindi nell’indifferenza. Ormai andavano avanti per inerzia.

Quante volte succede?

Inerzia! Pensò che era la parola più appropriata.

Non avevano mai nemmeno considerato l’ipotesi di una separazione o del divorzio. Non ce n’era motivo, perché nemmeno litigavano. Poi, un giorno, un paio d’anni prima, le aveva chiesto di aiutarlo a rialzarsi, proprio così aveva detto.  Le aveva raccontato di aver contratto dei debiti con un istituto di credito, ipotecando i locali dell’autosalone, e se non avesse pagato entro la scadenza fissata, avrebbe perso tutto. Chiaramente lei aveva ripianato i suoi ammanchi, ma la cosa si era ripetuta a distanza di un anno e Sabrina era dovuta intervenire di nuovo.

Adesso riconosceva le premesse per una terza richiesta di aiuto.

Era combattuta. Per un verso era ben decisa a non lasciarsi coinvolgere e addirittura, se del caso, a dare un taglio netto al matrimonio, prima di venir trascinata in chi sa quale complicazione. Dall’altro esitava, e se fossero soltanto fantasie? si diceva.

La curiosità di scoprire se i sospetti fossero fondati era più forte del senso pratico, per adesso. Comunque non avrebbe aspettato che gli eventi le precipitassero addosso, un sistema per scoprire come stessero effettivamente le cose lo poteva trovare.

Aveva in animo di far svolgere qualche indagine da un’agenzia investigativa, prima di prendere una decisione definitiva.

 

Erika, sotto la trapunta, si strofinò al corpo nudo di Sirio.

 «Sono una donna,» disse, «che ci vedi di strano se sono curiosa?»

Il braccio dietro la nuca gli formicolava e Sirio lo tolse e si aggiustò meglio sul cuscino addossato alla spalliera, Erika si accomodò alla nuova posizione.

«Insomma,» disse Sirio, «questo tuo Moreno parla nel sonno…»

«Non hai capito,» gli rispose piccata.

«Diciamo che ho capito ma non mi convince.»

«Eppure non è così strano. Lui, dopo aver fatto l’amore, comincia a raccontare. Di solito racconta dell’infanzia, o degli amici, o di qualche altra cosa… e mentre racconta diciamo che va in trance…»

«Ma come in trance… si addormenta, vuoi dire.»

«Uffa Sirio. Uno che si addormenta si mette a russare. Quand’anche parlasse nel sonno direbbe frasi sconclusionate e poi, se lo svegli e gli domandi, lui risponderebbe che sognava e ti racconterebbe il sogno…»

«Allora un dormiveglia.»

«Nemmeno. Perché lui non farfuglia, ha la voce limpida, racconta tutto chiaramente e alla fine, prima di addormentarsi, dice Adesso dormo. Tutto qui! Ma la cosa più importante è il foglietto!»

«Ecco, il foglietto,» Sirio si appoggiò sul gomito, «perché tu sei curiosa e gli hai frugato in tasca e l’hai trovato. Un disegno fatto a mano con su scritto “armadio frigo”, “ufficio”, “atelier”, “4343” e “telecamera”.»

«Be’, ma la confessione resa in trance, più il biglietto fanno una prova.»

Sirio si mise a ridere.

«Ragazzina, hai fatto due esami e già ti senti una criminologa.»

Erika gli mollò un pugno nel fianco: «Ti odio».

«Allora spicciatela da sola,» scherzò Sirio.

«Ma dai. Se sono venuta da te è perché non so cosa fare. Mica posso andare alla polizia, no? E che gli racconto? A dir poco mi prendono per scema.»

Finalmente erano arrivati al punto centrale della questione. Sirio la spronò:

«Allora smettila di girarci attorno e riferiscimi esattamente come stanno le cose».

«Va bene, ti racconto tutto parola per parola. Ieri sera io e Moreno siamo stati a ballare, abbiamo fatto le tre, lui si è fumato di tutto. Quando siamo usciti dal locale parlava a raffica e, appena arriviamo a casa mia, lui mi butta sul divano e… insomma… hai capito,» fece rotolare l’indice a mezz’aria, «comunque, dopo, non la smetteva più di straparlare… Stava con gli occhi chiusi come se dormisse, intanto continuava a… Bla bla bla. E mi fa, Se quello si decide, divento ricco in un’ora. La moglie ha una pellicceria… un mucchio di soldi… in certi momenti le parole non si capivano, ma il senso era chiaro… e continua, Il marito mi passa le chiavi, entro e porto via tutto. Sei strafatto e vaneggi gli dicevo io. E lui, Strafatto, sì… mi si rigira lo stomaco e la testa… ma mica scemo. Allora gli ho domandato, Perché il marito avrebbe scelto proprio te? E lui, Perché sono elettricista. Posso disconnettere gli allarmi e le telecamere… Chi glielo farebbe? Ho cercato di farlo ragionare, Moreno, gli ho detto, lascia perdere, non mi piace… Invece lui s’è arrabbiato, Sei scema, mi fa, con tutti i soldi che mi ha promesso la posso pure ammazzare la sua Sabrina. Poi ha vomitato sul mio divano e stamattina non ricordava più niente. Non so che pensare… Visto mai che lui o il marito uccidono sul serio quella della pellicceria. Tu che ne pensi?»

Sirio non rispose. Rimase assorto qualche istante poi disse:

«Ripensavo alle tue parole, in trance, e ho fatto una associazione d’idee. Senti, tu hai visto il film Salon Kitty di Tinto Brass?»

«Non guardo certi film… io!»

«Be’, è ambientato in un postribolo di Berlino durante l’ultima guerra. Si basa sul presupposto che l’intimità che si instaura durante un rapporto amoroso spinga alla confidenza. Nel film diventa lo strumento per carpire ai gerarchi nazisti i cosiddetti segreti di letto, di smascherare i traditori sulla base di confessioni rilasciate in tutta buona fede.»

«Però non mi hai risposto. Per quanto riguarda Moreno?»

«Diciamo che voglio assicurarmi che non fossero allucinazioni. Poi ci regoleremo di conseguenza.»

 

Sabrina stava ritoccando il figurino di un tailleur e cercava di immaginarlo indosso a una donna reale. La moda si trasforma in continuazione, con flussi e riflussi, come li chiamano gli addetti ai lavori, e lei intendeva proporre un revival anni ‘50 contaminato da fantasie orientalizzanti.

Dal momento che Michele non era rientrato a casa per pranzo, aveva consumato un tramezzino al bar ed era tornata in ufficio. Adesso, intorno alle tre del pomeriggio, le era venuto un po’ di languore allo stomaco. Allungò la mano verso l’interfono per chiedere che le preparassero un caffè, ma squillò prima:

«C’è una chiamata per te. Un uomo. Non ha voluto dire come si chiama».

«Va bene, passamelo.»

«Sabrina?»

Questa voce… Impossibile!

«Sirio?!»

«Bravissima!»

«Ma come hai fatto a trovarmi, dopo tutti questi anni.»

«Almeno dieci.»

«Già. Tu ancora studiavi… quella materia strana. Ti sei poi laureato?»

«Adesso sono io a insegnarla, la materia strana.»

Sabrina lo sentì ridere. La voce non era cambiata di molto, leggermente più greve, forse. Una relazione durata non più di cinque o sei incontri. Fece un rapido calcolo. Se lei adesso andava per i quarantadue, lui doveva averne intorno ai trentatré o trentaquattro. Si erano conosciuti in fila al botteghino di un cinema, a Bologna, una sera che pioveva e lui le sgrondava l’ombrello sulle scarpe. Non che lo stesse facendo di proposito ma, dopo qualche scusa e qualche sorriso se l’era ritrovato nella poltrona accanto e non era più riuscita a scrollarselo di dosso. Nessuna recriminazione. Erano stati bene, il tempo che era durata la loro relazione. Poi era finita, punto e basta. Invece adesso si stava ripetendo la stessa situazione.

«Sabrina, ti devo parlare, ma per telefono è complicato. Dobbiamo incontrarci, pensavo di invitarti a cena.»

«Parlarmi? E di cosa! Vedi che sono sposata.»

«No, non mi fraintendere. È una questione che ti riguarda, molto delicata, dobbiamo incontrarci.»

L’insistenza la stava irritando e glielo disse.

«Il codice di sblocco dell’impianto antifurto da digitare sulla pulsantiera che si trova a destra del portoncino di accesso agli uffici che stanno al piano superiore del tuo atelier è 4343,» le disse tutto d’un fiato.

Subentrò una lunga pausa di silenzio.

«Sirio,» gli chiese, «ma cosa sta succedendo? Che ne sai tu delle mie faccende riservate?»

«In effetti ho solo un quadro d’insieme abbastanza nebuloso. Dai pochi elementi che mi sono stati riferiti, ritengo ci sia qualcuno che vuole farti del male. Ripeto, dobbiamo discuterne a quattr’occhi. Ho bisogno di alcune precisazioni che soltanto tu puoi fornirmi. Dobbiamo incontrarci.»

«Certo… certo. Ti aspetto qui, allora.»

«Parto immediatamente da Forlì e sarò a Bologna entro un’ora. Un’altra cosa, la questione tempo… Non so esattamente quando intendano agire. Potrebbe essere oggi stesso… e siamo impreparati.»

«Hanno in animo di agire… Chi, per fare cosa? Siamo impreparati? Sirio, ma di che parli?»

«Sabrina, ti fidi di me?»

«Devo dire che mi stai terrorizzando. Comunque sì, mi fido.»

«Allora devi procurare delle apparecchiature, nell’ora che impiegherò ad arrivare.»

«Capisco… Anzi, non capisco! Ma sta bene. Invia un elenco al mio indirizzo di posta elettronica.»

Glielo dettò.






mercoledì 31 marzo 2021

Svicolava - Racconto


 
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Svicolava

Sapete quelle giornate di agosto, quando le foglie smettono di frusciare e le cicale di frinire, quando la città si svuota e le strade deserte ti assordano di silenzio e la lancetta delle ore sembra ferma sul mezzogiorno…? Ebbene in uno di questi pomeriggi – a nulla era valso a Sirio di sollecitare il professore a raggiungere la riviera; perché, infine, la sessantenne indolenza del professore l’aveva spuntata – ebbene, in un giorno così si trovavano nell’ombra relativa del patio del professor Anselmo Urbani, in via dei Villini a Forlì; e l’attenzione del professore era assorbita unicamente da elucubrazioni silenziose e immobili se spostare l’alfiere o la torre.

«Le ho mai raccontato, professore, di quel mio amico… ero al primo anno, qui a Forlì, ed io e lui si abitava insieme in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università…?»

Il professore mugugnò qualcosa di indistinto, inseguendo, con l’indice che sorvolava la scacchiera a volo radente, degli spostamenti di Torri e Regine che vedeva soltanto lui. Così Sirio si sentì autorizzato a proseguire:

«Be’, Nicola, questo amico, un napoletano dal cuore enorme come tanti delle sue parti, si era sposato giovane, con Carla, sua coetanea. L’aveva dovuta lasciare a Napoli e venire da solo a Forlì perché… Be’, questo è il succo di tutta la storia e glielo dico dopo… così non le tolgo il gusto…»

Il professore spostò la Torre.

Si conoscevano da anni, e Sirio continuava a dargli del lei. Mentre il professore, fin dal primo momento, gli dava del tu.

«Guarda» disse con l’espressione di un dodicenne che ha smontato l’automobilina e pregusta di rimontarla.

Siro fissò la Torre bianca che, minacciosa, aveva invaso il territorio del proprio schieramento.

Avanzò un Pedone e difese le retrovie.

Il professore bofonchiò e riprese a perscrutare la scacchiera con gli occhi accigliati.

«”Dunque le cose stanno così” mi disse Nicola un bel giorno, dopo un po’ che dividevamo la stanza e avevamo preso confidenza, e mi raccontò che faceva il magazziniere allo Spesafacile, giù a Napoli; sa professore, la catena dei supermercati, e Carla, che sarebbe diventata sua moglie, faceva la cassiera, sempre lì. Stavano bene, m’aveva fatto il gesto dei soldi sfregandosi l’indice col pollice.»

Il professore sollevò l’indice, come quando, in piedi davanti alla cattedra, preannunciava un qualche diktat essenziale della lezione. Invece lo rivolse alla scacchiera e non disse niente: pensava alla Regina e alle Torri… lui.

«Ma la vuol sentire questa storia, professore?»

«Dimmi, dimmi» sventolò in aria le dita il professore senza sollevare la testa.

Sirio soppesò se era il caso.

Ma sì, si disse.

Doveva pur riempire i vuoti fra una mossa e l’altra del professore.

«Allora le racconterò la storia di Nicola con le sue stesse parole, per quanto mi sarà possibile ricordare.»

«Eh? Ah, sì.»

«”Il giorno che Giovanni mi aveva chiesto il prestito… ‘In nome della nostra vecchia amicizia’…” mi disse Nicola scuotendo la testa e mimando la voce dell’amico, con quella intonazione ironica che hanno i napoletani anche quando raccontano storie tristi “non avevo esitato”...»

Il professore portò avanti l’Alfiere di casa nera per minacciare la Regina.

Si appoggiò allo schienale con la faccia che diceva: Eh? Che te ne pare?

Sirio coprì col cavallo la linea di tiro.

Il professore si protese di nuovo a studiare strategie e Sirio chiese: «Le interessa, questa storia?»

«Certo, certo, va’ avanti…»

Sirio nutriva sospetti, ma l’afa di agosto schiacciava anche il silenzio. Riprese, con la voce di Nicola:

«”Ci dissi a Carla che non glieli potevo negare… proprio a Giovanni, quei soldi! Così andai all’ufficio postale e prelevai. Tutto!” mi disse Nicola, sottolineando con un movimento orizzontale del palmo della mano.»

«Ah, ecco…» bofonchiò il professore.

Ma allora sentiva…!

Sirio, rincuorato, riprese, con l’intonazione partenopea di Nicola, quasi lo vedesse, lì, sotto al patio, accanto al tavolo della scacchiera: «”Mi ricordo perfettamente la sera che glieli consegnai quei soldi, a casa mia, che Carla ci aveva preparato, a quel cafone, pure una cena come nemmeno a Natale. Me li strappò quasi di mano. Teneva le lacrime agli occhi: Grazie, grazie… m’abbracciava, abbracciava pure a Carla, l’ipocrita! Ve li ridò, subito ve li ridò!»

Il professore grugnì di soddisfazione e sollevò il Cavallo, quasi si imbizzarrisse. Lo appoggiò tra l’Alfiere e la Torre di Sirio per minacciare l’arrocco.

Sirio spostò il Re fuori portata.

Grugnito scontento del professore che si rimetteva a studiare.

Sirio, forse parlava da solo, riprese; come se parlasse Nicola: «”Passato un anno, che lavoravo e bene o male si andava avanti senza pensieri, il Supermercato mi da il benservito: licenziamento per riduzione del personale. Passa un mese, passano due e Carla mi fa: ‘E Giovanni…? E quei soldi…?’ Che faccio, ce li chiedo? Faccio io, e lei: ‘E certo, e che aspetti?’”»

«Eh… i soldi…!»

Ma allora sentiva.

Sirio si sentì rincuorato e riprese: «Professore, gliela devo raccontare proprio come me l’ha raccontata Nicola, pure la voce e pure i gesti, che rende l’idea. “Ci telefonai” mi disse “squillava e cascava la linea. Tiene il telefono guasto, ci dissi a Carla. ‘Ma quale telefono guasto’ fa lei ‘quello si nega. Vallo a trovare, sento a me!’ Io” mi disse mesto Nicola “tenevo… che so, soggezione. Giovanni era diventato importante, ufficio di rappresentanza, tutto un piano dello stabile, l’impiegati, la segretaria… Così ci provai al telefono dell’ufficio. ‘Pronto?’… la segretaria, voce gentile. C’è Giovanni? Faccio io. ‘Un momento’ fa lei. Sembrava un usignolo. Io aspetto, mi ripasso la musichetta che finisce e riattacca un due o tre volte. ‘Il presidente è in riunione’… la segretaria, cinguettare tutt’attorno ‘riprovi domani’. E l’indomani la stessa storia. ‘Si nega’ ripeteva Carla. E io ‘Ma no… perché pensi così?’. Lei alzava le spalle e immusoniva. ‘Il presidente è fuori di città…’ disse dopo qualche giorno la segretaria. Niente usignoli oramai.  Ma lei… gliel’ha detto che l’ho cercato? E quella: ‘Riprovi fra una settimana!’”»

«Oh…» esclamò il professore.

Sirio immaginò per il racconto, invece il professore avanzò un Pedone.

Sirio mangiò il Pedone del professore con uno dei suoi e il professore si rimise a ragionare.

Nemmeno una cicala, neanche un alito di vento che facesse frusciare le foglie, e neppure una voce lontana, che tutti stavano in riviera: il silenzio di un pomeriggio di agosto sotto un patio in città.

Sirio riprese la voce di Nicola, e anche un po’ le smorfie, i tentennamenti di testa; si sentiva, forse, un po’ attore che prova in un teatro deserto. Ma uno spettatore lo aveva:

«E poi? Questo Nicola?»

«”Insomma” mi dice Nicola, alla fine aveva più paura di Carla, di quello che gli avrebbe rimproverato… perché ci aveva ragione, e lui lo sapeva, che Carla ci aveva ragione; più paura di lei insomma, che di Giovanni. “Così con Carla evitavo di aprire il discorso” mi disse Nicola, e se lo apriva lei, mi disse, lui svicolava. Pensò di chiamarlo a casa, a Giovanni, alla sera, quando di sicuro lo trovava, e lui allora… “che scuse poteva trovare? Ma teneva la segreteria telefonica” mi spiegò “una voce femminile, anche questa cortese: Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico: Bip… Be’, Sirio” mi disse Nicola “lo sai com’è: parli da solo che ti senti un cretino e riattacchi…” Così, di nuovo, tentò al telefono dell’ufficio, magari era vero delle riunioni, magari gli capitava di azzeccare il momento giusto. Invece: ‘È fuori di città…’ la segretaria… ‘rientra la settimana entrante’. Nicola lasciò passare la settimana e si presentò all’ufficio di Giovanni. “Non c’è che dire” mi disse Nicola “aveva messo su un bell’ufficio di lusso Giovanni:  parquet, quadri, computer su tutti i tavoli, signorine spigliate che parlavano ai telefoni. ‘Desidera?’ gli fa una di loro. Voce gentile, sorriso da qua a là. La stessa voce delle telefonate. ‘Sono Nicola, l’amico di Giovanni, ho chiamato tante volte… per piacere, mi ci faccia parlare…’, ‘Il presidente è a Milano, rientra tra una settimana!’ Niente sorriso, ciglia aggrottate, voce che taglia. ‘Che dire?’ dice Nicola che disse. Girò i tacchi e se ne tonò a casa. E non bastavano i pensieri che aveva, perché Carla, sia pure a ragione: ‘Ecco, li vedi gli amici? quando c’è da chiedere ti si buttano al collo… tirano in ballo i bei tempi dell’infanzia… ti abbracciano; e poi, quando si tratta di dare… il tuo, non del loro… svicolano, si fanno negare.’”»

«Già» esclamò il professore, per un momento preso dalla storia; poi tornò a studiare i pezzi sulla scacchiera.

«Ormai non ci credeva più, mi confessò Nicola. Lasciò passare la settimana e anche qualche giorno ancora. E poi, di mattina presto si piazza davanti al portone: ‘prima del primo degli impiegati’. E ci fa mezzogiorno a fare il piantone avanti e indietro. E a mezzogiorno lo vede che scende dalla Porsche, di là dalla strada, guarda per attraversare e quasi, salito sul marciapiede, gli va a sbattere addosso. ‘Ah… Nicola…’ gli fa. E Nicola: ‘Ciao Giovanni…’ E Giovanni: ‘Come mai qui?’. Figuriamoci la faccia di Nicola, professore: ‘Ma come Giovanni? non te l’ha detto la segretaria? Sono settimane che ti cerco’. E figuriamoci la faccia falsa dell’altro: ‘A me? Non ne sapevo niente! Ti pare? Ti avrei richiamato!’ Nicola dice che sembrava stupito davvero, dice. Dice che Giovanni a questo punto lo prende sottobraccio e lo trascina verso un ristorante: ‘Stavo andando a pranzo. Vieni, che ne parliamo a tavola…’ e lo fa sedere… e ordina… aragosta, e un vino da non so quanto a bottiglia, e altri piatti francesi che Nicola nemmeno se li ricorda, e cominciano a mangiare. E intanto Giovanni parla… parla tutto il tempo, di cose interessanti, anche, mentre lui, Nicola, vorrebbe dirgli ciò che gli sta a cuore, ma non sa come infilarsi tra una frase e l’altra, non sa da che parte incominciare. Ma tanto Giovanni non gliene lascia il tempo: Chiude un discorso e ne apre un altro e Nicola rimanda il suo, di discorso, mentre: ‘Ah, i pensieri, Nicola, sapessi… e le preoccupazioni…!’ e gli si mette a racconta certe storie delle sue giornate, degli affari vanno come vanno, che a Nicola, dice Nicola, quasi gli faceva pena… e ancora certe storie di donne che gli racconta… che l’avevano imbrogliato, raggirato, a lui, a Giovanni, con la scusa dei sentimenti. ‘Fortunato te’ gli ripeteva ‘che hai Carla…’ e poi cambiava discorso di continuo, attaccava certi racconti spiritosi che Nicola non se li ricordava più per riferirmeli, ma che a un certo punto, quando il vino aveva cominciato a fare il suo dovere, rifletteva con me Nicola col senno di poi, lo inducevano anche a ridere e in conclusione, a un certo punto si era quasi dimenticato del perché stava lì. “Al dolce, all’improvviso” mi raccontò Nicola cambiando tono “Giovanni guarda il rolex d’oro… ‘La miseria quant’è tardi…’ gli fa. Si alza, gli molla una pacca sulla schiena e si gira dicendo: ‘Ci vediamo presto, telefonami!’»

«Scacco matto!» quasi urlò il professore.

Sirio si appoggiò allo schienale e sorrise. Nessun dramma poteva scuotere l’entusiasmo del professore per il gioco degli scacchi.

Invece: «L’ha inseguito?», mi chiede, adesso che la testa è libera per il mio racconto, rilassandosi a sua volta e allungando le gambe fuori dal tavolo che regge la scacchiera.

«No, no. “Giovanni era già fuori” mi disse Nicola “un siluro”. No, lui, Nicola, superato il primo attimo di sorpresa, vede sul tavolo le banconote lasciate di fretta da Giovanni, un bel po’ di soldi, fra aragosta e tutto; le guarda, si guarda attorno: i camerieri sono lontani e affaccendati, gli altri avventori badano ai fatti propri, allunga la mano e li intasca; quindi si alza e si avvia. Sulla porta, il proprietario del locale, gli sorride: ‘Arrivederci, torni presto…’»

«Ah…» fece il professore «l’occasione rende l’uomo ladro. Finisce così?»

«No, ancora no.»

«Come, allora?»

«Nicola rientrò a casa, e a Carla, che in silenzio, ma bastava guardare l’espressione degli occhi mesti per capire cosa chiedeva, rispose: “Avevamo pensato male. Nicola stava davvero a Milano. È rientrato proprio oggi. Ci siamo incontrati. E mi ha invitato pure a pranzo”.»

Il professore, con la barbetta grigia e la fronte corrucciata da filosofo, faceva di sì con la testa.

«Ho capito. È finita che ha confessato.»

«No, professore no. Mi disse Nicola che alla fine, Carla non si trattenne: “E per i soldi?”, “Nessun problema” le rispose Nicola “guarda, mi ha dato subito un acconto” e le porse i soldi presi dal tavolo nel ristorante.»

«Ed è finita così?»

«Macché.»

Una domenica col professore era sempre uno spasso: Sirio lo lasciò friggere ancora un po’, poi gli disse: «È finita che Nicola l’ha salvato – o meglio gli ha salvato il matrimonio – un suo cugino che aveva un ristorante qui a Forlì. Al tempo in cui mi raccontò questa storia, Nicola alloggiava insieme a me in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università. Faceva da cameriere per suo cugino. A Carla inviava mese mese la paga, che tanto qui spendeva ben poco…»

«Vive ancora a Forlì?»

«No, professore, è rientrato a Napoli. Per qualche tempo ha inviato a Carla anche i soldi delle mance. Glieli spacciava per il recupero del credito che vantava da Giovanni. È rientrato dopo, dopo aver estinto il debito.»

«Ah. Quel Giovanni quindi l’ha fatta franca…!?»

«Succede, qualche volta.»

Sirio distese le gambe fuori dal tavolo che reggeva la scacchiera e incrociò le braccia sul petto.

Il pomeriggio era trascorso, un alito della sera ormai prossima faceva frusciare le foglie; una cicala frinì, come per un ripensamento, o un rimpianto del giorno passato in silenzio. Voci chiassose di bambini, al villino di fronte, scendevano dalla due volumi. Si contendevano qualcosa, forse un giocattolo.

«Presto, a fare la doccia!» gridava la madre «e non fate schiamazzi…!»


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