Il fatto vero è che il candidato, per usare le parole di Giangi, l’aveva, non esattamente perseguitato, ma ossessionato sì.
Per capire cosa intendesse Giangi immaginate strade, immaginate quartieri e rioni, immaginate la città intera tappezzata da un susseguirsi continuo e ininterrotto di cartelloni inneggianti al candidato; ciascuno traboccante della sua effigie.
Bene, immaginato che avete questo, con un ulteriore impiego di fantasia immaginate ancora che quel candidato, in queste sue fotoriproduzioni in primissimo piano, sorrideva a tutto campo.
Oh, si badi, era un bell’uomo il candidato; e il sorriso che offriva agli elettori faceva proprio un bel vedere. E poi si è già detto prima che Giangi non ce l’aveva affatto con lui: non gli aveva fatto nulla e nemmeno gli era antipatico. Ma allora, direte voi, perché lo fece? Si è detto anche questo: a causa dell’ossessione.
Giangi, di mestiere, faceva il tipografo.
Vedo che cominciate a capire, o perlomeno intuire.
Giangi infatti lavorava proprio nella grande tipografia cui erano stati commissionati i cartelloni per la campagna elettorale del candidato. Erano così grandi, questi cartelloni, che venivano stampati in quindici riquadri, che dall’alto verso il basso, in file da tre, così lo ritraevano:
capelli, calvizie, capelli
tempia, fronte, tempia
occhio, naso, occhio
guancia, bocca, guancia
spalla, cravatta, spalla.
Costretto a controllare le rotative, Giangi se le vedeva sfilare davanti al naso tutto il santo giorno queste porzioni anatomiche del candidato: capelli calvizie capelli, tempia fronte tempia, occhio naso occhio… tanto in ordine composto ma spesso, anche, in ordine sparso: guancia occhio naso… cravatta bocca occhio… naso fronte spalla… per cui, dopo, le doveva riunire, accatastare, impacchettare, imballare, riordinare, spostare, caricare, scaricare, trasportare, trasbordare, immagazzinare, ricaricare, riscaricare e ritrasportare per tutto il tempo che gli imponeva il contratto di lavoro; e poi, quando a sera usciva dai capannoni della tipografia, l’immagine del candidato, ricomposta, ora, nella sua magnifica grandezza, seguitava a osservarlo dall’alto dei cartelloni posti lungo i bordi delle strade.
Si dirà che una volta giunto a casa, basta!
Ma, no!
Giangi abitava due stanzette a primo piano, e tutte le finestre gli affacciavano su una piazza vasta che, trovandosi alla periferia estrema, si andava a perdere nei prati. Ora, c’è da credere che qualcuno, per nascondere agli occhi dei cittadini lo spettacolo di quella campagna così aperta che si sperdeva in lontananza in macchie d’erba verde e paglierina, aveva contornato la piazza di cartelloni pubblicitari i quali, adesso, erano tutti abbigliati sul davanti, ma forse anche a tergo, verso i campi, con l’immagine sorridente del candidato.
Per Giangi non c’era pace. Non aveva bisogno d’affacciarsi per vedere i cartelloni, poiché si trovavano giusto alla sua altezza; e con essi l’effige del candidato ricomposta e sorridente.
Gli ultimi fra voi obietteranno che giunta infine l'oscurità della notte… basta. Macché, ma no! Un cartellone alto due piani rivestiva il fianco del palazzo davanti al letto di Giangi; il quale palazzo, da quel lato, non aveva le finestre e l’intonaco era così malandato e brutto che per non turbare con esso la vista del vicinato si era deciso di nasconderlo con quel viso bonario e sorridente. Potenti fari poi, sistemati con grande studio, illuminavano a spolvero quel cartellone di quasi un ettaro. Ebbene, il sorriso del candidato stava in linea proprio col cuscino del nostro Giangi.
Chiudesse le persiane! Calasse le tapparelle! Tirasse le tende! Concluderà qualcuno.
Facile a dirsi e anche a farsi... per chiunque altro! Non per le fobie multiple di Giangi che, grande e grosso, aveva paura del buio e temeva i luoghi chiusi.
Ma nel sonno almeno, insisterà l’ultimo
obiettore, avrà pur trovato ristoro questo Giangi, dalla vista del sorriso del
candidato che, come dice, l’ossessionava. Il guaio è che Giangi soffriva
d’insonnia.
Chi, fra voi, ha mai provato
un’ossessione, di qualsiasi genere intendiamoci, sa per certo che sconvolge
l’ordine naturale dei valori, l’obbiettività dei giudizi, l’equità dei pareri;
che offusca ogni altro aspetto della vita. Sa bene costui che l’oggetto
ossessionante assurge al primo posto nei suoi pensieri, spingendo a calci e
gomitate tutti gli altri sotto a lui.
Dopo giorni di campagna elettorale Giangi
aveva un solo desiderio: non rivedere mai più il candidato; il che, fra tanti altri
desideri che gli sarebbero stati facilmente consentiti, gli era invece precluso
fermamente. In tipografia distoglieva lo sguardo, si distraeva, si girava
altrove; per la via si osservava i piedi; in casa camminava come i gamberi, di
lato, con le spalle alle finestre; la notte stava a occhi chiusi, o voltato
verso il muro; ma inutilmente, perché alla minima distrazione, al breve
sollevarsi delle ciglia, il sorriso cubitale del candidato incombeva sopra di
lui.
Basta!
Fu una scintilla. Un lampo. Un moto fulmineo di ribellione, un volersi infine difendere o riscattare.
Imposizione per
imposizione, si disse, e agì.
Con l’arte propria al suo mestiere alterò
le matrici, ritoccò le rotative, ricombinò i quindici segmenti anatomici ormai
ben noti e infine, soddisfatto e curioso, attese.
Durante la notte un esercito di operai
affisse i nuovi cartelloni per strade e piazze della città. Ma, fra essi,
nessuno notò nulla, nessuno se ne accorse, oppure, se a qualcuno fu dato di
vedere, tacque.
Anche Giangi non trascorse la notte inerme.
Rimase sveglio. Non per causa dell’insonnia questa volta, e nemmeno per
l’ossessione che gli dava il grande tabellone affisso di fronte a casa sua.
Anzi, malgrado la fatica di arrampicarsi sulla scala a pioli, si divertì non
solo a stare sveglio, ma anche a esprimere su quel tabellone un’arte da pittore caricaturista che nessuno gli sospettava.
L’indomani un’alba linda illuminò il
nuovo volto del candidato; o meglio i suoi nuovi volti; giacché appariva adesso, sui nuovi tabelloni, qui sdentato, là strabico convergente, più avanti
parimenti strabico, ma divergente; ove con una grossa goccia di moccolo sotto la narice,
ove con i denti da castoro; su alcuni con un bubbone o porro sopra il mento, su
altri con un nasone rosso da pagliaccio.
Sorpresa, meraviglia, sorrisetti, battutine; espressioni compiaciute, indispettite, sconcertate, impermalite; commenti sarcastici, sagaci, divertiti, indulgenti, plaudenti, consenzienti o dissenzienti. Un nugolo, un esercito, una folla stava a naso in su quella mattina, passando da un cartellone all’altro, giacché tutti apparivano diversi: mille volti di un unico candidato.
Mai, per tutta la campagna
elettorale, il volto del candidato era stato osservato così tanto!
Il candidato ne fu felice...! Si dirà.
Macché. Montò su tutte le furie.
Ben presto ne seguì una denuncia, le
indagini... il processo... per direttissima.
Giangi, non molto dopo, si ritrovò sul banco degli imputati.
Fu interrogato.
Invitato a parlare, gli venne chiesto di
spiegarsi. E Giangi ripetette al giudice quello che abbiamo detto a voi.
Il giudice era un tipo austero. Il solo
guardarlo incuteva soggezione. Aveva i capelli bianchi, il volto pallido, lo
sguardo lavato. E se invece di essere così chiaro, avesse avuto la pelle scura,
te lo saresti raffigurato come quei mascheroni africani che hanno il naso lungo
lungo, gli occhi vicini vicini, la fronte alta alta e la bocca stretta stretta.
Sarebbe stato insomma davvero un bel soggetto per le rotative del nostro
Giangi… Ma basta, torniamo a noi. Il giudice guardò dunque Giangi con cipiglio
e chiese:
«Insomma, Giangiacomo Carlomarialuigi…» fece una pausa per studiare certi fogli, borbottando fra sé «ma diamine, qual è il nome?»
Si distolse infine e tornò a Giangi: «Insomma, a questa Corte le modalità del crimine ascrittovi
appaiono chiare; non così i moventi… e dunque, per concludere, li dichiarate,
questi moventi, di ordine politico?»
Giangi si guardava attorno smarrito, si mordicchiava un’unghia mangiucchiata, si passava la mano fra i capelli. «Ma no» borbottava «che c’entra la politica? Io non sono né per questo né per quello; la politica che c’entra?»
Il giudice dava segni d’impazienza; spostava qualche
oggetto, tamburellava con le dita, sbuffava in aria. Infine, spazientito, non
si trattenne più e sbottò:
«Ma davvero signor Gian… Gian… come vi
chiamate, davvero pretendete che il sottoscritto possa credere a questa storia
dell’ossessione? Comunque sia» e qui il giudice si eresse in tutta la sua
maestà, assumendo, della maschera africana, anche quella certa aria mistica da totem che le è propria, comunque sia,
cos’avete da dire a vostra discolpa?»
«Che invoco la legittima difesa…?» accennò Giangi titubante.
Ma il giudice a quanto pare non sentì, o non capì; o non
volle sentire né capire, poiché picchiò forte il martelletto ed emise la
sentenza.
«Basta. Siete condannato a risarcire i
danni!»
«Ma…» tentò Giangi un’obiezione «con che
soldi?»
«La seduta è chiusa» fece rintoccare il
suo strumento un’ultima volta il giudice; e fatto il suo dovere si alzò senz’altro
e uscì.
Eh, con la legge non si scherza cari miei.
La condanna parlava chiaro. Giangi avrebbe dovuto pagare di tasca sua la carta necessaria,
e ristampare, fuori dell’orario, altrettanti tabelloni di quanti ne aveva
danneggiati.
Questa è equità! E anche lui lo ammette.
Adesso, ancora stampa pubblicità e
volantini durante il giorno; poi, la notte, e in questo l’insonnia gli è
d’aiuto, ripubblica l’effige giusta del candidato, il quale, a campagna
elettorale già conclusa da un bel pezzo, ancora sorride dai bordi delle strade.
Chi sa, forse per le prossime elezioni
Giangi non avrà ancora esaudito la sentenza… o esaurito la condanna che dir si
voglia, e il candidato potrà sorridere lungo i marciapiedi, sulle piazze, appeso
al palazzo che sta di fronte al letto di Giangi fra questa legislatura e
l’altra senza soluzione di continuità.
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2 commenti:
grazie lo leggero con piacere buonanotte sogni d'oro
ciao romano grazie lo leggero con piacere
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