giovedì 10 dicembre 2020

L'intrusa - Racconto

 




L’intrusa

 

 

 

La signora Annamaria Siniboldi Castigliano in Ramino si spense serenamente nel proprio letto all’età di centodue anni alle prime ore dell’alba del venti di aprile, giorno della Pasqua di Resurrezione.

Le due badanti di nazionalità romena che l’accudivano amorevolmente da svariati anni, Alina e Catinca giurarono in lacrime che fosse ancora calda, quando si erano recate come ogni mattina alle otto per accudirla. Disperate, dovevano aver svegliato il marito, il senatore Mario Ramino, perché se l’erano visto entrare nella stanza in pigiama. A questo punto, benché la notizia non fosse giunta del tutto inattesa stante l’età della Siniboldi Castigliano, si innescarono un susseguirsi di eventi, alcuni sì pianificati secondo il buon senso e l’uso comune, altri non del tutto scontati e prevedibili, per non dire sconvolgenti.

La signora Siniboldi Castigliano, nata nel 1912, era stata donna bellissima, di nobili natali, dalla vita intensa, dinamica, per certi versi frenetica. Il suo primo marito, il pittore francese Jean Philippe Christianne, di vent’anni più grande, durante un soggiorno a Forlì l’aveva notata e voluta, procace sedicenne, dapprima per modella, subito dopo in moglie.

Matrimonio felice ma breve il loro. La primogenita Corinne di cinque anni, il piccolo Giacomo ancora in fasce, e Jean Philippe se n’era andato, portato via da una polmonite fulminante.

Annamaria aveva amato intensamente Jean Philippe; e la sua natura romantica l’indusse a considerare, malgrado all’epoca avesse appena ventiquattro anni, che quando fosse giunto il suo momento avrebbe voluto riposargli accanto. Così aveva avviato le procedure per la costruzione di una cappella funeraria e conosciuto Ettore Vianotti, architetto giovane ma ambizioso, dotato di indubbia genialità, messosi alacremente all’opera. L’architetto Vianotti le propose alcune soluzioni, tutte assai valide, per il futuro monumento funebre e il susseguirsi degli incontri per discutere il progetto sfociarono, quasi come le acque di un placido fiume nelle acque burrascose dell’oceano, in una passione incontrollabile; tant’è che Ettore e Annamaria convolarono a nozze nel 1939, giusto a tempo per mettere al mondo Benito e Rosa, prima che Ettore venisse chiamato a combattere sul fronte russo.

La costruzione della cappella – un monumento elegante col tetto a falde e sul frontone il bassorilievo di un angelo che scendeva in volo a confortare le anime dei trapassati – venne completata a tempo per accoglierlo alla fine del conflitto mondiale.

Dal suo terzo e attuale marito, il senatore Mario Ramino, di ben vent’anni più giovane, questo, l’Annamaria Siniboldi Castigliano non ebbe figli, accogliendo comunque amorevolmente Marco, nato dal primo matrimonio del senatore.

Ora, il venti di aprile, giorno della Pasqua di resurrezione, alla sua morte, la Siniboldi Castigliano lasciava un patrimonio considerevole in immobili locati e titoli di Stato, oltre all’appartamento di pregio che abitava in centro di Forlì; patrimonio equamente ripartito fra tutti gli aventi diritto così come disposto da documento testamentario redatto innanzi a notaio in piena facoltà di intendere e volere.

Le peripezie, anche drammatiche, che sopravvennero alla sua dipartita, non furono quindi da imputare a incuria o negligenza, ma a una casualità sconcertante e del tutto fortuita.

 

 

 

L’ottantaduenne senatore dormiva nella stanza attigua. Si svegliava ogni mattina intorno alle sei ma si attardava ad ascoltare i rumori e le voci delle due badanti che accudivano sua moglie filtrate dai muri. Poi l’andava a trovare, poiché la lucidità di pensiero non aveva abbandonato la Siniboldi Castigliano, e parlottavano un po’.

Quella mattina le grida e i pianti che gli pervennero attraverso la parete divisoria furono più che eloquenti. In pantofole e pigiama entrò nella stanza accanto. Annamaria, era ormai trapassata. Pallida e serena aveva infine trovato riposo dalla sua lunga intensa esistenza terrena. Ora c’era da attivare tutte quelle procedure che tante volte avevano pianificato assieme, quelle che fra loro avevano sempre chiamato le tre telefonate.

Il senatore aveva baciato sua moglie sulla fronte e si era ritirato nello studio.

Per primo aveva informato don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia in Forlì affinché intervenisse per l’ultimo Sacramento; poi suo figlio Marco perché estendesse la notizia ai figlioli di Annamaria e parenti tutti; infine la premiata ditta F.lli Taburri, con la quale erano stati presi accordi, Annamaria vivente, circa l’ultima cerimonia e l’allestimento della dimora finale.

 

 

 

Daniel Mihalake, cinquantatre anni, nativo di Slobozia, Romania, trasferitosi a Forlì da clandestino nel 1996, era un uomo felice. Faceva parte di quella schiera dell’umanità che, dopo averne passate tante e trovata infine una certa tranquillità, ebbene questa tranquillità la apprezza. Lavorava per la Zanzini Marmi e il ventidue aprile, insieme al giovane Florin, suo compaesano, ma immigrato in tempi recenti, avevano l’incarico di rimuovere la lastra provvisoria del loculo vuoto.

Daniel conosceva perfettamente il cimitero e non ebbe difficoltà a trovare la cappella. Appoggiarono le borse con gli attrezzi e si accomodarono sui gradini. Erano le dieci, un solicello gradevole illuminava l’angelo a volo radente scolpito sul prospetto e loro due a quell’ora facevano colazione. Scartarono i panini imbottiti e stapparono le birre.

Fra loro parlavano rumeno.

«Lo senti questo odore!?» disse Florin arricciando il naso, dopo aver dato il primo morso.

Daniel annusò l’aria: «Non sento niente».

Florin disse: «Di cadavere».

Anche Daniel l’individuò. E gli venne da pensare che nel cimitero quell’odore mai l’aveva avvertito. A bordo cunetta di qualche strada campestre la carogna d’un cane travolto da un’auto l’aveva a volte fatto deviare, ma nel cimitero mai. Comunque fece spallucce e sollecitò il ragazzo a sbrigarsi.

Entrarono nella cappella.

La lastra da rimuovere era quella centrale sul lato destro rispetto all’ingresso, di fronte al piccolo altare, la terza dal basso. La signora Annamaria Siniboldi Castigliano aveva riservato a se stessa il posto centrale, gli altri tutti occupati, tranne quello a fianco, destinato al senatore. Sarebbero stati tutti vicini, lei e i suoi tre mariti, una grande serena famiglia allargata. Dei figli, all’epoca, non si era preoccupata.

Il capo squadra si era raccomandato. La lastra era da rimuovere intera. Quindi i due operai si misero all’opera. Ma appena la smossero, il tanfo tolse loro il respiro. Mollarono la presa e il marmo gli sfuggì fracassandosi. La nicchia doveva essere vuota, invece, nella penombra, videro dapprima la massa dei capelli di un rosso violento, innaturale, poi, più che vederli, indovinarono i volumi pallidi indistinti della schiena e delle natiche che affioravano dal gioco d’ombre là in fondo.

Uscirono correndo, schiacciati dalla visione e dal fetore insopportabile. Il giovane Florin si accasciò per vomitare; Daniel, appoggiatosi a una croce, inspirò aria più volte per potersi riprendere. Poi chiamò il capo squadra col cellulare.

 

 

 

Angelo Taburri, contitolare assieme al fratello Santo dell’omonima premiata ditta di onoranze funebri, appena informato via telefono dal capo squadra della Zanzini Marmi circa l’incredibile ritrovamento di un cadavere nella tomba, fattosi convinto, dal tono e dalla concitazione dell’interlocutore che non trattavasi di uno scherzo, si affrettò a sua volta a comporre, nell’ordine, i numeri telefonici del pronto intervento delle Forze dell’ordine, del senatore Mario Ramino, che però non era raggiungibile in quanto assorbito dalla Funzione d’addio alla di lui consorte nella chiesa di santa Lucia, e del parroco don Pasquino Bonsangue, il quale, impegnato a commemorare le innumerevoli doti morali, in vita, della defunta, non rispose.

A questo punto che fare?

Telefonò al più anziano tra i portantini e a seguire agli altri. Ma, a quanto sembrava, la chiesa di santa Lucia si trovava in un cono d’ombra dei ripetitori telefonici e gli fu impossibile avvertire.

Ecco dunque che il corteo funebre, ignaro, lasciò la chiesa e si avviò per il cimitero. Vi giunse coi rintocchi di mezzogiorno, e fu non poco lo sconcerto allorché si fece incontro al feretro il maresciallo dei carabinieri Luigi Indaga col braccio levato a intimare l’alt. Altri due militari stavano a lato della porta della cappella dei Siniboldi Castigliano, quasi un picchetto d’onore. Sulle prime Mario Ramino sospettò una qualche forma di iniziativa istituzionale apprestata per riguardo alla propria funzione senatoriale; oppure a una celebrazione cittadina in ossequio alla ultracentenaria nobildonna Annamaria Siniboldi Castigliano; d’altra parte, le parole del maresciallo Indaga furono nient’affatto chiarificatrici: «Fermi là. Nessuno può entrare. La Cappella è sotto sequestro».

 

 

 

L’avvio della carriera politica del senatore risaliva alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, allorché poco più che ventenne si era iscritto all’allora partito di maggioranza. Da buon diplomatico aveva saputo barcamenarsi nei vari scenari e tenersi a galla durante gli sconvolgimenti della vita politica italiana; aveva conosciuto gli anni incerti del dopoguerra, apprezzato la stabilità indotta dal boom economico degli anni sessanta, trepidato per le gambizzazioni brigatiste degli anni settanta, osservato senza toccarla la pece untuosa della corruzione e assistito agli scandali affiorati nel periodo di Tangentopoli, fino a giungere agli attuali stravolgimenti della seconda repubblica. Non aveva posseduto l’irruenza del condottiero e nemmeno la sudditanza del portaborse; dato sempre ragione a tutti e criticato nessuno. In vetta non ci si era arrampicato; qualche volta si era lasciato tirare, altre volte qualcuno l’aveva sospinto. Se non aveva brillato, nemmeno era mai rimasto completamente nell’ombra.

Ormai da qualche anno, sebbene la sua funzione politica non avesse decadenza, conduceva vita da pensionato, limitando i viaggi a Roma a quelle rare occasioni in cui la sua presenza era ritenuta indispensabile dal partito.

Alle due di pomeriggio del ventidue aprile, superato l’iniziale disappunto alla vista dei carabinieri che sbarravano la strada al corteo, viste vane le proteste e trattenuta l’ira, si era sottomesso a ricoverare le spoglie di Annamaria nel deposito cimiteriale. Dopo di che, accomiatatosi da parenti e amici sconcertati, forte della propria influenza politica si era ritirato nello studio e messo mano all’apparecchio telefonico. Esigo, era stato l’intercalare che aveva contrassegnato ogni telefonata.

 

 

 

Alle ore diciotto del ventitre aprile, nel soggiorno a terzo piano di palazzo Siniboldi Castigliano, il senatore Mario Ramino era l’unico in piedi. Su uno dei divani sedevano nell’ordine, il colonnello dei carabinieri Antonio Cercabene, il maresciallo Luigi Indaga, il giudice per le Indagini preliminari Matteo Orripilante e il Pubblico Ministero Gaetano Lamartana; sull’altro, don Pasquino Bonsangue, parroco della chiesa di santa Lucia, l’avvocato Osvaldo Girovenale, legale di fiducia del senatore, il professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico; il quale era intervenuto assieme al collaboratore Sirio Bonanni, un giovanotto con la faccia da pugile di borgata.

«È spaventoso» esclamò il senatore, trattenendo le gambe dal rimettersi a camminare avanti e indietro come aveva fatto sinora «mi state dicendo che nel loculo destinato a mia moglie è stato rinvenuto il cadavere di una prostituta… e senza niente addosso?»

«Purtroppo è così» rispose il giudice Gaetano Lamartana.

«E come c’è finita lì dentro?» insistette il senatore.

Gaetano Lamartana esitava.

«Veramente…» accennava al professor Urbani e a Sirio cercando di non farsi notare dagli interessati; i quali sedevano sul divano contrapposto «il segreto istruttorio…»

«Ma quale segreto…» esplose il senatore «il professor Urbani ha tutta la mia fiducia ed è qui per mia richiesta. Esigo che ascolti e che prenda parte alle indagini.»

A testa bassa Lamartana lanciò uno sguardo furtivo in direzione del collega Orripilante e del colonnello Cercabene. Il fatto che entrambi evitassero di guardarlo l’interpretò come un’autorizzazione a procedere.

«Quand’è così» disse «lascio la parola al maresciallo Indaga.»

Tutte le teste si voltarono verso il maresciallo, che si schiarì la voce:

«Senatore, mi scuso per quanto accaduto nella giornata di ieri, ma nel momento in cui sopraggiungeva il corteo funebre erano in corso gli accertamenti del medico legale, nonché i rilievi dei tecnici della Scientifica. Abbiamo dato il massimo impulso alle indagini e identificato il cadavere occultato nel loculo. Non fosse stata la concomitanza del funerale sarebbero forse passati anni prima che venisse scoperto, e a quel punto sarebbe risultato pressoché impossibile il riconoscimento. Invece, a una settimana dalla morte, tramite le impronte digitali è stato possibile risalire all’identità della sventurata. Trattasi di Ajkina Glioshci, di nazionalità albanese, trentadue anni, più volte fermata per prostituzione. È stata pugnalata ripetutamente con un coltello a serramanico sul quale, oltre a tracce di sangue della vittima c’erano le impronte dell’assassino, che è stato prontamente individuato e tratto in arresto. Si tratta di tale Alessandro Pastone, vent’anni, esercente, insieme al padre, uno dei chioschi di fiori antistanti il cimitero».

«Questo significa» si intromise l’avvocato Girovenale «che il caso è chiuso e potete dissequestrare e rendere agibile il Monumento funerario della famiglia Siniboldi Castigliano…!?»

«Certamente!» esultò il giudice Lamartana.

«Ha sentito don Pasquino» fu felice il senatore «finalmente potremo accompagnare Annamaria alla sua ultima dimora.»

«Quanto pesa questo giovanotto?» chiese Sirio.

«Prego…? Come…? Cosa…?» gli venne chiesto da più parti. Giudici e carabinieri lo fissavano indignati.

«Alessandro Pastone, il fioraio arrestato, quanto pesa?» ripetette Sirio.

«Bah…» il maresciallo incassava la testa nelle spalle, storceva la bocca «sui sessanta chili.»

«Pochi, per uno che avrebbe rimosso la lastra di marmo che faceva da coperchio alla tomba, sollevato il corpo senza vita di Ajkina… quanti… cinquanta…? sessanta chili anche lei? Fino a oltre un metro di altezza, e infine ricollocato la lapide.»

Il giudice Lamartana voleva tagliar corto. Come si permetteva questo ragazzino!?

«Avrà avuto un complice, magari il padre…»

Sirio non sembrò aver rilevato l’interruzione: «Senza contare il sangue freddo necessario… Risultano precedenti penali a suo carico?»

Il giudice Lamartana si sentì investito in prima persona e prese la parola: «Del tutto sconosciuto fino a oggi… Ma che c’entra?!»

«C’erano le loro impronte, dell’uno o dell’altro, sul marmo o comunque nella cappella funeraria?»

«Ma no, ma no… E questo che vuol dire? Le avranno pulite, è ovvio. Qui i riscontri probatori sono inequivocabili. Il giovane fioraio aveva intrattenuto rapporti sessuali con la Ajkina proprio la sera in cui è stata uccisa, come appurato dalle tracce del DNA ritrovate in fase di esame autoptico; l’arma del delitto, il coltello a serramanico, recava le sue impronte; abbiamo la testimonianza di altre due prostitute che li hanno visti assieme; e nel furgone del fioraio, verosimilmente utilizzato per accedere al cimitero senza destare sospetti, c’erano tracce del sangue della vittima; a noi bastano le prove, le speculazioni non ci interessano, caro signore.»

«Impronte digitali nel furgone?»

«Solo dell’imputato e del padre… Recenti, dice la Scientifica…»

«In che senso recenti? Il furgone era stato lavato?»

«No, lavato no. Volante e maniglie strofinati…»

«Come per cancellare le impronte?»

«Forse. O forse semplicemente per una pulizia sommaria. Non ravvedo alcuna importanza in questa cosa.»

Il senatore voltava la testa da Sirio a Lamartana quasi assistesse a una partita di tennis.

Adesso la battuta era a Sirio: «Dov’è stato trovato esattamente il coltello? Era nascosto?»

Lamartana, adesso, era spazientito: «Nascosto? Fai tu. Stava nello spazio tra il sedile e la leva del cambio».

«Quindi nell’abitacolo; e non dentro al cassone. E sui sedili… tracce di sangue?»

«No, no… niente.»

«Strano, le pare?»

Lamartana era irritato: «Perché strano. L’avrà uccisa fuori e poi caricata nel cassone, dove invece c’erano le tracce del suo sangue».

«E per tornare all’arma. Queste impronte… erano sull’impugnatura?»

Lamartana sbuffò: «No. Su alcune lame. Il manico era stato pulito».

«Incredibile. Ha ripulito dalle impronte l’arma del delitto, il proprio coltello, per poi lasciarlo nel proprio furgone! Come fare un tratto di penna sul proprio autografo per renderlo invisibile…»

«Adesso basta» Lamartana batté la mano sul bracciolo del divano «non permetto a chicchessia, ancor più a uno studentello di serie C di criticare l’operato dei magistrati e delle forze dell’ordine.»

Sirio scosse la testa.

«Ma allora perché?» disse come a se stesso.

«Perché cosa?» domandò il senatore.

«Perché un fioraio ventenne di cinquanta chili dovrebbe pugnalare una prostituta albanese, caricarne il corpo sul proprio furgone e nasconderlo in una tomba vuota? Insomma, quale sarebbe il movente?»

Il giudice Lamartana si agitò e mosse per aria le mani come a dire ma falla finita!

Invece il senatore insistette: «Già, perché?»

Siccome il Pubblico ministero si era ritirato braccia conserte, rispose il maresciallo Indaga, rivolgendosi direttamente al senatore.

«Si verificano in continuazione alterchi e risse in quell’ambiente, per i motivi più svariati e spesso futili… il cliente insoddisfatto che non vuol pagare, la mercenaria che rifiuta prestazioni particolari o pretende troppo… Che importanza può avere? E poi non dimentichiamo le testimonianze di due altre prostitute che li hanno visti assieme, l’Ajkina con Alessandro Pastone, appartati nel furgone da fioraio. Infine posso dirvi che il ragazzo è disturbato…»

Il maresciallo si picchiettò la tempia: «Ha comportamenti a dir poco stravaganti. Al momento dell’arresto si dibatteva e urlava; in pratica finora non siamo riusciti a interrogarlo, ha scatti d’ira senza controllo. Può essere stato uno scatto di questi a fargli pugnalare l’Ajkina. Mi sembra del tutto inutile cercare un movente che abbia un senso».

Detto questo si alzò; prontamente imitato dagli altri del suo schieramento-

«Senatore…» salutarono a turno. Porsero la mano agli ospiti del divano opposto, tutti tranne Lamartana, che si finse occupatissimo a lisciarsi le sgualciture della giacca. Il senatore li accompagnò alla porta.

 

 

 

Alle undici di mattina di giovedì ventiquattro una Mercedes GLC azzurra tirata a lustro entrò nel parcheggio antistante il cimitero a bassa velocità. I chioschi dei fiorai erano allineati sulla sinistra; il sole proiettava le ombre allungate degli alberi sulle pareti di lamiera e sull’asfalto. La Mercedes accostò al marciapiede e l’avvocato Osvaldo Girovenale spense il motore.

La sera precedente, usciti gli altri ospiti, il senatore aveva pregato don Pasquino, l’avvocato Girovenale, l’amico Urbani e il suo giovane assistente Sirio Bonanni di trattenersi ancora un po’. Appariva provato.

«Ho bisogno di qualcosa di forte» aveva detto svitando il tappo a una bottiglia di Johnnie Walker Black. Ne aveva versato dosi abbondanti in cinque bicchieri e li aveva distribuiti agli ospiti.

«Tutta questa faccenda mi ha sconvolto.»

Aveva detto, dopo un lungo sorso. Quindi si era rivolto a Urbani:

«Anselmo, mi sembra di capire che tu e il tuo assistente siate scettici sulle conclusioni che concernono l’assassinio della… Ajkina…?»

Urbani aveva sorseggiato il whiskey e sollecitato Sirio con lo sguardo.

«Ci sono delle incongruenze che meriterebbero di essere indagate» disse Sirio.

Il senatore faceva rotolare il bicchiere fra i palmi delle mani.

«Trentadue anni» sembrava parlasse tra sé «l’età di mia nipote, una ragazzina in definitiva… Non fosse per la coincidenza incredibile del funerale di Annamaria, sarebbe rimasta dentro quella tomba chi sa quanto, dimenticata, senza più nemmeno un nome. Forse è il momento drammatico che sto vivendo, però mi sgomenta tutto questo.»

«Si tratta di un sentimento di cristiana carità. Comprensibilissimo» affermò don Pasquino torcendosi le mani.

«Ho deciso» disse il senatore. Si rivolse al professor Urbani: «Anselmo, sei uno studioso di criminologia, conosco le tue qualità investigative e siamo amici da tanto tempo, vorrei che andassi a fondo in questa indagine».

Urbani assentiva con la testa: «Certo, certo… Ma avremo bisogno di ufficialità».

Il senatore corrucciò la fronte: «Vale a dire?»

«La legge italiana» disse il professor Urbani spostandosi al bordo del divano «consente alla difesa di svolgere indagini. Capisce bene che nessun cittadino è autorizzato ad andare in giro a far domande… Ma potremmo se rappresentassimo l’accusato.»

«Il giovane fioraio? Voi siete convinti che non sia colpevole?»

«Ravvisiamo fondati dubbi» rispose Sirio «non è un pregiudicato, difficile credere possa aver avuto il sangue freddo di pugnalarla e subito dopo andare a nasconderla in una tomba. Un occultamento così fantasioso stona con l’ipotesi di un omicidio a caldo, per come ce l’ha illustrato il giudice Lamartana. A sentir lui, al di fuori di una qualsiasi motivazione plausibile, il giovane fioraio l’avrebbe pugnalata in un impeto d’ira incontrollabile. Ma, se così fosse l’avrebbe dovuta abbandonare lì dov’era e sarebbe scappato. Invece si ravvisa del sangue freddo in ogni circostanza. Le impronte cancellate sull’impugnatura del coltello, e poi il fatto che la vittima sia stata denudata. Tutto fa ritenere che l’assassino si sia prodigato di occultare qualsiasi traccia potesse far risalire alla sua identità e lasciato invece ben visibili quelle che rimandavano al giovane fioraio. Perché? L’accortezza di qualcuno abituato a muoversi nel torbido, abituato a ingegnarsi di rimanere nascosto, sarei propenso a ritenere. Ma per toglierci ogni dubbio e farci un’opinione obiettiva sarebbe utile incontrarlo, questo Alessandro Pastone.»

«Ah… capisco… E come si può fare?»

L’avvocato Girovenale si schiarì la voce: «Se io fossi il legale di Alessandro Pastone tutto sarebbe consequenziale».

«Giusto. Mi sta bene. Procediamo in questo senso. Resta inteso che mi farò carico dei costi relativi.»

«Perseguire la verità è un atto cristiano» aveva aggiunto don Pasquino «è il fondamento della giustizia: la verità.»

 

 

 

«Ecco, dovrebbe essere quello» disse il professor Urbani.

Il banco dei fiori era il terzo della fila, dal lato verso le campagne. Poche altre vetture sostavano nel parcheggio, qualche donna attraversava la strada per dirigersi al cancello monumentale del cimitero.

La mole considerevole dell’avvocato Osvaldo Girovenale, intorno alle undici di giovedì ventiquattro aprile, sbarcò dalla Mercedes GLC azzurra tirata a lustro e si avviò verso il chiosco, seguito dal professor Urbani e da Sirio.

Il fioraio, un uomo stempiato intorno al metro e cinquanta che indossava un camice grigio, smise di riordinare i vasi sulla rastrelliera e mosse un passo incontro ai visitatori.

«Lei si chiama Duilio Pastone?» esordì l’avvocato Girovenale.

Il fioraio tese la mano: «Sì… e voi…?»

L’avvocato si presentò e presentò il professore e Sirio: «Vorremmo scambiare qualche parola».

«A che proposito?»

«Circa l’arresto di suo figlio, o meglio, pianificare una linea di difesa. Ma non qui, in mezzo alla strada. Le dispiacerebbe seguirci?»

Con l’espressione confusa Duilio Pastone tolse il camice grigio e l’appoggiò alla rastrelliera, quindi informò la donna del gazebo accanto che si allontanava e li seguì.

Trovarono posto  a un tavolino esterno sotto il tendone di un bar.

L’avvocato raccontò del funerale interrotto e della decisione del senatore di affidare al professor Urbani, valente criminologo, e al suo assistente, l’incarico di svolgere indagini per conto della difesa.

«Come mai questo senatore si preoccupa della sorte di mio figlio?» chiese il fioraio.

«Il ritrovamento del cadavere della ragazza assassinata all’interno della tomba destinata alla moglie l’ha scosso e non è convinto della colpevolezza di suo figlio» spiegò l’avvocato.

«Alessandro è innocente» protestò Duilio Pastone.

Sirio disse: «Ne siamo tutti persuasi, e lei deve aiutarci a dimostrarlo. Ci parli di lui e dei suoi rapporti con la ragazza, Ajkina».

«Alessandro è un ragazzo semplice» disse Duilio Pastone «il suo corpo ha vent’anni ma la testa è rimasta a quando ne aveva dieci, undici. Semplice. Ajkina l’aveva preso in simpatia. Si fermava sempre quando passava di qui. Smontava dalla bicicletta e si mettevano a chiacchierare… e ridevano. A me faceva piacere. Li stavo a guardare ed ero felice della felicità di mio figlio. Un po’ mi illudevo che fosse un giovanotto normale, che sta dietro alle ragazze e le corteggia… quasi ci fosse la possibilità che un giorno trovasse quella giusta da sposare. Certe volte mi chiedevo perché lo facesse Ajkina. Sì, va bene, la simpatia nei confronti di Alessandro… Ma non basta. Penso piuttosto che si sentisse di fare una cosa pulita, nell’abbrutimento del suo mestiere, una specie di redenzione, o di penitenza. Quel giorno se ne sono andati col furgone, come faceva qualche volta Ajkina, che si metteva al volante – perché Alessandro sa guidare, come tanti ragazzini di dieci anni, ma non gli danno la patente – e se l’è portato nella boscaglia, lungo la strada più avanti del chiosco. Sono tornati… ma non allegri come le altre volte… non so… comunque Ajkina poi è andata via a lavorare e io con mio figlio, visto che ormai erano più o meno le sette di sera, siamo rincasati.»

«Col furgone?» chiese Sirio.

«No, abitiamo a circa un chilometro. Il furgone lo lasciamo sempre al parcheggio e ci spostiamo con le biciclette.»

«Il furgone l’avete lasciato e ritrovato chiuso?»

«Credo di sì… Non ci ho fatto caso, non ricordo. È passata una settimana.»

«Lo sa che i carabinieri hanno trovato tracce del sangue di Ajkina nel furgone?»

«No. Non ne sapevo niente. Si sono presentati ieri intorno alle tre del pomeriggio e si son portato via il furgone, sequestrato, hanno detto, ma di questo fatto del sangue non ne sapevo niente. Una vettura con a bordo due carabinieri è rimasta nel parcheggio davanti al nostro chiosco e un paio d’ore più tardi è venuto un maresciallo e ha caricato Alessandro… per accertamenti, così ha detto, e se lo son portato via ammanettato. Alessandro strillava di paura e io li ho seguiti fino alla caserma e ho aspettato finché non mi hanno cacciato via a mezzanotte; poi ci sono tornato stamattina presto, ma nessuno mi ha spiegato né perché né percome. E questo è tutto.»

«A me dovranno spiegare» disse l’avvocato Girovenale «e come se dovranno.»

Sirio riprese: «Alessandro aveva un coltello a serramanico?»

«Sì, a più lame, come questo» Duilio Pastone lo cavò di tasca e sfilò un paio di lame «lo usiamo sul lavoro, al chiosco dei fiori e anche in campagna.»

«Quello di Alessandro dov’è?»

«Non saprei… perché me lo chiede?»

«L’hanno trovato i carabinieri nel vostro furgone, e ci hanno trovato le impronte di Alessandro e il sangue della vittima.»

«Le impronte di mio figlio è ovvio che ci fossero: era suo…! Ma allora è per questo che l’hanno arrestato? No, no, impossibile, sono pazzi se credono che l’ha uccisa lui.»

Sirio aggiunse: «Duilio, Ajkina si confidava con voi? Può dirci se aveva un protettore, delle amiche… qualche particolare della sua vita privata?»

«Mi era simpatica quella ragazzina, sorridente, allegra… un po’ chiassosa, anche, ma chiacchierava di frivolezze, di sé stessa mai. Una volta gliel’ho chiesto io, se non aveva paura, di notte, a incontrarsi con degli sconosciuti… e lei s’è messa a ridere. So difendermi, ha detto. E quindi no, non credo avesse un uomo del genere, anche perché arrivava e se ne andava da sola, con la bicicletta… No, no, nessuno.»

Duilio Pastone fece dei ghirigori col dito sul tavolo.

«Una volta» disse «la borsetta l’aveva dimenticata aperta. All’interno ho visto una pistola, piccola, col calcio bianco… Ecco, questo… Ma non mi viene a mente nient’altro.»

 

 

 

La caserma dei carabinieri capitanata dal maresciallo Luigi Indaga era una palazzina a due piani circondata da un cortile recintato. Nel proprio ufficio a primo piano il maresciallo disse Avanti! e guardò l’orologio.

«L’una precisa, che puntualità» sorrise al giudice per le indagini preliminari Matteo Orripilante, mentre il brigadiere apriva per lasciar passare l’avvocato Girovenale, i due consulenti della difesa e Duilio Pastone.

Il pubblico ministero Gaetano Lamartana brillava per la propria assenza.

L’incontro era stato fissato sin dal mattino, per cui l’avvocato Girovenale, dopo un rapido scambio di strette di mano, sollecitò di procedere subito all’interrogatorio.

«Ho qualche perplessità circa la presenza del signor Pastone» disse il giudice.

«La sua presenza è indispensabile» insistette l’avvocato «ai fini procedurali la consideri un incidente probatorio. Mi spiego, l’imputato è affetto da ritardo mentale lieve…»

«Non ne so niente. Agli atti non risulta…»

«Si tratta, ripeto, di ritardo mentale di lieve entità, e la presenza del padre non può che risultare utile ai fini dell’interrogatorio dell’imputato. Lo consideri un testimone, se preferisce. Sono certo che il Senatore…»

«Va bene, va bene, ho capito» tagliò corto il giudice «procediamo. Ma si ricordi avvocato, che ne effettueremo la registrazione audiovisiva.»

«Certamente…»

Si avviarono lungo il corridoio, in fila indiana dietro al maresciallo Indaga, fino alla stanza degli interrogatori. Prima di entrare, attraverso il cristallo unidirezionale, osservarono l’imputato all’interno, seduto a un tavolo a centro stanza, ammanettato. Un brigadiere, in piedi accanto alla porta, lo sorvegliava.

Il giovane Alessandro Pastone, barba folta nera e capelli crespi aveva la corporatura esile del padre. Teneva lo sguardo fisso sul ripiano del tavolo.

«Perché ha le manette?» chiese l’avvocato.

«Ve l’ho detto, ha scatti d’ira improvvisi. È una precauzione necessaria.»

«Gli faccia togliere le manette prima che entriamo. Ne rispondo io» disse l’avvocato Osvaldo Girovenale; il giudice Matteo Orripilante fece un cenno affermativo al maresciallo che si avvicinò al microfono e impartì l’ordine al brigadiere nella stanza al di là del cristallo.

Appena Duilio Pastone varcò la soglia suo figlio gli si gettò tra le braccia: «Papà». E si mise a piangere. Un ventenne con la barba folta che piangeva come un bambino di undici anni.

Con parole e carezze Duilio riuscì a calmarlo e sedette accanto a lui. Gli altri occuparono delle sedie pieghevoli attorno al tavolo, Sirio all’altro lato di Alessandro.

«Questi signori» disse Duilio al figlio «ti debbono fare delle domande.»

Alessandro, a occhi bassi, si guardò attorno imbronciato, con la testa appoggiata alla spalla del padre: «Perché?»

Duilio Pastone si guardava attorno smarrito.

Intervenne Sirio: «Tu vuoi bene ad Ajkina?»

Alessandro si riscosse, gli occhi trovarono luce: «Ajkina? Certo, lei mi ama».

«Bene» disse Sirio «puoi raccontarci che è successo nel bosco l’ultima volta?»

«Lei rideva» disse Alessandro «era felice, era tanto felice. Perché era l’ultima volta che ci vedevamo, perché doveva tornare a casa sua in Albania…»

«Ah…» s’intromise il giudice Orripilante «e tu ti sei arrabbiato e l’hai picchiata…»

«Per favore…!» intervenne l’avvocato Girovenale.

Sirio parlò ad Alessandro col tono che si usa con una ragazzino:

«Rispondi al signore, ti sei arrabbiato?»

«No. Ajkina era contenta e siccome era contenta anch’io ero contento.»

«E poi cos’è successo?» ha chiesto ancora Sirio.

«Ajkina rideva e diceva che il suo paese è sopra una montagna e d’inverno nevica sempre. Quando era piccola suo padre se la metteva sulle spalle e salivano fin sopra alla montagna. E nello zaino suo padre metteva i panini e il plaid, e quando arrivavano in cima facevano il picnic e poi giocavano a rincorrersi o a nascondino. Lei si ricordava queste cose, me le raccontava e rideva ed era felice perché suo padre l’aveva chiamata al telefono per chiederle di tornare. Adesso è vecchio, ha detto Ajkina, e ha bisogno di me. E lei era contenta di tornare e avrebbe accompagnato lei il suo papà sulla montagna. E un po’ rideva e un po’ piangeva, mentre mi diceva queste cose. E poi si è avvicinato un signore.»

«Un signore?» ha chiesto Sirio.

«Sì, è sceso da una Range Rover ed è venuto a bussarci al finestrino.»

«Com’era questo signore?»

«Aveva la faccia arrabbiata.»

«Sì, ma era alto, basso… com’era vestito?»

«Era alto. Con la pancia e il petto come le donne. E con la barba. E coi jeans e la maglietta a strisce colorate macchiata di sudore sotto le ascelle. Ajkina ha premuto il pulsante che blocca le portiere e quello lì ha dato una manata sul parabrezza.»

«Hai notato qualcosa di particolare in lui?»

«Sì. L’orecchino, e un teschio tatuato sul braccio, qui. E aveva la faccia sudata.»

«E poi?»

«Si è messo a strillare.»

«Ah. E che diceva?»

«Non lo so. Parlava albanese, e Ajkina gli ha risposto in albanese anche lei.»

«Accidenti!» imprecò il giudice Matteo Orripilante «sarebbe stato utile conoscere il tenore dell’alterco.»

«Alessandro ha una memoria eccezionale» spiegò Duilio Pastone. Si rivolse al figlio: «Alessandro, ripeti le parole esatte che si sono detti».

«Bitch, ky është paralajmërimi i fundit, nëse nuk më sillni ato para që jeni të vdekur sot

«Un traduttore» gridò il giudice «cercatemi un traduttore.»

«Puttana, questo è l’ultimo avvertimento, se non mi porti entro oggi quei soldi sei morta» disse Sirio. E poi ad Alessandro: «E Ajkina che gli ha risposto?»

«Ajkina ha preso la pistola da dentro la borsetta e gliel’ha puntata alla faccia davanti al finestrino chiuso. Poi ha detto: Nëse po të shoh përsëri do të të qëlloj. Dhe ti e di që nuk po tallesh.»

«Se ti rivedo ti sparo. E lo sai che non scherzo» tradusse Sirio.

Sirio accarezzò i capelli crespi del giovanotto di vent’anni con la barba incolta:

«Bravo Alessandro, sei stato molto bravo. Adesso dimmi un’altra cosa, perché lo so che hai una memoria eccezionale, dimmi la targa della Range Rover».

E Alessandro gliela disse.

 


mercoledì 9 dicembre 2020

La memoria della carta - Raccolta di racconti

 





La memoria della carta - Racconti (Collana editoriale: Sirio e le sue indagini) 

di Romano Greco (Autore)  

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Sirio sapeva che al primo contatto il cervello registra automaticamente dei dettagli rilevanti e si concentrò a focalizzarli. Avevano avuto una relazione, Sirio e Gilda, qualche tempo prima, quando lei era ancora al primo anno di Scienze Criminologiche; una relazione breve ma incandescente.  

“Il nonno ha tentato il suicidio. Ha lasciato un biglietto, ho ucciso l’uomo sbagliato, c’è scritto” disse Gilda.

I neuroni nella testa di Sirio ebbero un’accelerazione.

“Senti Sirio, mia madre ha tenuto nascosto il biglietto… non se la sente di ufficializzare questa faccenda… polizia, giudici, interrogatori… Vorrebbe che tu accertassi come stanno veramente le cose prima di prendere una decisione qualsiasi.”

I neuroni di Sirio accelerarono alla velocità della luce..

“Te la senti?” chiese Gilda.

Sirio non ebbe bisogno di starci a pensare: “Subito è troppo presto?”

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martedì 1 dicembre 2020

La memoria della carta - Racconto

 



ANTEPRIMA:

La memoria della carta

 

Nella mensa della facoltà, alle due del pomeriggio del primo sabato di maggio, pochi tavoli erano ancora occupati; un gruppo di studenti si stava alzando e raccoglieva le stoviglie; un capannello si attardava accanto a una colonna a discutere. Sirio adocchiò un tavolo discosto vicino a una finestra e ci si diresse col vassoio.

Gilda Cinterini stava indicando alla cameriera dietro al banco una qualche pietanza attraverso il cristallo. Quando si voltò incrociò lo sguardo di Sirio e venne verso di lui.

Avevano avuto una relazione, Sirio e Gilda, qualche tempo prima, quando lei era ancora al primo anno di Scienze Criminologiche; una relazione breve ma incandescente, consumatasi in poche notti di sesso come un fuoco pirotecnico che illumina la notte di stelle colorate per poi spegnersi al culmine dello splendore. Bionda, e tuttora esile e pallida, Sirio ricordò che all’epoca era rimasto colpito dagli irrequieti occhi celesti, di come si accendessero d’eccitazione improvvisa nei momenti più inaspettati.

«Sirio, permetti?» chiese Gilda appoggiando il vassoio sul tavolo.

«Certo» le sorrise Sirio.

Gilda occupò la sedia accanto a Sirio, con le spalle alla finestra.

Sirio era certo che l’avesse raggiunto per un motivo preciso. La osservò mentre spostava i pezzetti di spezzatino nel piatto senza infilzarli, a testa bassa, come assorta.

«Qualcosa non va?» le chiese.

«Mio nonno materno è in ospedale…»

«Oh… mi dispiace.»

Sirio posò la forchetta e si appoggiò allo schienale.

«Ha tentato il suicidio.»

Suicidio. Una delle parole che provocavano un sommovimento dei neuroni nella testa di Sirio.

«Come?»

«Mio nonno vive in campagna, si è tagliato le vene dei polsi con un falcetto. Il mezzadro era entrato nel capanno… l’ha trovato agonizzante.»

«Quanti anni ha tuo nonno?»

«Ottanta.»

Ottanta!

Sirio considerò che forse la questione poteva interessare più un geriatra o uno psichiatra, piuttosto che un criminologo.

Disse: «Una forma di depressione? Con l’età…»

«Ha lasciato un messaggio, guarda…»

Gilda gli passò lo smartphone.

Sirio ingrandì l’immagine del foglio di carta sul touch screen fino a poter leggere:

“Ho ucciso l’uomo sbagliato e non posso perdonarmi”.

Adesso sì che la faccenda si faceva interessante. I neuroni nella testa di Sirio ebbero una accelerazione.

«Ed esiste qualche concreta eventualità che non si tratti di una fantasia?» chiese restituendole il telefonino.

«Che confonda sogni o pensieri con la realtà? Una forma di delirio vuoi dire?» tradusse da brava studentessa del terzo anno Gilda il suo pensiero «non lo so. Di sicuro mi suona strano che un vecchio di ottant’anni si metta ad ammazzare gente…»

«Non è detto che si tratti di un omicidio recente… se di omicidio si tratta.»

«Be’» insistette Gilda «mi suona strano anche un pentimento a posteriori. Come fa un vecchio a scoprire dopo dieci, venti o trent’anni di aver ucciso l’uomo sbagliato, per come dice nel biglietto? Ma poi, ucciso chi? E il corpo dov’è?»

«Se sei convinta di quanto affermi, perché sei seduta davanti a me?»

Gilda scosse la testa: «Adesso il nonno è fuori pericolo, pare che lo dimetteranno entro pochi giorni, ma la mamma ha paura che possa riprovarci, perché… perché è sempre stato un gran testardo, uno che non desiste…»

Gilda gli rivolse uno sguardo mesto: «Mia madre vorrebbe parlare con te».

«Con me?»

Gilda ebbe come un fremito, nello sguardo niente scintille adesso: «Senti Sirio, mia madre sa di noi… sa di te; sì, insomma… della tua professione. Ha tenuto nascosto il biglietto… non se la sente di ufficializzare questa faccenda… polizia, giudici, interrogatori, perizie psichiatriche… a un vecchio. C’è da capirla. Senti, vorrebbe che tu accertassi come stanno veramente le cose prima di prendere qualsiasi decisione.»


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venerdì 23 ottobre 2020

Il poligono irregolare - Racconto






ANTEPRIMA:


Il poligono irregolare


Giovedì.

«Da queste parti ci abita una che conosco, si chiama Lisa» disse Ric accanto al casco a barchetta di Marc.

Marc diede gas e fece impennare il motorino, così Ric, che stava dietro, dovette abbracciarlo per non cadere.

In verità Marc si chiamava Marco e Ric Enrico. Questa cosa dei nomi americani se l’era inventata qualcuno a inizio anno scolastico e tutti l’avevano ripresa, anche qualche professore progressista come il Tullio; la vecchia Triburzi invece, quella quasi pretendeva che le dessero del lei. Il Tullio era giovane, era al primo anno di insegnamento e li aveva messi al banco assieme, Ric e Marc.

Il motorino tornò sulle due ruote e Marc chiese, girando un po’ la testa: «Ah… e  com’è questa Lisetta?»

Marc era alto e robusto, dimostrava diciott’anni invece dei quindici che aveva. Era alto, robusto e prepotente; il duro della classe, quello che non aveva paura nemmeno del preside e che se non gli andava di entrare se ne rimaneva a fumare appoggiato al muro accanto al portone della scuola sfidando con lo sguardo la Triburzi, e anche il preside, a dirgli qualcosa. Invece Ric non arrivava al metro e mezzo e pesava quarantacinque chili. Ric si era trasferito da Bologna quest’anno e il Tullio, il primo giorno, l’aveva messo al banco con Marc, dal momento che con lui nessuno ci resisteva e stava solo. Invece loro due erano diventati amici e si dividevano le sigarette di tabacco che comprava Ric e gli spinelli che Marc rubava a suo padre. Sniffare non sniffavano, anche se Marc avrebbe potuto attingere dalla scorta di suo padre; non sniffavano perché Marc non voleva diventare come sua madre, che era più il tempo che passava al centro di recupero di quello che stava a casa.

«È bionda… ha dodici anni» rispose Ric. Che intendesse Marc l’aveva capito, ma non gli andava di raccontargli che era magra, piatta e con l’apparecchio per i denti.

«Ah… e i suoi lavorano?»

Ric rispose senza rifletterci: «Sì, tutt’e due». Poi capì il motivo vero della domanda e si pentì di avergliene parlato.

Alle due del pomeriggio, in aprile, Forlì dormicchiava, e per la zona dei villini avevano incontrato solo un paio di ragazze in bicicletta e un vecchio col cane al guinzaglio; dai villini arrivava soltanto il frusciare degli alberi e nessun altro sospiro.

«Be’» disse Marc «se abita qui, almeno è ricca. L’andiamo a trovare?»

Ric non sapeva come uscirne.

«Ma no» disse «oggi non mi va, qualche altra volta semmai…»

«Te la vuoi spassare da solo, eh macho» sghignazzò Marc.

Ric gli fece una risata accanto al casco, voleva essere una risata da macho vero, ma non gli venne troppo bene.

Marc diede gas e Ric dovette affrettarsi ad abbracciarlo.

Il motorino si impennò un’altra volta.



Sirio, alle due del pomeriggio, ritornava a piedi verso casa. Era giovedì, aveva pranzato alla mensa dell’università e pregustava di andarsene in riviera per godersi un pomeriggio da Pasqualone e riflettere sul caso del brevetto trafugato; il quale, così lineare nell’esposizione dell’industriale Matteo Massolombardo, secondo Sirio presentava non secondari e inquietanti risvolti morbosi. Ci rimuginava da lunedì sera, quando erano usciti dalla riunione e Urbani aveva esclamato: «Finalmente un incarico semplice, ce lo risolviamo in una settimana… mi sembrano quasi soldi rubati».

Poi, siccome glielo aveva promesso, intorno alle otto doveva essere di nuovo a Forlì per assistere alla semifinale del torneo di scacchi. Il professor Urbani gareggiava per accaparrarsi il titolo, per il terzo anno consecutivo, e non gli avrebbe perdonato una defezione.

I due adolescenti sul motorino uscirono dalla traversa giusto davanti a lui. Quello alla guida robusto, con la fibbia del casco ciondoloni; l’altro minuto, col naso a punta e gli occhi un po’ sporgenti; entrambi portavano al lobo sinistro un orecchino, identici fra loro, due piccoli rubini sicuramente di valore, sicuramente appartenuti a una donna. Sirio ragionò rapidamente sul ventaglio di implicazioni possibili per cui gli orecchini di una donna fossero finiti al lobo di due adolescenti. Imboccato il viale costeggiato dai villini il motorino si impennò e percorse alcuni metri sulla ruota posteriore, col ragazzo seduto dietro che abbracciava l’altro per non essere sbalzato di sella.

Sirio memorizzò la targa.


Lo stabilimento balneare di Pasqualone a Cesenatico in aprile era chiuso. Ma Pasqualone teneva aperto il chiosco bar tutto l’anno, e a richiesta faceva anche da mangiare. Ci campava.

Sirio ci andava perfino d’inverno, se il tempo era buono e non aveva impegni. Ci si trovava bene e Pasqualone, napoletano verace, era simpatico e metteva buonumore.

Invece quel giovedì tirava vento di tramontana sul litorale di Cesenatico, e Sirio aveva chiesto a Pasqualone di sistemargli la sdraio da spiaggia in un cantuccio del locale da cui, attraverso i vetri della portafinestra, poteva scorgere il mare in burrasca.

Il chiosco era fatto di robusta muratura e all’interno il frastuono dei marosi e il sibilo del vento arrivavano attutiti.

Seduto nella sdraio Sirio aveva ricostruito ogni dettaglio, ogni impressione dell’incontro nell’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo.

Sirio non credeva che la verità sia quella che ci si mostra, anzi, spesso è quella che ci viene nascosta. La verità svelata, che concerneva l’ambito economico, era il furto del brevetto da parte di un’azienda concorrente di un prodotto di proprietà della Massolombardo Farmaceutica. Le verità nascoste, al momento, rivestivano un carattere per così dire… sentimentale. Ma soldi e sesso vanno spesso a braccetto, si sa.

Quanto poi alla verità bell’e pronta del dipendente sorpreso a carpire i segreti aziendali riversandoli su una pennetta USB… be’, troppo lineare, troppo semplice per non meritare una verifica.

Non c’erano altri avventori e Pasqualone, finito di lustrare il ripiano del banco, riempì due bicchieri e venne da Sirio.

«Whiskey, professore, di quello buono; ma ditemi, che vi succede? oggi non siete del vostro solito umore.»

«Segga accanto a me Pasqualone, le vorrei raccontare una storia, della quale, purtroppo, non conosco ancora il finale. Le va di sentirla, o ha da fare?»

«Da fare? No, no, con questo tempo non entrerà nessuno.»

Pasqualone aprì una seconda sdraio accanto a Sirio e riuscì ad incastrarcisi.

«Tutto comincia col furto di una molecola.»

«Una molecola, professo’?»

«Già, un integratore per gli sportivi…»

«E chi l’ha rubato?»

«È quanto dobbiamo scoprire, caro Pasqualone. Ma cominciamo dall’inizio.»



Il lunedì precedente.

La segretaria bionda e perfetta che aveva aperto sovrastava il professore di tutta la testa.

«Puntualissimi» sorrise lanciando un’occhiata all’orologio digitale appeso sopra il tornello per le presenze dei dipendenti, che in quel momento era scattato a segnare le 19:01 di Lun. 12 Apr. «Sono tutti di là. Faccio strada.»

Le mannequin sulla passerella spostano avanti il piede in modo da appoggiarlo su una linea all’interno dell’altro. Dà loro eleganza. E comporta lo spostamento di lato dell’anca, molto seducente; specie se osservato di spalle. Ebbene la segretaria, più sobria, allineava il tacco del piede che spingeva avanti alla punta dell’altro, senza per questo risultare meno seducente o elegante; cosa che Sirio poté apprezzare per il breve tratto del corridoio in cui li precedette.

L’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo era vasto e luminoso. L’ampia finestra affacciava sullo stabilimento e due basse ciminiere dissolvevano nell’aria un filamento di fumo bianco. Al di qua di una scrivania di ultima generazione col piano di cristallo tanto lucido da credere che fosse refrattario alla polvere, sedevano un uomo atletico sui quaranta e una donna molto bella, che si voltarono subito verso la porta, due sorrisi da Beautiful della prima stagione televisiva. L’industriale Massolombardo, doppiopetto gessato, capelli sale e pepe ancora folti pettinati indietro, si alzò dalla scrivania e venne ad abbracciare il professore, suo vecchio compagno di scuola.

La stessa età eppure così diversi.

Il professore, la testa con qualche capello bianco all’intorno appoggiata su un corpo a forma di uovo, presentò Sirio come: «Il mio assistente».

L’industriale appoggiò la mano sulla spalla della bella signora dallo splendido sorriso: «Mia moglie Eleonora, nonché Presidente della Massolombardo Farmaceutica e socio di maggioranza», quindi su quella del quarantenne atletico «e Giorgio Dediscentis, il mio legale, nonché amico».

Tutti presero posto attorno allo scrittoio, il professore al centro, l’avvocato e la bella moglie alla sua sinistra e Sirio a destra, un po’ arretrato, in quanto Assistente; mentre la segretaria bionda, a un cenno d’assenso di Matteo Massolombardo faceva la spola fra un tavolino imbandito e gli ospiti per porgere tazzine di caffè, liquori e pasticcini, impegnata nell’esercizio impossibile di non voltare le spalle a nessuno mentre si chinava. Nel porgere l’ultima tazzina, quella destinata al titolare, si protese verso lo scrittoio nello spazio ristretto fra le sedie di Urbani e Dediscentis. Nessuno avrebbe dovuto vedere, e nessuno avrebbe potuto vedere la mano di Dediscentis infilarsi sotto la gonna e indugiare in una carezza sulle belle gambe, se non Sirio, dalla sua posizione arretrata.

«Cercherò di essere breve» esordì Matteo Massolombardo girando il cucchiaino nel caffè e rivolgendosi al professore «come sai noi produciamo essenzialmente integratori per lo sport. È un mercato inflazionato, per cui è inevitabile scontrarsi con una concorrenza spietata. La soluzione è distinguersi, rinverdire, prendere le distanze dagli altri produttori, soprattutto rinnovare l’offerta. Così, circa un anno fa ho incaricato il nostro settore di ricerca affinché studiasse una nuova miscela energizzante da destinare agli sportivi. Un investimento di ordine economico considerevole, giunto finalmente a maturazione e pronto a ripagarci con risultati concreti.»

La segretaria bionda prese a ritirare tazzine e bicchieri.

Questa volta, per raggiungere Massolombardo, girò attorno allo scrittoio.

Esiste una distanza minima, una specie di aura individuale che viene inconsapevolmente rispettata. Varia in base a motivi legati alla cultura del posto. Negli Stati Uniti è stimata intorno ai centoventi centimetri, in Italia scende a circa sessanta fra gli estranei per arrivare a quaranta fra conoscenti e amici. Il contatto fisico, al difuori delle strette di mano e degli abbracci di saluto è limitato ai familiari o alle persone intime. Nel prendere la tazzina la segretaria bionda appoggiò il seno alla spalla di Massolombardo, e lui non si ritrasse. Forse non se ne rese conto, perché stava dicendo:

«Ebbene, finalmente il nuovo prodotto era pronto; decidemmo di chiamarlo Besmance, avevamo anche lo slogan, The best for your performance, se non che, al momento di depositare la richiesta di brevetto scoprimmo che era stata presentata la settimana precedente un’istanza per la nostra stessa molecola dalla Interium, un’azienda nostra concorrente.»

«Spionaggio industriale» esclamò il professore.

«Bravo» si diede una pacca sul ginocchio Massolombardo «più precisamente furto di informazioni aziendali riservate…»

«Che intendi?» domandò il professore.

«Che non c’è stato spionaggio dall’esterno, la nostra molecola è stata trafugata da qualcuno all’interno. E sappiamo anche chi è.»



Sempre giovedì.

Nel parco comunale che delimitava il quartiere dei villini era vietato introdurre motocicli. Marc, questo era certo, il motorino incustodito non lo lasciava; così si fermarono alla prima panchina, ombreggiata da un pino, in modo da tenerlo d’occhio; sedettero sulla spalliera e appoggiarono i piedi sulla seduta, le guance sui pugni, i gomiti sulle ginocchia. Ogni tanto passava qualcuno in pantaloncini e canotta e correndo faceva scricchiolare la ghiaia, ma per lo più era silenzio, il ronzio del trafficò, al di là della siepe lungo il perimetro, quasi non arrivava. Avevano mangiato un panino fuori dalla bottega del pane e Ric aveva pagato le birre; un paio se l’erano scolate mentre mangiavano e la terza era posata vicino ai piedi fra loro; ogni tanto si chinavano a prenderla e mandavano giù un sorso, a turno. Poi riappoggiavano le guance sui pugni.

Un po’ veniva sonno.

Ric pensava a Lisa, la ragazzina che abitava ai villini. L’aveva conosciuta l’estate precedente al lido, avevano gli ombrelloni vicini e i genitori avevano preso discorso e anche loro due si erano parlati e avevano fatto il bagno assieme. Negli ultimi giorni erano anche usciti, con altri ragazzi che conosceva lei, a prendere il gelato e passeggiare sul lungomare. A Ric un po’ gli piaceva, ma non le aveva detto niente. All’inizio perché gli sembrava presto, poi perché a giorni si sarebbero separati; lui per tornare a Bologna, lei a Forlì. Ric si diceva che si sarebbero potuti sentire, scambiarsi le foto tramite WhatsApp come facevano un po’ tutti… ma quando poi stava con lei rimandava e insomma non gliel’aveva detto.

A settembre la famiglia di Ric si era trasferita a Forlì.

Sua madre, infermiera, aveva finalmente ottenuto il trasferimento e sarebbe potuta stare vicina ai genitori, anziani, che non stavano troppo bene; e suo padre, che era magazziniere, avrebbe pendolato da Forlì a Imola che tanto già pendolava da Bologna e, fatti i conti, ci voleva stesso tempo e stessa spesa.

Così un pomeriggio che Ric stava con la madre fuori dal centro commerciale vicino al Parco della Resistenza avevano incontrato la madre di Lisetta. Come stai? Come mai qui…? Insomma erano finiti a casa sua a prendere il tè. E Ric aveva rivisto Lisa, si erano chiusi nella sua cameretta e lei gli aveva mostrato sul tablet le fotografie dell’estate e gli aveva fatto leggere certe poesie che ogni tanto scriveva lei, perché le piaceva scriverle.

Poi non si erano più rivisti.

Sua madre qualche volta nominava la madre di Lisa e di andarli a trovare, ma suo padre non era  propenso, diceva che non gli pareva il caso, che gli sembravano gente snob, e lui col marito di lei non ci si ritrovava perché non c’erano argomenti in comune.

Così non se n’era fatto niente.

Adesso pensava di potarci andare con Marc, e fantasticava di come sarebbe stato e di che si sarebbero detti… ma poi no, non era una buona idea di andarci con Marc.

Arrivarono due guardie del comune, due donne, con la divisa bianca e il berretto; una era robusta e la divisa le schiacciava il seno, l’altra magra, col naso a becco. Indossavano i guanti di garza bianca. Quella robusta fece di no col dito e Ric capì e si lasciò scivolare fino a sedersi per bene; e subito invidiò Marc, che al solito se n’era fregato, da vero macho.

Le due vigilesse fecero finta di nulla e tirarono dritto chiacchierando fra loro.

Marc gli bussò sulla spalla e gli porse uno spinello. Accese il suo con l’accendino e glielo passò.

«Che dici, ci andiamo dalla tua amichetta del villino?»

Il sapore del fumo era dolce, e gli dava subito alla testa… un passero saltellò sulla ghiaia qualche metro più in là e gli sembrò molto buffo, gli venne da ridere.

«No, no, oggi no. Qualche altro giorno ci andiamo.»

Dovette scivolare in avanti per poter appoggiare la testa alla spalliera. Guardò Marc, che sembrava una torre puntata verso il cielo, stava aspirando con la testa rivolta verso l’alto, teneva dentro il fumo e poi ne soffiava un poco guardando in su.

Ric chiuse gli occhi, perché gli veniva da vomitare, ma non poteva farlo, perché sarebbe stata la fine anche con Marc, così prese aria e tenne gli occhi chiusi, sperando di riprendersi presto. Sentì Marc che diceva:

«E che fanno i genitori della tua amichetta, che vivono ai villini?»

«I ricercatori.»

«E che mestiere è? Ci si guadagna bene?»

«Boh? Una casa farmaceutica, forse inventano medicine.»



Pasqualone vuotò il bicchiere in un sorso.

«Professo’, ma che… la segretaria se l’intende con l’avvocato e pure col principale? Un triangolo insomma.»

«Sembrerebbe… Ma cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate. Erano soltanto impressioni, al momento.»

«Se lo dite voi…!»

Pasqualone si grattò la tempia: «Ma poi, se hanno scoperto il ladro, dal professore amico vostro, che vogliono? Andate avanti professo’, che sta cosa va chiarita».

La segretaria bionda aveva passato una cartella al professore.

«È tutto nel dossier» aveva detto l’industriale Matteo Massolombardo indicando la cartella, quindi aveva teso la mano verso l’avvocato Giorgio Dediscentis, come a dire: Tocca a te.

La segretaria bionda già pronta alle spalle dell’avvocato con un personal computer acceso glielo passò.

«Guardate!»

Dediscentis aveva una voce profonda e carezzevole. Scandiva ogni parola come concentrato affinché avesse la giusta intonazione. Premette il tasto di invio e rivolse lo schermo verso il professor Urbani.

Un uomo dall’ampia stempiatura, in camice da laboratorio, era ripreso dall’alto. A bordo immagine la stampigliatura della data di una diecina di giorni prima e l’orario: 17:58.

«Quest’uomo si chiama Antonio Diroberto, è il tecnico cui era stato affidato l’incarico di realizzare la molecola. Bene, sul suo monitor potete vedere che sta copiando la cartella del Besmance su una pennetta USB.»

Dediscentis zumò in maniera tale che potessero distinguere i dettagli.

«Bene, adesso ponete attenzione alla telefonata che sta per ricevere.»

Sul tavolo del tecnico di laboratorio ronzò un telefono cellulare, invisibile, perché l’uomo col suo corpo lo copriva alla telecamera: «Pronto».

L’uomo ascoltò. Poi disse: «Sto copiando adesso il file».

Ascoltò.

«Va bene, te lo porto subito.»

Dediscentis mise in pausa.

«Come vedete» disse «abbiamo il colpevole.»

«Perché non lo denunciate?» chiese il professor Urbani.

«Non possiamo esibire questa prova. Le leggi sulla privacy ci vietano di effettuare riprese video dei dipendenti durante il lavoro. Ma…»

Era il re dell’oratoria Dediscentis, aveva pensato Sirio, perfino le pause a effetto.

Dediscentis riprese, riavviando la registrazione:

«Come potete notare, il tecnico Antonio Diroberto risponde alla telefonata alle diciotto e zero due, ed estrae la memoria USB alle diciotto e zero quattro. Tutto quello che accade dalle diciotto, termine dell’orario di lavoro, in poi, può essere oggetto di prova a carico. Ma c’è di più…» altra pausa a effetto, prolungata, interminabile «il tecnico Antonio Diroberto, da quel giorno, non si è più presentato al lavoro. È scomparso!»

Il professor Anselmo Urbani si schiarì la voce: «In conclusione cosa vi aspettate che io faccia?»

L’industriale Matteo Massolombardo disse: «Anselmo, la Massalombardo Farm ha investito capitali ingenti in questo progetto. Se non torniamo in possesso della formula e avviamo la produzione si rischia la bancarotta. Questo significa che il ladro, quell’analista, deve essere giudicato colpevole, in modo tale da indurre la Interium a restituire il brevetto.»

«Capisce professore l’importanza della cosa?» si intromise la bella signora Eleonora.

L’avvocato, per non essere da meno, scattò in piedi; sembrava volesse gridare Vostro onore mi oppongo. Brandiva il portatile come Mosè le Tavole della legge.

«Dobbiamo inchiodare quest’uomo! Vogliamo una perizia autorevole e circostanziata da presentare nel momento in cui decideremo di adire le vie legali! Il suo incarico consiste in questo!»

Il piano di cristallo refrattario alla polvere era sostenuto da lucentissime gambe di acciaio: Specchi.

Nessuno avrebbe dovuto vedere, nessuno avrebbe potuto vedere se la gamba più prossima alla signora Eleonora non l’avesse riflessa mentre infilava la mano sotto il cavallo dei calzoni dell’avvocato, in un gesto intimo, orgoglioso e complice.

E Sirio la vide.



Pasqualone si menò una fragorosa pacca sulla coscia.

«Professo’, ma allora la moglie se l’intende coll’avvocato! Un altro triangolo!»

Nella foga scosse il proprio bicchiere, che era vuoto, l’appoggiò e prese quello di Sirio, che era pieno. Lo vuotò d’un sorso. Si puntò entrambi gli indici alle tempie.

«Insomma, se capisco bene. La segretaria se l’intende col principale e l’avvocato. L’avvocato con la moglie del principale e la sua segretaria; il principale… altro che triangoli, questo è un politico irrazionale! No. Com’è che si dice, professo’?»

«Poligono irregolare.»

«Ecco, bravo, quello! E poi c’è la faccenda del furto della molecola.»


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lunedì 12 ottobre 2020

La virgola della Sibilla - Racconto




La virgola della Sibilla

 

 

In alto a sinistra, il simbolo a forma di fiamma e la dicitura “Carabinieri” attestavano l’autenticità del filmato. In basso a destra la data: 23 aprile, l’ora e i minuti (14:05) e lo scorrere dei secondi. La telecamera stava inquadrando il pianerottolo di una rampa di scale e l’esterno della porta blindata di un appartamento. Chi la stava utilizzando la faceva zumare sul pulsante del campanello e la targhetta: “Int. 6 – Antonio Debresci”.

Una voce fuori campo diceva: «È questa casa sua, signor Debresci?»

La telecamera si spostò di scatto su chi aveva parlato e inquadrò un uomo in divisa, con i baffi e le basette brizzolate, con i gradi di maresciallo dei carabinieri. Accanto a lui, un uomo magro sulla trentina con una voglia a forma di fragola sulla tempia, fece un cenno affermativo con la testa: «Sì».

«Ha con sé le chiavi?»

«Sì» ripetette l’uomo giovane.

La telecamera venne puntata sulla mano di Antonio Debresci che estraeva dalla tasca dei pantaloni una chiave di sicurezza. La tenne sospesa, aveva l’impugnatura di plastica azzurra, di quelle intercambiabili.

«Apra» disse il maresciallo.

Antonio Debresci fece ruotare la chiave nel cilindro e spinse l’anta.

Dentro era buio.

«Faccia strada, signor Debresci, e accenda le luci.»

La telecamera era puntata verso l’interno dell’appartamento. Per qualche attimo la nuca e le spalle di Debresci riempirono l’inqua­dratura. Poi Debresci ruotò il busto per arrivare all’interruttore e improvvisa la luce illuminò l’ambente. L’immagine si spostò in una carrellata circolare e inquadrò un uomo seduto su una seggiola da cucina al centro della stanza. Nello specchio alle sue spalle si vedevano i nodi delle funi che lo tenevano aderente alla spalliera, la testa gli ciondolava sul petto. Sulla tovaglia a fiori che ricopriva il piccolo tavolo di fianco a lui era appoggiato qualcosa. Quando l’obbiettivo ingrandì i dettagli, si poté riconoscere una doppietta. Le due canne e la cassa erano state tagliate.

Si avvertì un conato fuori campo.

La telecamera ruotò per inquadrare Antonio Debresci che si piegava in avanti per vomitare, poi, come per un ripensamento, tornò di scatto sull’uomo seduto e zumò.

L’uomo seduto non aveva la faccia.

  

Undici mesi dopo.

 La lettera, consegnatagli nella mattinata del diciotto marzo, era contenuta in una busta inviatagli dai suoi genitori. Padre Salvatore Meraci, giovane prete da poco assegnato alla parrocchia di Santa Lucia in Forlì, si rigirò fra le mani per l’ennesima volta la seconda busta e tornò a leggerne il mittente: “Antonio Debresci, c/o Avv. Giovanni Capurno, via Aspromonte, 14, 90134 Palermo”.

Padre Salvatore aveva conosciuto sui banchi delle scuole medie, a Roma, un Antonio Debresci. Ma era stato una ventina d’anni prima, e da allora si erano persi di vista. Davvero non sapeva spiegarsi come Antonio, oggi, volesse mettersi in contatto con un ex compagno di classe, dopo così tanto tempo.

La lettera, inoltre, scritta a mano, con parole sparse in maiuscolo, era a dir poco demenziale. 

Palermo, 13 marzo.

Caro Salvatore, amico mio, ultima spes, cerca di capirmi, ricordi i pomeriggi a studiare il latino e le lingue morte e sconosciute? Ora sto impazzendo. QUESTA MIA vita È un REBUS. Devo confessarti che sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO.  NON POSSO CHIEDERE PERDONO A DIO PER QUESTO DELITTO. Non ho più altri cui potermi rivolgere… ed ho pensato a te. Vorrei poterti dire di più, se il destino mi aiuterà ti fornirò un altro messaggio. Ma non so se avrò la forza di scriverlo. Ti prego non dimenticarmi.

Il tuo amico… (seguiva una firma illeggibile).

“P.S.1: SIMPATICI ricordi. Morse e fuggi era il nostro motto, ricordi?

“P.S.2: Oggi è il 13… il 13 che si ripete. Codice 13, come dimenticarlo. 

L’indirizzo comunque non lasciava dubbi: era proprio per lui, inviata presso l’abitazione dei suoi genitori a Roma; che evidentemente l’amico Antonio Debresci non aveva dimenticato.

  

Padre Salvatore non sapeva risolversi se gettarla nella spazzatura e non pensarci più oppure… già, oppure che?

Chiese il parere del parroco.

Don Pasquino si rigirò lettera e busta per le mani. Lesse e rilesse.

«So io come fare» disse infine, e richiamò dalla rubrica del cellulare il numero del professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico. Gli spiegò il fatto. 

«Vediamo…!» Disse il professore.

Siccome abitava a due passi, fece la strada a piedi fino alla canonica.

«Mi sembra la lettera di un mentecatto… o di un mitomane. Io non ci darei peso più di tanto, ma, a scanso di qualsiasi scrupolo di coscienza voglio sentire l’opinione di Sirio.»

  

«Chiarissima!» Affermò Sirio.

Sei occhi lo fissavano quasi fosse stato un prestigiatore che annunciava di voler estrarre una tigre dal cilindro. 

«Caro Salvatore amico mio non ha bisogno di commenti mi pare; eravate amici o no?»

«Be’, sì, studiavamo insieme, il pomeriggio, quasi sempre a casa dei miei. Facevamo le scuole medie, lui aveva la passione dei linguaggi più inusuali. Ricordo che aveva studiato i sistemi di crittografia dei codici in uso presso i vari eserciti durante il corso dell’ultima guerra. Aveva una curiosità incredibile… se non comprendeva qualcosa ci si intestardiva fino a venirne a capo. Intelligente, sì, molto intelligente.»

«Bene. Quindi se si rivolge a lei in quanto ultima spes, ultima speranza, possiamo credergli; e prendere sul serio l’invocazione cerca di capirmi! Bene, capirlo, ma come? Ce lo spiega: le lingue morte e… soprattutto, sconosciute! Le parole, ora sto impazzendo, non necessitano di commenti. Ma perché impazzisce? Ce lo dice subito, però prima ci fornisce la “chiave” di lettura per accedere al messaggio: le prime parole scritte in maiuscolo. Proviamo a leggerle a se stanti: Questa mia è un rebus. La lettera, quindi, deve essere interpretata come un arcano il cui vero significato è nascosto. Andiamo avanti: Sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. Perché la virgola dopo uomo, quando la sua posizione naturale sarebbe prima della parola NON che segue?»

Si fermò e rivolse lo sguardo dall’uno all’altro dei tre.

«A questo punto devo raccontarvi una storia, che forse già conoscete ma è utile evocare.»


Il seguito potrai leggerlo sulla raccolta :

"Indagini sulla morte di Betty"

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