Svicolava
Sapete quelle giornate di agosto, quando le foglie smettono di frusciare e le cicale di frinire, quando la città si svuota e le strade deserte ti assordano di silenzio e la lancetta delle ore sembra ferma sul mezzogiorno…? Ebbene in uno di questi pomeriggi – a nulla era valso a Sirio di sollecitare il professore a raggiungere la riviera; perché, infine, la sessantenne indolenza del professore l’aveva spuntata – ebbene, in un giorno così si trovavano nell’ombra relativa del patio del professor Anselmo Urbani, in via dei Villini a Forlì; e l’attenzione del professore era assorbita unicamente da elucubrazioni silenziose e immobili se spostare l’alfiere o la torre.
«Le ho mai raccontato, professore, di quel mio amico… ero al primo anno, qui a Forlì, ed io e lui si abitava insieme in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università…?»
Il professore mugugnò qualcosa di indistinto, inseguendo, con l’indice che sorvolava la scacchiera a volo radente, degli spostamenti di Torri e Regine che vedeva soltanto lui. Così Sirio si sentì autorizzato a proseguire:
«Be’, Nicola, questo amico, un napoletano dal cuore enorme come tanti delle sue parti, si era sposato giovane, con Carla, sua coetanea. L’aveva dovuta lasciare a Napoli e venire da solo a Forlì perché… Be’, questo è il succo di tutta la storia e glielo dico dopo… così non le tolgo il gusto…»
Il professore spostò la Torre.
Si conoscevano da anni, e Sirio continuava a dargli del lei. Mentre il professore, fin dal primo momento, gli dava del tu.
«Guarda» disse con l’espressione di un dodicenne che ha smontato l’automobilina e pregusta di rimontarla.
Siro fissò la Torre bianca che, minacciosa, aveva invaso il territorio del proprio schieramento.
Avanzò un Pedone e difese le retrovie.
Il professore bofonchiò e riprese a perscrutare la scacchiera con gli occhi accigliati.
«”Dunque le cose stanno così” mi disse Nicola un bel giorno, dopo un po’ che dividevamo la stanza e avevamo preso confidenza, e mi raccontò che faceva il magazziniere allo Spesafacile, giù a Napoli; sa professore, la catena dei supermercati, e Carla, che sarebbe diventata sua moglie, faceva la cassiera, sempre lì. Stavano bene, m’aveva fatto il gesto dei soldi sfregandosi l’indice col pollice.»
Il professore sollevò l’indice, come quando, in piedi davanti alla cattedra, preannunciava un qualche diktat essenziale della lezione. Invece lo rivolse alla scacchiera e non disse niente: pensava alla Regina e alle Torri… lui.
«Ma la vuol sentire questa storia, professore?»
«Dimmi, dimmi» sventolò in aria le dita il professore senza sollevare la testa.
Sirio soppesò se era il caso.
Ma sì, si disse.
Doveva pur riempire i vuoti fra una mossa e l’altra del professore.
«Allora le racconterò la storia di Nicola con le sue stesse parole, per quanto mi sarà possibile ricordare.»
«Eh? Ah, sì.»
«”Il giorno che Giovanni mi aveva chiesto il prestito… ‘In nome della nostra vecchia amicizia’…” mi disse Nicola scuotendo la testa e mimando la voce dell’amico, con quella intonazione ironica che hanno i napoletani anche quando raccontano storie tristi “non avevo esitato”...»
Il professore portò avanti l’Alfiere di casa nera per minacciare la Regina.
Si appoggiò allo schienale con la faccia che diceva: Eh? Che te ne pare?
Sirio coprì col cavallo la linea di tiro.
Il professore si protese di nuovo a studiare strategie e Sirio chiese: «Le interessa, questa storia?»
«Certo, certo, va’ avanti…»
Sirio nutriva sospetti, ma l’afa di agosto schiacciava anche il silenzio. Riprese, con la voce di Nicola:
«”Ci dissi a Carla che non glieli potevo negare… proprio a Giovanni, quei soldi! Così andai all’ufficio postale e prelevai. Tutto!” mi disse Nicola, sottolineando con un movimento orizzontale del palmo della mano.»
«Ah, ecco…» bofonchiò il professore.
Ma allora sentiva…!
Sirio, rincuorato, riprese, con l’intonazione partenopea di Nicola, quasi lo vedesse, lì, sotto al patio, accanto al tavolo della scacchiera: «”Mi ricordo perfettamente la sera che glieli consegnai quei soldi, a casa mia, che Carla ci aveva preparato, a quel cafone, pure una cena come nemmeno a Natale. Me li strappò quasi di mano. Teneva le lacrime agli occhi: Grazie, grazie… m’abbracciava, abbracciava pure a Carla, l’ipocrita! Ve li ridò, subito ve li ridò!»
Il professore grugnì di soddisfazione e sollevò il Cavallo, quasi si imbizzarrisse. Lo appoggiò tra l’Alfiere e la Torre di Sirio per minacciare l’arrocco.
Sirio spostò il Re fuori portata.
Grugnito scontento del professore che si rimetteva a studiare.
Sirio, forse parlava da solo, riprese; come se parlasse Nicola: «”Passato un anno, che lavoravo e bene o male si andava avanti senza pensieri, il Supermercato mi da il benservito: licenziamento per riduzione del personale. Passa un mese, passano due e Carla mi fa: ‘E Giovanni…? E quei soldi…?’ Che faccio, ce li chiedo? Faccio io, e lei: ‘E certo, e che aspetti?’”»
«Eh… i soldi…!»
Ma allora sentiva.
Sirio si sentì rincuorato e riprese: «Professore, gliela devo raccontare proprio come me l’ha raccontata Nicola, pure la voce e pure i gesti, che rende l’idea. “Ci telefonai” mi disse “squillava e cascava la linea. Tiene il telefono guasto, ci dissi a Carla. ‘Ma quale telefono guasto’ fa lei ‘quello si nega. Vallo a trovare, sento a me!’ Io” mi disse mesto Nicola “tenevo… che so, soggezione. Giovanni era diventato importante, ufficio di rappresentanza, tutto un piano dello stabile, l’impiegati, la segretaria… Così ci provai al telefono dell’ufficio. ‘Pronto?’… la segretaria, voce gentile. C’è Giovanni? Faccio io. ‘Un momento’ fa lei. Sembrava un usignolo. Io aspetto, mi ripasso la musichetta che finisce e riattacca un due o tre volte. ‘Il presidente è in riunione’… la segretaria, cinguettare tutt’attorno ‘riprovi domani’. E l’indomani la stessa storia. ‘Si nega’ ripeteva Carla. E io ‘Ma no… perché pensi così?’. Lei alzava le spalle e immusoniva. ‘Il presidente è fuori di città…’ disse dopo qualche giorno la segretaria. Niente usignoli oramai. Ma lei… gliel’ha detto che l’ho cercato? E quella: ‘Riprovi fra una settimana!’”»
«Oh…» esclamò il professore.
Sirio immaginò per il racconto, invece il professore avanzò un Pedone.
Sirio mangiò il Pedone del professore con uno dei suoi e il professore si rimise a ragionare.
Nemmeno una cicala, neanche un alito di vento che facesse frusciare le foglie, e neppure una voce lontana, che tutti stavano in riviera: il silenzio di un pomeriggio di agosto sotto un patio in città.
Sirio riprese la voce di Nicola, e anche un po’ le smorfie, i tentennamenti di testa; si sentiva, forse, un po’ attore che prova in un teatro deserto. Ma uno spettatore lo aveva:
«E poi? Questo Nicola?»
«”Insomma” mi dice Nicola, alla fine aveva più paura di Carla, di quello che gli avrebbe rimproverato… perché ci aveva ragione, e lui lo sapeva, che Carla ci aveva ragione; più paura di lei insomma, che di Giovanni. “Così con Carla evitavo di aprire il discorso” mi disse Nicola, e se lo apriva lei, mi disse, lui svicolava. Pensò di chiamarlo a casa, a Giovanni, alla sera, quando di sicuro lo trovava, e lui allora… “che scuse poteva trovare? Ma teneva la segreteria telefonica” mi spiegò “una voce femminile, anche questa cortese: Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico: Bip… Be’, Sirio” mi disse Nicola “lo sai com’è: parli da solo che ti senti un cretino e riattacchi…” Così, di nuovo, tentò al telefono dell’ufficio, magari era vero delle riunioni, magari gli capitava di azzeccare il momento giusto. Invece: ‘È fuori di città…’ la segretaria… ‘rientra la settimana entrante’. Nicola lasciò passare la settimana e si presentò all’ufficio di Giovanni. “Non c’è che dire” mi disse Nicola “aveva messo su un bell’ufficio di lusso Giovanni: parquet, quadri, computer su tutti i tavoli, signorine spigliate che parlavano ai telefoni. ‘Desidera?’ gli fa una di loro. Voce gentile, sorriso da qua a là. La stessa voce delle telefonate. ‘Sono Nicola, l’amico di Giovanni, ho chiamato tante volte… per piacere, mi ci faccia parlare…’, ‘Il presidente è a Milano, rientra tra una settimana!’ Niente sorriso, ciglia aggrottate, voce che taglia. ‘Che dire?’ dice Nicola che disse. Girò i tacchi e se ne tonò a casa. E non bastavano i pensieri che aveva, perché Carla, sia pure a ragione: ‘Ecco, li vedi gli amici? quando c’è da chiedere ti si buttano al collo… tirano in ballo i bei tempi dell’infanzia… ti abbracciano; e poi, quando si tratta di dare… il tuo, non del loro… svicolano, si fanno negare.’”»
«Già» esclamò il professore, per un momento preso dalla storia; poi tornò a studiare i pezzi sulla scacchiera.
«Ormai non ci credeva più, mi confessò Nicola. Lasciò passare la settimana e anche qualche giorno ancora. E poi, di mattina presto si piazza davanti al portone: ‘prima del primo degli impiegati’. E ci fa mezzogiorno a fare il piantone avanti e indietro. E a mezzogiorno lo vede che scende dalla Porsche, di là dalla strada, guarda per attraversare e quasi, salito sul marciapiede, gli va a sbattere addosso. ‘Ah… Nicola…’ gli fa. E Nicola: ‘Ciao Giovanni…’ E Giovanni: ‘Come mai qui?’. Figuriamoci la faccia di Nicola, professore: ‘Ma come Giovanni? non te l’ha detto la segretaria? Sono settimane che ti cerco’. E figuriamoci la faccia falsa dell’altro: ‘A me? Non ne sapevo niente! Ti pare? Ti avrei richiamato!’ Nicola dice che sembrava stupito davvero, dice. Dice che Giovanni a questo punto lo prende sottobraccio e lo trascina verso un ristorante: ‘Stavo andando a pranzo. Vieni, che ne parliamo a tavola…’ e lo fa sedere… e ordina… aragosta, e un vino da non so quanto a bottiglia, e altri piatti francesi che Nicola nemmeno se li ricorda, e cominciano a mangiare. E intanto Giovanni parla… parla tutto il tempo, di cose interessanti, anche, mentre lui, Nicola, vorrebbe dirgli ciò che gli sta a cuore, ma non sa come infilarsi tra una frase e l’altra, non sa da che parte incominciare. Ma tanto Giovanni non gliene lascia il tempo: Chiude un discorso e ne apre un altro e Nicola rimanda il suo, di discorso, mentre: ‘Ah, i pensieri, Nicola, sapessi… e le preoccupazioni…!’ e gli si mette a racconta certe storie delle sue giornate, degli affari vanno come vanno, che a Nicola, dice Nicola, quasi gli faceva pena… e ancora certe storie di donne che gli racconta… che l’avevano imbrogliato, raggirato, a lui, a Giovanni, con la scusa dei sentimenti. ‘Fortunato te’ gli ripeteva ‘che hai Carla…’ e poi cambiava discorso di continuo, attaccava certi racconti spiritosi che Nicola non se li ricordava più per riferirmeli, ma che a un certo punto, quando il vino aveva cominciato a fare il suo dovere, rifletteva con me Nicola col senno di poi, lo inducevano anche a ridere e in conclusione, a un certo punto si era quasi dimenticato del perché stava lì. “Al dolce, all’improvviso” mi raccontò Nicola cambiando tono “Giovanni guarda il rolex d’oro… ‘La miseria quant’è tardi…’ gli fa. Si alza, gli molla una pacca sulla schiena e si gira dicendo: ‘Ci vediamo presto, telefonami!’»
«Scacco matto!» quasi urlò il professore.
Sirio si appoggiò allo schienale e sorrise. Nessun dramma poteva scuotere l’entusiasmo del professore per il gioco degli scacchi.
Invece: «L’ha inseguito?», mi chiede, adesso che la testa è libera per il mio racconto, rilassandosi a sua volta e allungando le gambe fuori dal tavolo che regge la scacchiera.
«No, no. “Giovanni era già fuori” mi disse Nicola “un siluro”. No, lui, Nicola, superato il primo attimo di sorpresa, vede sul tavolo le banconote lasciate di fretta da Giovanni, un bel po’ di soldi, fra aragosta e tutto; le guarda, si guarda attorno: i camerieri sono lontani e affaccendati, gli altri avventori badano ai fatti propri, allunga la mano e li intasca; quindi si alza e si avvia. Sulla porta, il proprietario del locale, gli sorride: ‘Arrivederci, torni presto…’»
«Ah…» fece il professore «l’occasione rende l’uomo ladro. Finisce così?»
«No, ancora no.»
«Come, allora?»
«Nicola rientrò a casa, e a Carla, che in silenzio, ma bastava guardare l’espressione degli occhi mesti per capire cosa chiedeva, rispose: “Avevamo pensato male. Nicola stava davvero a Milano. È rientrato proprio oggi. Ci siamo incontrati. E mi ha invitato pure a pranzo”.»
Il professore, con la barbetta grigia e la fronte corrucciata da filosofo, faceva di sì con la testa.
«Ho capito. È finita che ha confessato.»
«No, professore no. Mi disse Nicola che alla fine, Carla non si trattenne: “E per i soldi?”, “Nessun problema” le rispose Nicola “guarda, mi ha dato subito un acconto” e le porse i soldi presi dal tavolo nel ristorante.»
«Ed è finita così?»
«Macché.»
Una domenica col professore era sempre uno spasso: Sirio lo lasciò friggere ancora un po’, poi gli disse: «È finita che Nicola l’ha salvato – o meglio gli ha salvato il matrimonio – un suo cugino che aveva un ristorante qui a Forlì. Al tempo in cui mi raccontò questa storia, Nicola alloggiava insieme a me in una camera affittataci da un certo Mario Grandi, giusto alle spalle dell’università. Faceva da cameriere per suo cugino. A Carla inviava mese mese la paga, che tanto qui spendeva ben poco…»
«Vive ancora a Forlì?»
«No, professore, è rientrato a Napoli. Per qualche tempo ha inviato a Carla anche i soldi delle mance. Glieli spacciava per il recupero del credito che vantava da Giovanni. È rientrato dopo, dopo aver estinto il debito.»
«Ah. Quel Giovanni quindi l’ha fatta franca…!?»
«Succede, qualche volta.»
Sirio distese le gambe fuori dal tavolo che reggeva la scacchiera e incrociò le braccia sul petto.
Il pomeriggio era trascorso, un alito della sera ormai prossima faceva frusciare le foglie; una cicala frinì, come per un ripensamento, o un rimpianto del giorno passato in silenzio. Voci chiassose di bambini, al villino di fronte, scendevano dalla due volumi. Si contendevano qualcosa, forse un giocattolo.
«Presto, a fare la doccia!» gridava la madre «e non fate schiamazzi…!»
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