lunedì 28 settembre 2020

Indagini sulla morte di Betty - Racconto






Indagini sulla morte di Betty

 

 

I faldoni che costituivano il fascicolo relativo alle indagini sulla morte di Betty gravavano minacciosi al centro dello scrittoio come un vulcano attivo su un’isoletta indifesa. Mancava una settimana a ferragosto e il giudice istruttore Corrado Dedubiis voleva andarsene in ferie. Di quei faldoni poteva affermare di conoscere ogni singola pagina.

Due anni prima i sommozzatori dei Vigili del Fuoco, come documentato dalle numerose fotografie inserite del dossier, avevano faticato non poco per estrarre il corpo della donna incastrato fra gli enormi, sconnessi cubi frangi-flutti che contornavano il porticciolo di Piranella, a sud di Cervia. Le ferite rile-vate dal medico patologo erano risultate compatibili sia con l’ipotesi di una caduta accidentale nello spazio fra quei massi sconnessi, ma anche – ed era questo che aveva richiamato l’attenzione dei media e destato raccapriccio nell’opinione pubblica – con la possibilità di un assassinio brutale.

All’epoca era stato avviato d’ufficio un procedimento per omicidio contro ignoti.

Le indagini avevano appurato trattarsi di Elizabet Schiller, quarantotto anni al momento del decesso, nata e domiciliata a Londra, figlia del magnate dell’industria siderurgica Robert Schiller.


La reazione della stampa anglosassone era stata immediata e feroce, la domanda si rincorreva sui network come una lugubre eco: È stata uccisa Elizabet Schiller? E perché?

La vita di Elizabet era stata ricostruita con una lente da microscopio. Affezionata frequentatrice della riviera romagnola, ben sette anni vi era tornata almeno due volte, in estate e durante le festività natalizie, sempre per periodi di due settimane, soggiornando in alberghi, sì lussuosi, ma ogni volta differenti. Negli ultimi tre anni le abitudini erano mutate. Veniva una volta soltanto e si tratteneva per i mesi di agosto e settembre, sempre presso l’hotel Jolie, una palazzina candida situata sul lungomare di Piranella, pressoché dirimpetto al porticciolo turistico.

Nelle fotografie da viva non era stata quel che si dice una bellezza da copertina. Esile, i capelli di un biondo slavato, un po’ curva, quasi dimessa. L’immagine più recente, un cartoncino da fotografo di strada, come attestava il timbro impresso insieme alla data sul retro, la ritraeva nel giorno in cui era arrivata a Piranella. Sullo sfondo il mare rilucente dei riflessi del sole e uno yacht lussuoso.

Immagini queste, tutte inserite nel dossier e in qualche modo rimbalzate da una testata giornalistica all’altra, da un talk show nostrano a quelli di Londra.

Le immagini da morta erano più numerose e custodite a doppia chiave nel fascicolo del giudice istruttore. La riprendevano intrappolata, scomposta, tra i blocchi di cemento; documentavano le operazioni che i sommozzatori aveva-no dovuto eseguire per poterla estrarre; e poi la mostravano distesa sulla strada sterrata al centro del molo, da varie angolazioni; fissavano ferite ed escoriazioni; evidenziavano il tatuaggio di un quadrifoglio sul braccio sinistro che conteneva in ogni petalo una lettera dell’alfabeto: “s-s-l-e”; e ancora il dettaglio della profonda ferita sulla fronte, quella che sicuramente l’aveva uc-cisa, compatibile sia con l’urto contro lo spigolo di uno di quegli infidi blocchi di cemento quanto con il colpo inferto da un corpo contundente.

Le indagini, esperite in sinergia tra la polizia italiana e quella anglosassone, coadiuvate persino dall’Interpol, avevano consentito di risalire, in patria, ad alcune frequentazioni maschili a vario titolo; ma non le si conoscevano relazioni sentimentali in Italia.

Moventi legati a motivi di gelosia o comunque di relazione erano stati accantonati. Inoltre, quando i sommozzatori erano riusciti a districarla dagli scogli, aveva ancora a tracolla una borsetta contenente documenti, gioielli e denaro, il che escludeva altresì il movente della rapina.

Il personale del Jolie, ove la Schiller aveva soggiornato fino al momento della morte, interrogato, si ricordava di lei, ma nessuno era stato in grado di ap-portare il pur minimo contributo alle indagini.

Tutto questo, unitamente ai referti necroscopici – che avevano appurato l’assenza di acqua nei polmoni – e alla documentazione fotografica dei reperti rinvenuti nelle vicinanze – cicche di sigarette, bottiglie di plastica… perfino un risciò sconquassato – tutto questo e altro ancora era contenuto nel corposo dossier appoggiato al centro dello scrittoio del giudice istruttore Corrado Dedubiis, il quale adesso lo fissava con la stessa preoccupazione che avrebbe rivolto a una bomba pronta ad esplodere.


Il professor Anselmo Urbani, docente in Criminologia e Psicologia Criminale presso l’università di Bologna, sede distaccata a Forlì, a sessant’anni conservava sufficiente spirito di autoironia da ammettere che somigliava più a un Poirot della televisione che non a un accademico. Stante le sue specifiche competenze professionali, delle volte riceveva incarichi di consulenza sia da parte del tribunale che dalla polizia investigativa.

A una settimana da ferragosto – il professore già pregustava di andarsene in ferie in qualche posto prossimo al Polo Nord – il giudice Corrado Dedubiis l’aveva convocato nel proprio ufficio presso il tribunale di Forlì.

Dedubiis era un giovane magistrato sulla quarantina dai capelli neri e la barba corta molto curata. A dispetto della calura, che il condizionatore mitigava appena, lo accolse in giacca doppiopetto in lino chiara e cravatta righettata.

«Professore le devo affidare un caso» disse, dopo aver esaurito sbrigativa-mente le formalità circa la reciproca salute «riguarda la morte di Elizabet Schiller, ne avrà sentito parlare.»

Urbani annuì con la testa. I telegiornali, a intervalli di tempo più o meno lunghi, riproponevano i dettagli e i dubbi riguardo la presunta uccisione della turista inglese. Per cui «certo» ne aveva sentito parlare.

«Ebbene» aveva spiegato il magistrato, siccome dopo ben due anni di inda-gini nessun elemento nuovo era intervenuto a convalidare o smentire la tesi dell’omicidio, tenuto conto delle continue pressioni dell’ambasciata d’Inghilterra, considerate le sollecitazioni dei familiari della vittima che invocano la verità e infine, ma non da ultimo, perché preoccupato dall’insistenza dei media, aveva deciso di chiedere il parere finale di un profiler accreditato.

«Professore» aveva concluso «capisco che siamo alla vigilia di ferragosto, ma lei deve fornirmi un parere circostanziato entro due settimane da oggi.»

«Due settimane? Dopo due anni di indagini inconcludenti?»

«Due settimane, non un giorno di più, perché fra due settimane, allo scade-re della mezzanotte, anniversario della morte della Schiller, io rischierò il linciaggio mediatico e la carriera, per cui mi dia la risposta che preferisce… incidente, assassinio, suicidio, intervento alieno o soprannaturale… insomma quello che più le aggrada, ma mi dia una risposta.»

Con gesto plateale il giudice Corrado Dedubiis sospinse verso il professor Anselmo Urbani due anni di inchieste, perizie, fotografie, promemoria, interpellanze, verbali, testimonianze e altro e altro ancora contenuti nel corposo dossier appoggiato al centro della sua scrivania.


Adesso, a una settimana da un ferragosto che si preannunciava rovente, Urbani decise che non valeva la pena di perder tempo a cercare una verità sul-la morte di Betty, considerato che due anni di indagini non avevano saputo trovarla, tanto più che il giudice Dedubiis era pronto ad accettare per buona qualsiasi verità. Decise che faceva troppo caldo per mettersi a lavorare. Decise che la povera Betty era accidentalmente scivolata e precipitata fra i blocchi di cemento. Decise che Sirio sarebbe stato felice di risparmiargli tempo e sudore buttando giù per lui una relazione che comprovasse questa tesi.


Tutto questo decise, il professore. Senza tener conto che se qualcuno prevede, non è poi detto che qualcun altro sia disposto a provvedere.

«La famiglia della vittima» aveva detto Urbani sospingendo l’incartamento in-contro a Sirio «invoca la verità, qualsiasi essa sia. Ma ritengo dovrà prendere atto che si è trattato di un incidente. Non ci sono elementi per affermare il contrario. Ti andrebbe di darmi una mano a buttar giù una relazione in questo senso?»

Sirio aveva chiesto di darci un’occhiata, al fascicolo, e se l’era portato a casa. E adesso, a ventiquattro ore di distanza, nel soggiorno del professore disse:

«Già dagli elementi contenuti nel dossier è lampante come sono andate le cose. Ma a questo punto sono necessari alcuni riscontri sul posto al fine di convalidare le ipotesi.»

Sul posto?

Immediatamente nell'immaginazione del professore si accesero visioni di soli infuocati, di panorami marziani riverberanti calore, di respiri schiacciati da colonne d’afa.

«Ma no… la verità, ne convieni anche tu, è nel dossier. Due righe di relazione, Sirio, la povera Betty, forse un colpo di sole, è precipitata. Tragico incidente. Giudice contento, dolore della famiglia ridimensionato, stampa tacitata…»

«Professore, la conclusione cui è giunto lei non è una verità, ma una resa».

Il professore si risentì: «Che intendi?»

«Che qualsiasi indagine presuppone innanzi tutto una ricognizione sul luogo di ritrovamento della vittima. Me lo ha insegnato lei…!»

Urbani gli rivolse uno sguardo perplesso: «Non crederai davvero di poter trovare un qualche elemento sfuggito a non so quanti esperti della scientifica e investigatori, sia nostrani che anglofoni… E dopo due anni!»

«Suvvia professore, siamo in agosto e un po’ d’aria di mare non può farci che bene!»

Sirio lo stava fissando con quell’espressione da innocente farabutto che gli procurava un certo successo con le matricole del primo anno, ma che il professore trovava irritante. Si pentì di averlo messo a parte del dossier. Avrebbe fatto prima e meglio a scriversi da solo la relazione per Dedubiis nell’ambiente condizionato della propria casa. Invece adesso, come arginare l’esuberante entusiasmo da giovane profiler di Sirio?

«Scriverai la relazione?»

«Certo.»

«Cerchiamo di far presto però…»

«Oh, ci basteranno poche ore. Piccole conferme.»

Il professore sollevò gli occhi al cielo, verso il condizionatore impostato al massimo.

«E sia» si rassegnò «andiamo a Piranella.»


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venerdì 18 settembre 2020

I bambini devono ridere - Racconto






Anteprima:

I bambini devono ridere

 

Sirio notò che il modo di camminare era cambiato. Marta era scesa dal SUV metallizzato della Mercedes e veniva verso i tavolini del bar sul marciapiede ingombro di turisti.

Sirio sapeva che al primo contatto il cervello registra automaticamente dei dettagli rilevanti e si concentrò a focalizzarli. L’energia con cui Marta spingeva avanti le gambe, come se camminasse decisa e sicura sopra un asse d’equilibrio, cancellò di colpo il ricordo della ragazza dagli occhi brillanti e i modi festosi che era stata al primo anno di università.

Sirio si alzò per andarle incontro. Nello sguardo, appena si sfilò gli occhiali da sole, sorprese la stessa tristezza che le aveva velato la voce la sera precedente, quando l’aveva chiamato al telefono. Marta gli porse la mano e Sirio la trattenne fra le sue mentre si protendeva per baciarla su entrambe le guance.

«Ciao Marta.»

«Sirio… ciao. Mi osservavi, sono cambiata molto?»

«Sì, in meglio.»

«Anche tu sei cambiato, hai un’aria… efficiente.»

Due lievissime rughe d’espressione a lato della bocca le rattristavano il sorriso.

Sirio le chiese: «È passato un mucchio di tempo… come mi hai trovato?».

«Ho chiesto in facoltà. Così ho anche scoperto che sei diventato un professore… docente in criminologia… E così ce l’hai fatta. D’altro canto chi più di te poteva meritarlo?»

Il loro era stato un amore giovanile, peraltro molto breve. Marta aveva scoperto di non essere tagliata per sondare le menti criminali e aveva cambiato facoltà e città. Si erano persi di vista.

Sirio la guidò sul marciapiede del lungomare fino al tavolino del bar prendendola sottobraccio, l’invitò ad accomodarsi, fece un cenno di richiamo a un cameriere. Intorno a loro Cervia si crogiolava dell’animazione di una domenica assolata di fine giugno, assaggio delle ferie.

Ordinarono degli analcolici.

«Così» disse Sirio «ti sei sposata, hai una figlia e un nuovo marito, mi accennavi al telefono.»

«Troppe cose per una di trentasette anni… vero?»

«Be’, no, sembrerebbe una situazione ideale.»

«Sembrerebbe… sarebbe potuta esserlo… se non ci fosse il sospetto…»

Si bloccò, l’espressione imbarazzata. Sirio la sollecitò:

«Ti va di raccontarmi dall’inizio?».

Marta abbassò gli occhi, prese a giocherellare con le stanghette degli occhiali sul tavolino. Poi si riscosse con un piccolo fremito.

«Ecco, l’inizio.» Adesso sembrava distratta da quelli che passavano sul marciapiede e dalla musica che proveniva dai chioschi di bevande sul lido. «C’è mai un inizio? Si tratta di proporzioni semmai. Da uno stato di felicità si passa all’infelicità cedendo ogni giorno un po’ più di sorrisi a favore di maggiori incertezze e preoccupazioni, e anche dolori… ed è così lento il processo che nemmeno te ne accorgi. Ma hai ragione, ti ho cercato per parlarti di me e chiederti aiuto e dunque da un punto qualsiasi devo incominciare.»

Abbandonò gli occhiali sul tavolo e disse:

«Martina… sì l’ho chiamata col suo stesso nome, piccola Marta… a undici anni, ancora bambina, non rideva più. Io alla sua età ancora ridevo, i bambini devono ridere, non credi anche tu?»

Sirio non rispose e Marta riprese:

«È cambiata all’improvviso quando il mio nuovo marito è venuto a vivere con noi».

«Non capisco… Vi siete sposati senza aver avuto un periodo di convivenza?»

Marta scosse la testa.

«Adesso vedo che tutto è così assurdo… sul momento mi sembrava perfettamente normale. Gianni, quest’uomo che ho sposato, era un mio dipendente… dico era perché adesso mi ha pressoché soppiantata, di fatto è diventato il padrone della mia azienda. Vedi Sirio, dopo aver lasciato Forlì mi iscrissi alla facoltà di medicina, a Milano, in verità senza grandi risultati. Ma ai miei, a Torino, sembrava non importare. I miei erano divorziati e non avevano quasi contatti fra loro; mia madre conviveva con un altro e mio padre pensava unicamente alla sua azienda; e non davano a vedere gliene importasse qualcosa se diventavo un medico o un minatore. A quel tempo frequentavo Sandro, figlio di un imprenditore di Novara, e anche lui non era un gran che come studente. I soldi non ci mancavano e ce la spassavamo… tu sai che intendo.»

Sirio accennò di sì.

«Martina è nata prima o dopo il vostro matrimonio?»

«Dopo, ma era stata concepita prima. Ancora non so spiegarmi come sia accaduto, ma in quel periodo ci facevamo di tutto… uno sballo continuo. Non so, avrò dimenticato di prendere la pillola… comunque è successo. E Sandro, quando gliel’ho detto… la felicità fatta persona… Cominceremo una nuova vitaTi amerò per sempre… Ed era sincero, povero Sandro; subito disintossicazione per me e per lui, subito in chiesa a giurarci fedeltà eterna e reciproco amore fin che morte non ci separi. Quanti buoni propositi, ma poi è sempre il destino che decide per noi.»

Marta fece ondeggiare il bicchiere vuoto.

«Per favore, Sirio, ordinamene un altro.»

Sirio fece un segnale a un cameriere.



Marta sorseggiò dal nuovo drink e accavallò le gambe. Gambe davvero bellissime. Aveva rimesso gli occhiali scuri e spostava la testa, come attratta dal viavai variopinto dei turisti. Appoggiò gli occhiali sul tavolino e prese fra le sue la mano di Sirio.

«Subito dopo il matrimonio con Sandro» disse, lisciandogli distrattamente le dita «prima che Martina nascesse, mio padre è morto. Infarto, fulminante. Era in piedi, assieme ad alcuni dipendenti… mi hanno detto che stava ridendo. È crollato a terra ed era morto.»

«Mi dispiace…»

«No, no» l’interruppe Marta «credo sia stata una bella morte, se mai può essere bella la morte. Se ci pensi… stava bene, era nella sua azienda, che credo sia stata il suo unico amore, addirittura rideva… Nessuna agonia o lunga sofferenza, semplicemente un discendere l’ultimo gradino…»

Marta tornò ad appoggiarsi alla spalliera e scosse di nuovo lentamente la testa.

«Mio padre produceva calzature, scarpe di pregio che esportava perfino in America… Un’azienda piccola ma molto ben condotta. L’indomani del funerale una delegazione di funzionari capitanata da Gianni, quello che sarebbe diventato il mio secondo marito, si è presentata a casa mia. Una mancanza al vertice così improvvisa… ordini da evadere, fornitori che si dovevano pagare… le maestranze allarmate dalla possibilità di perdere il posto di lavoro. Mia madre aveva la sua vita e non ne voleva sapere, così, con la pancia di sette mesi, ho fatto il mio primo  ingresso nell’azienda di mio padre. È stata dura. Un mondo estraneo, sconosciuti che mi consigliavano di vendere questo e comprare quest’altro, roba da decine di migliaia di euro e io che non sapevo se e di chi fidarmi… Poi è nata Martina.»

Marta sorrise, con quell’espressione un po’ amara che le conferivano le due piccole fossette di lato alla bocca; giocherellò qualche istante con le stanghette degli occhiali sul tavolo.

«Sarebbe dovuto essere un momento felice, e forse lo è stato, ma giusto un momento. Con Sandro i rapporti si erano incrinati dopo la morte di mio padre; io tutto il giorno in azienda; e quando rientravo ero stanca; e lui mi accusava di essere scontrosa, e probabilmente aveva anche ragione. Ma la verità è, secondo il mio punto di vista, che anche lui era un figlio di papà allevato nella bambagia com’ero stata io, e adesso non riusciva a crescere, o meglio, non era costretto a crescere, come invece era accaduto a me. Ma basta, per farla breve mi ha mollata e se n’è tornato non so dove a fare la sua vita da studente mantenuto.»

Diede una spinta agli occhiali sul tavolo.

«Scusa, mi sono lasciata andare.»

«Non preoccuparti» le sorrise Sirio «è uno stato d’animo comprensibile. Piuttosto, è mezzogiorno, se hai appetito possiamo spostarci da qualche parte a mangiare qualcosa.»

«Un ristorante? No, no… ti ringrazio, davvero non sono in vena… ma se ti va puoi ordinare due panini da mangiare qui. Preferisco andare avanti a raccontarti la mia storia.»

 

 

La tenda bianca distesa sopra i tavolini del bar a momenti frusciava come una vela. La calura riverberava sull’asfalto dopo il passaggio delle automobili. Qualche tavolo più in là una ragazza rise forte per qualcosa che avevano detto i suoi amici.

«Il mio Sirio» disse Marta dopo aver finito il panino e bevuto un sorso di prosecco «il mio Sirio dal naso sbilenco e la faccia da mascalzone… e col cuore da bambino buono. Te le ricordi le risate che ci facevamo? Che dici, era l’età o eravamo noi?»

«Penso entrambe le cose» sorrise Sirio.

«Eravamo ancora bambini… o almeno io lo ero. Quando si cresce non si ride più.»

Sirio si protese e le strinse la mano. 

«Spiegami questa cosa, Marta. Spiegami perché Martina ha smesso di ridere.»

Marta appoggiò l’altra mano su quella di Sirio e prese ad accarezzargliela soprappensiero:

«L’ho cresciuta da sola, e credo di averle dato un’infanzia felice, malgrado il lavoro, malgrado il tempo che dovevo passare fuori di casa. Ho vissuto per lei, devi credermi. Mai… non dico un uomo, ma uno svago, per sei anni. Poi è successo, e non so nemmeno io spiegarmi come e perché. Gianni si occupava della contabilità. Accadeva rimanessimo in azienda oltre l’orario per discutere qualche problema dell’amministrazione, anche da soli io e lui… e senza che me ne rendessi conto deve essersi insinuato nei miei pensieri e nei miei desideri. Tutto sommato è un bell’uomo… un po’ ingessato… non so se mi spiego, di quelli ogni momento in self-control… Poi una sera è successo. Non chiedermi com’è andata, non saprei risponderti, so che a un certo momento eravamo distesi sul tappeto e lui mi ripeteva di amarmi, di avermi sempre amata e che mi avrebbe amata per sempre. Che dire… all’improvviso ho ritrovato l’allegria, la felicità e la voglia di vivere… e Martina sembrava contenta anche lei e sembrava che Gianni le piacesse. Così, nemmeno un anno, e l’ho sposato.»

«E quando hai notato il mutamento di umore, in Martina?»

«Ecco, questo è il punto» disse Marta «le avevo fatto conoscere Gianni fin da subito… fin da quando il nostro rapporto aveva assunto una sua stabilità, intendo, e lei lo aveva accettato, facevamo delle gite nei fine settimana, io, lei e Gianni, e Gianni passava da noi le serate… e io li vedevo giocare e scherzare assieme. È questo che mi ha tranquillizzata e fatta decidere per il matrimonio. Ma appena Gianni è entrato in casa tutto è cambiato… come ti ho detto.»

Era tornata a distrarsi col viavai della gente e Sirio tornò a stringerle la mano sul tavolino del bar.

«Marta, che cosa mi stai nascondendo?»

«Nulla, ti ho cercato proprio per parlartene… ma non è facile. Una notte mi sono svegliata, forse avevo sete o dovevo andare in bagno… non ha importanza… e Gianni accanto a me non c’era. L’ho sorpreso nello studio davanti al portatile… È stato tutto così rapido… ha abbassato lo schermo e si è voltato a guardarmi, ma rimanendo seduto. Ha accavallato le gambe… Dovevo controllare una cosa sui bilanci, ha detto, mi ha detto di tornarmene a letto che mi avrebbe raggiunta subito…»

«E…?»

«Non ne sono sicura, non sono sicura di niente… è stato tutto così veloce… mi è sembrato ci fossero dei bambini nudi sullo schermo prima che lo abbassasse… e lui era eccitato, ha cercato di nasconderlo incrociando le gambe… ma non sono certa di niente, ripeto.»

«Di sicuro è un sospetto terribile il tuo, di esserti portata in casa un pedofilo avendo una figlia di undici anni. E dov’è Martina adesso?»

«Da mia madre… e Gianni probabilmente in azienda. Adesso capisci in che situazione mi trovo? E c’è dell’altro che debbo dirti.»

 

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