venerdì 23 ottobre 2020

Il poligono irregolare - Racconto






ANTEPRIMA:


Il poligono irregolare


Giovedì.

«Da queste parti ci abita una che conosco, si chiama Lisa» disse Ric accanto al casco a barchetta di Marc.

Marc diede gas e fece impennare il motorino, così Ric, che stava dietro, dovette abbracciarlo per non cadere.

In verità Marc si chiamava Marco e Ric Enrico. Questa cosa dei nomi americani se l’era inventata qualcuno a inizio anno scolastico e tutti l’avevano ripresa, anche qualche professore progressista come il Tullio; la vecchia Triburzi invece, quella quasi pretendeva che le dessero del lei. Il Tullio era giovane, era al primo anno di insegnamento e li aveva messi al banco assieme, Ric e Marc.

Il motorino tornò sulle due ruote e Marc chiese, girando un po’ la testa: «Ah… e  com’è questa Lisetta?»

Marc era alto e robusto, dimostrava diciott’anni invece dei quindici che aveva. Era alto, robusto e prepotente; il duro della classe, quello che non aveva paura nemmeno del preside e che se non gli andava di entrare se ne rimaneva a fumare appoggiato al muro accanto al portone della scuola sfidando con lo sguardo la Triburzi, e anche il preside, a dirgli qualcosa. Invece Ric non arrivava al metro e mezzo e pesava quarantacinque chili. Ric si era trasferito da Bologna quest’anno e il Tullio, il primo giorno, l’aveva messo al banco con Marc, dal momento che con lui nessuno ci resisteva e stava solo. Invece loro due erano diventati amici e si dividevano le sigarette di tabacco che comprava Ric e gli spinelli che Marc rubava a suo padre. Sniffare non sniffavano, anche se Marc avrebbe potuto attingere dalla scorta di suo padre; non sniffavano perché Marc non voleva diventare come sua madre, che era più il tempo che passava al centro di recupero di quello che stava a casa.

«È bionda… ha dodici anni» rispose Ric. Che intendesse Marc l’aveva capito, ma non gli andava di raccontargli che era magra, piatta e con l’apparecchio per i denti.

«Ah… e i suoi lavorano?»

Ric rispose senza rifletterci: «Sì, tutt’e due». Poi capì il motivo vero della domanda e si pentì di avergliene parlato.

Alle due del pomeriggio, in aprile, Forlì dormicchiava, e per la zona dei villini avevano incontrato solo un paio di ragazze in bicicletta e un vecchio col cane al guinzaglio; dai villini arrivava soltanto il frusciare degli alberi e nessun altro sospiro.

«Be’» disse Marc «se abita qui, almeno è ricca. L’andiamo a trovare?»

Ric non sapeva come uscirne.

«Ma no» disse «oggi non mi va, qualche altra volta semmai…»

«Te la vuoi spassare da solo, eh macho» sghignazzò Marc.

Ric gli fece una risata accanto al casco, voleva essere una risata da macho vero, ma non gli venne troppo bene.

Marc diede gas e Ric dovette affrettarsi ad abbracciarlo.

Il motorino si impennò un’altra volta.



Sirio, alle due del pomeriggio, ritornava a piedi verso casa. Era giovedì, aveva pranzato alla mensa dell’università e pregustava di andarsene in riviera per godersi un pomeriggio da Pasqualone e riflettere sul caso del brevetto trafugato; il quale, così lineare nell’esposizione dell’industriale Matteo Massolombardo, secondo Sirio presentava non secondari e inquietanti risvolti morbosi. Ci rimuginava da lunedì sera, quando erano usciti dalla riunione e Urbani aveva esclamato: «Finalmente un incarico semplice, ce lo risolviamo in una settimana… mi sembrano quasi soldi rubati».

Poi, siccome glielo aveva promesso, intorno alle otto doveva essere di nuovo a Forlì per assistere alla semifinale del torneo di scacchi. Il professor Urbani gareggiava per accaparrarsi il titolo, per il terzo anno consecutivo, e non gli avrebbe perdonato una defezione.

I due adolescenti sul motorino uscirono dalla traversa giusto davanti a lui. Quello alla guida robusto, con la fibbia del casco ciondoloni; l’altro minuto, col naso a punta e gli occhi un po’ sporgenti; entrambi portavano al lobo sinistro un orecchino, identici fra loro, due piccoli rubini sicuramente di valore, sicuramente appartenuti a una donna. Sirio ragionò rapidamente sul ventaglio di implicazioni possibili per cui gli orecchini di una donna fossero finiti al lobo di due adolescenti. Imboccato il viale costeggiato dai villini il motorino si impennò e percorse alcuni metri sulla ruota posteriore, col ragazzo seduto dietro che abbracciava l’altro per non essere sbalzato di sella.

Sirio memorizzò la targa.


Lo stabilimento balneare di Pasqualone a Cesenatico in aprile era chiuso. Ma Pasqualone teneva aperto il chiosco bar tutto l’anno, e a richiesta faceva anche da mangiare. Ci campava.

Sirio ci andava perfino d’inverno, se il tempo era buono e non aveva impegni. Ci si trovava bene e Pasqualone, napoletano verace, era simpatico e metteva buonumore.

Invece quel giovedì tirava vento di tramontana sul litorale di Cesenatico, e Sirio aveva chiesto a Pasqualone di sistemargli la sdraio da spiaggia in un cantuccio del locale da cui, attraverso i vetri della portafinestra, poteva scorgere il mare in burrasca.

Il chiosco era fatto di robusta muratura e all’interno il frastuono dei marosi e il sibilo del vento arrivavano attutiti.

Seduto nella sdraio Sirio aveva ricostruito ogni dettaglio, ogni impressione dell’incontro nell’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo.

Sirio non credeva che la verità sia quella che ci si mostra, anzi, spesso è quella che ci viene nascosta. La verità svelata, che concerneva l’ambito economico, era il furto del brevetto da parte di un’azienda concorrente di un prodotto di proprietà della Massolombardo Farmaceutica. Le verità nascoste, al momento, rivestivano un carattere per così dire… sentimentale. Ma soldi e sesso vanno spesso a braccetto, si sa.

Quanto poi alla verità bell’e pronta del dipendente sorpreso a carpire i segreti aziendali riversandoli su una pennetta USB… be’, troppo lineare, troppo semplice per non meritare una verifica.

Non c’erano altri avventori e Pasqualone, finito di lustrare il ripiano del banco, riempì due bicchieri e venne da Sirio.

«Whiskey, professore, di quello buono; ma ditemi, che vi succede? oggi non siete del vostro solito umore.»

«Segga accanto a me Pasqualone, le vorrei raccontare una storia, della quale, purtroppo, non conosco ancora il finale. Le va di sentirla, o ha da fare?»

«Da fare? No, no, con questo tempo non entrerà nessuno.»

Pasqualone aprì una seconda sdraio accanto a Sirio e riuscì ad incastrarcisi.

«Tutto comincia col furto di una molecola.»

«Una molecola, professo’?»

«Già, un integratore per gli sportivi…»

«E chi l’ha rubato?»

«È quanto dobbiamo scoprire, caro Pasqualone. Ma cominciamo dall’inizio.»



Il lunedì precedente.

La segretaria bionda e perfetta che aveva aperto sovrastava il professore di tutta la testa.

«Puntualissimi» sorrise lanciando un’occhiata all’orologio digitale appeso sopra il tornello per le presenze dei dipendenti, che in quel momento era scattato a segnare le 19:01 di Lun. 12 Apr. «Sono tutti di là. Faccio strada.»

Le mannequin sulla passerella spostano avanti il piede in modo da appoggiarlo su una linea all’interno dell’altro. Dà loro eleganza. E comporta lo spostamento di lato dell’anca, molto seducente; specie se osservato di spalle. Ebbene la segretaria, più sobria, allineava il tacco del piede che spingeva avanti alla punta dell’altro, senza per questo risultare meno seducente o elegante; cosa che Sirio poté apprezzare per il breve tratto del corridoio in cui li precedette.

L’ufficio dell’industriale Matteo Massolombardo era vasto e luminoso. L’ampia finestra affacciava sullo stabilimento e due basse ciminiere dissolvevano nell’aria un filamento di fumo bianco. Al di qua di una scrivania di ultima generazione col piano di cristallo tanto lucido da credere che fosse refrattario alla polvere, sedevano un uomo atletico sui quaranta e una donna molto bella, che si voltarono subito verso la porta, due sorrisi da Beautiful della prima stagione televisiva. L’industriale Massolombardo, doppiopetto gessato, capelli sale e pepe ancora folti pettinati indietro, si alzò dalla scrivania e venne ad abbracciare il professore, suo vecchio compagno di scuola.

La stessa età eppure così diversi.

Il professore, la testa con qualche capello bianco all’intorno appoggiata su un corpo a forma di uovo, presentò Sirio come: «Il mio assistente».

L’industriale appoggiò la mano sulla spalla della bella signora dallo splendido sorriso: «Mia moglie Eleonora, nonché Presidente della Massolombardo Farmaceutica e socio di maggioranza», quindi su quella del quarantenne atletico «e Giorgio Dediscentis, il mio legale, nonché amico».

Tutti presero posto attorno allo scrittoio, il professore al centro, l’avvocato e la bella moglie alla sua sinistra e Sirio a destra, un po’ arretrato, in quanto Assistente; mentre la segretaria bionda, a un cenno d’assenso di Matteo Massolombardo faceva la spola fra un tavolino imbandito e gli ospiti per porgere tazzine di caffè, liquori e pasticcini, impegnata nell’esercizio impossibile di non voltare le spalle a nessuno mentre si chinava. Nel porgere l’ultima tazzina, quella destinata al titolare, si protese verso lo scrittoio nello spazio ristretto fra le sedie di Urbani e Dediscentis. Nessuno avrebbe dovuto vedere, e nessuno avrebbe potuto vedere la mano di Dediscentis infilarsi sotto la gonna e indugiare in una carezza sulle belle gambe, se non Sirio, dalla sua posizione arretrata.

«Cercherò di essere breve» esordì Matteo Massolombardo girando il cucchiaino nel caffè e rivolgendosi al professore «come sai noi produciamo essenzialmente integratori per lo sport. È un mercato inflazionato, per cui è inevitabile scontrarsi con una concorrenza spietata. La soluzione è distinguersi, rinverdire, prendere le distanze dagli altri produttori, soprattutto rinnovare l’offerta. Così, circa un anno fa ho incaricato il nostro settore di ricerca affinché studiasse una nuova miscela energizzante da destinare agli sportivi. Un investimento di ordine economico considerevole, giunto finalmente a maturazione e pronto a ripagarci con risultati concreti.»

La segretaria bionda prese a ritirare tazzine e bicchieri.

Questa volta, per raggiungere Massolombardo, girò attorno allo scrittoio.

Esiste una distanza minima, una specie di aura individuale che viene inconsapevolmente rispettata. Varia in base a motivi legati alla cultura del posto. Negli Stati Uniti è stimata intorno ai centoventi centimetri, in Italia scende a circa sessanta fra gli estranei per arrivare a quaranta fra conoscenti e amici. Il contatto fisico, al difuori delle strette di mano e degli abbracci di saluto è limitato ai familiari o alle persone intime. Nel prendere la tazzina la segretaria bionda appoggiò il seno alla spalla di Massolombardo, e lui non si ritrasse. Forse non se ne rese conto, perché stava dicendo:

«Ebbene, finalmente il nuovo prodotto era pronto; decidemmo di chiamarlo Besmance, avevamo anche lo slogan, The best for your performance, se non che, al momento di depositare la richiesta di brevetto scoprimmo che era stata presentata la settimana precedente un’istanza per la nostra stessa molecola dalla Interium, un’azienda nostra concorrente.»

«Spionaggio industriale» esclamò il professore.

«Bravo» si diede una pacca sul ginocchio Massolombardo «più precisamente furto di informazioni aziendali riservate…»

«Che intendi?» domandò il professore.

«Che non c’è stato spionaggio dall’esterno, la nostra molecola è stata trafugata da qualcuno all’interno. E sappiamo anche chi è.»



Sempre giovedì.

Nel parco comunale che delimitava il quartiere dei villini era vietato introdurre motocicli. Marc, questo era certo, il motorino incustodito non lo lasciava; così si fermarono alla prima panchina, ombreggiata da un pino, in modo da tenerlo d’occhio; sedettero sulla spalliera e appoggiarono i piedi sulla seduta, le guance sui pugni, i gomiti sulle ginocchia. Ogni tanto passava qualcuno in pantaloncini e canotta e correndo faceva scricchiolare la ghiaia, ma per lo più era silenzio, il ronzio del trafficò, al di là della siepe lungo il perimetro, quasi non arrivava. Avevano mangiato un panino fuori dalla bottega del pane e Ric aveva pagato le birre; un paio se l’erano scolate mentre mangiavano e la terza era posata vicino ai piedi fra loro; ogni tanto si chinavano a prenderla e mandavano giù un sorso, a turno. Poi riappoggiavano le guance sui pugni.

Un po’ veniva sonno.

Ric pensava a Lisa, la ragazzina che abitava ai villini. L’aveva conosciuta l’estate precedente al lido, avevano gli ombrelloni vicini e i genitori avevano preso discorso e anche loro due si erano parlati e avevano fatto il bagno assieme. Negli ultimi giorni erano anche usciti, con altri ragazzi che conosceva lei, a prendere il gelato e passeggiare sul lungomare. A Ric un po’ gli piaceva, ma non le aveva detto niente. All’inizio perché gli sembrava presto, poi perché a giorni si sarebbero separati; lui per tornare a Bologna, lei a Forlì. Ric si diceva che si sarebbero potuti sentire, scambiarsi le foto tramite WhatsApp come facevano un po’ tutti… ma quando poi stava con lei rimandava e insomma non gliel’aveva detto.

A settembre la famiglia di Ric si era trasferita a Forlì.

Sua madre, infermiera, aveva finalmente ottenuto il trasferimento e sarebbe potuta stare vicina ai genitori, anziani, che non stavano troppo bene; e suo padre, che era magazziniere, avrebbe pendolato da Forlì a Imola che tanto già pendolava da Bologna e, fatti i conti, ci voleva stesso tempo e stessa spesa.

Così un pomeriggio che Ric stava con la madre fuori dal centro commerciale vicino al Parco della Resistenza avevano incontrato la madre di Lisetta. Come stai? Come mai qui…? Insomma erano finiti a casa sua a prendere il tè. E Ric aveva rivisto Lisa, si erano chiusi nella sua cameretta e lei gli aveva mostrato sul tablet le fotografie dell’estate e gli aveva fatto leggere certe poesie che ogni tanto scriveva lei, perché le piaceva scriverle.

Poi non si erano più rivisti.

Sua madre qualche volta nominava la madre di Lisa e di andarli a trovare, ma suo padre non era  propenso, diceva che non gli pareva il caso, che gli sembravano gente snob, e lui col marito di lei non ci si ritrovava perché non c’erano argomenti in comune.

Così non se n’era fatto niente.

Adesso pensava di potarci andare con Marc, e fantasticava di come sarebbe stato e di che si sarebbero detti… ma poi no, non era una buona idea di andarci con Marc.

Arrivarono due guardie del comune, due donne, con la divisa bianca e il berretto; una era robusta e la divisa le schiacciava il seno, l’altra magra, col naso a becco. Indossavano i guanti di garza bianca. Quella robusta fece di no col dito e Ric capì e si lasciò scivolare fino a sedersi per bene; e subito invidiò Marc, che al solito se n’era fregato, da vero macho.

Le due vigilesse fecero finta di nulla e tirarono dritto chiacchierando fra loro.

Marc gli bussò sulla spalla e gli porse uno spinello. Accese il suo con l’accendino e glielo passò.

«Che dici, ci andiamo dalla tua amichetta del villino?»

Il sapore del fumo era dolce, e gli dava subito alla testa… un passero saltellò sulla ghiaia qualche metro più in là e gli sembrò molto buffo, gli venne da ridere.

«No, no, oggi no. Qualche altro giorno ci andiamo.»

Dovette scivolare in avanti per poter appoggiare la testa alla spalliera. Guardò Marc, che sembrava una torre puntata verso il cielo, stava aspirando con la testa rivolta verso l’alto, teneva dentro il fumo e poi ne soffiava un poco guardando in su.

Ric chiuse gli occhi, perché gli veniva da vomitare, ma non poteva farlo, perché sarebbe stata la fine anche con Marc, così prese aria e tenne gli occhi chiusi, sperando di riprendersi presto. Sentì Marc che diceva:

«E che fanno i genitori della tua amichetta, che vivono ai villini?»

«I ricercatori.»

«E che mestiere è? Ci si guadagna bene?»

«Boh? Una casa farmaceutica, forse inventano medicine.»



Pasqualone vuotò il bicchiere in un sorso.

«Professo’, ma che… la segretaria se l’intende con l’avvocato e pure col principale? Un triangolo insomma.»

«Sembrerebbe… Ma cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate. Erano soltanto impressioni, al momento.»

«Se lo dite voi…!»

Pasqualone si grattò la tempia: «Ma poi, se hanno scoperto il ladro, dal professore amico vostro, che vogliono? Andate avanti professo’, che sta cosa va chiarita».

La segretaria bionda aveva passato una cartella al professore.

«È tutto nel dossier» aveva detto l’industriale Matteo Massolombardo indicando la cartella, quindi aveva teso la mano verso l’avvocato Giorgio Dediscentis, come a dire: Tocca a te.

La segretaria bionda già pronta alle spalle dell’avvocato con un personal computer acceso glielo passò.

«Guardate!»

Dediscentis aveva una voce profonda e carezzevole. Scandiva ogni parola come concentrato affinché avesse la giusta intonazione. Premette il tasto di invio e rivolse lo schermo verso il professor Urbani.

Un uomo dall’ampia stempiatura, in camice da laboratorio, era ripreso dall’alto. A bordo immagine la stampigliatura della data di una diecina di giorni prima e l’orario: 17:58.

«Quest’uomo si chiama Antonio Diroberto, è il tecnico cui era stato affidato l’incarico di realizzare la molecola. Bene, sul suo monitor potete vedere che sta copiando la cartella del Besmance su una pennetta USB.»

Dediscentis zumò in maniera tale che potessero distinguere i dettagli.

«Bene, adesso ponete attenzione alla telefonata che sta per ricevere.»

Sul tavolo del tecnico di laboratorio ronzò un telefono cellulare, invisibile, perché l’uomo col suo corpo lo copriva alla telecamera: «Pronto».

L’uomo ascoltò. Poi disse: «Sto copiando adesso il file».

Ascoltò.

«Va bene, te lo porto subito.»

Dediscentis mise in pausa.

«Come vedete» disse «abbiamo il colpevole.»

«Perché non lo denunciate?» chiese il professor Urbani.

«Non possiamo esibire questa prova. Le leggi sulla privacy ci vietano di effettuare riprese video dei dipendenti durante il lavoro. Ma…»

Era il re dell’oratoria Dediscentis, aveva pensato Sirio, perfino le pause a effetto.

Dediscentis riprese, riavviando la registrazione:

«Come potete notare, il tecnico Antonio Diroberto risponde alla telefonata alle diciotto e zero due, ed estrae la memoria USB alle diciotto e zero quattro. Tutto quello che accade dalle diciotto, termine dell’orario di lavoro, in poi, può essere oggetto di prova a carico. Ma c’è di più…» altra pausa a effetto, prolungata, interminabile «il tecnico Antonio Diroberto, da quel giorno, non si è più presentato al lavoro. È scomparso!»

Il professor Anselmo Urbani si schiarì la voce: «In conclusione cosa vi aspettate che io faccia?»

L’industriale Matteo Massolombardo disse: «Anselmo, la Massalombardo Farm ha investito capitali ingenti in questo progetto. Se non torniamo in possesso della formula e avviamo la produzione si rischia la bancarotta. Questo significa che il ladro, quell’analista, deve essere giudicato colpevole, in modo tale da indurre la Interium a restituire il brevetto.»

«Capisce professore l’importanza della cosa?» si intromise la bella signora Eleonora.

L’avvocato, per non essere da meno, scattò in piedi; sembrava volesse gridare Vostro onore mi oppongo. Brandiva il portatile come Mosè le Tavole della legge.

«Dobbiamo inchiodare quest’uomo! Vogliamo una perizia autorevole e circostanziata da presentare nel momento in cui decideremo di adire le vie legali! Il suo incarico consiste in questo!»

Il piano di cristallo refrattario alla polvere era sostenuto da lucentissime gambe di acciaio: Specchi.

Nessuno avrebbe dovuto vedere, nessuno avrebbe potuto vedere se la gamba più prossima alla signora Eleonora non l’avesse riflessa mentre infilava la mano sotto il cavallo dei calzoni dell’avvocato, in un gesto intimo, orgoglioso e complice.

E Sirio la vide.



Pasqualone si menò una fragorosa pacca sulla coscia.

«Professo’, ma allora la moglie se l’intende coll’avvocato! Un altro triangolo!»

Nella foga scosse il proprio bicchiere, che era vuoto, l’appoggiò e prese quello di Sirio, che era pieno. Lo vuotò d’un sorso. Si puntò entrambi gli indici alle tempie.

«Insomma, se capisco bene. La segretaria se l’intende col principale e l’avvocato. L’avvocato con la moglie del principale e la sua segretaria; il principale… altro che triangoli, questo è un politico irrazionale! No. Com’è che si dice, professo’?»

«Poligono irregolare.»

«Ecco, bravo, quello! E poi c’è la faccenda del furto della molecola.»


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lunedì 12 ottobre 2020

La virgola della Sibilla - Racconto




La virgola della Sibilla

 

 

In alto a sinistra, il simbolo a forma di fiamma e la dicitura “Carabinieri” attestavano l’autenticità del filmato. In basso a destra la data: 23 aprile, l’ora e i minuti (14:05) e lo scorrere dei secondi. La telecamera stava inquadrando il pianerottolo di una rampa di scale e l’esterno della porta blindata di un appartamento. Chi la stava utilizzando la faceva zumare sul pulsante del campanello e la targhetta: “Int. 6 – Antonio Debresci”.

Una voce fuori campo diceva: «È questa casa sua, signor Debresci?»

La telecamera si spostò di scatto su chi aveva parlato e inquadrò un uomo in divisa, con i baffi e le basette brizzolate, con i gradi di maresciallo dei carabinieri. Accanto a lui, un uomo magro sulla trentina con una voglia a forma di fragola sulla tempia, fece un cenno affermativo con la testa: «Sì».

«Ha con sé le chiavi?»

«Sì» ripetette l’uomo giovane.

La telecamera venne puntata sulla mano di Antonio Debresci che estraeva dalla tasca dei pantaloni una chiave di sicurezza. La tenne sospesa, aveva l’impugnatura di plastica azzurra, di quelle intercambiabili.

«Apra» disse il maresciallo.

Antonio Debresci fece ruotare la chiave nel cilindro e spinse l’anta.

Dentro era buio.

«Faccia strada, signor Debresci, e accenda le luci.»

La telecamera era puntata verso l’interno dell’appartamento. Per qualche attimo la nuca e le spalle di Debresci riempirono l’inqua­dratura. Poi Debresci ruotò il busto per arrivare all’interruttore e improvvisa la luce illuminò l’ambente. L’immagine si spostò in una carrellata circolare e inquadrò un uomo seduto su una seggiola da cucina al centro della stanza. Nello specchio alle sue spalle si vedevano i nodi delle funi che lo tenevano aderente alla spalliera, la testa gli ciondolava sul petto. Sulla tovaglia a fiori che ricopriva il piccolo tavolo di fianco a lui era appoggiato qualcosa. Quando l’obbiettivo ingrandì i dettagli, si poté riconoscere una doppietta. Le due canne e la cassa erano state tagliate.

Si avvertì un conato fuori campo.

La telecamera ruotò per inquadrare Antonio Debresci che si piegava in avanti per vomitare, poi, come per un ripensamento, tornò di scatto sull’uomo seduto e zumò.

L’uomo seduto non aveva la faccia.

  

Undici mesi dopo.

 La lettera, consegnatagli nella mattinata del diciotto marzo, era contenuta in una busta inviatagli dai suoi genitori. Padre Salvatore Meraci, giovane prete da poco assegnato alla parrocchia di Santa Lucia in Forlì, si rigirò fra le mani per l’ennesima volta la seconda busta e tornò a leggerne il mittente: “Antonio Debresci, c/o Avv. Giovanni Capurno, via Aspromonte, 14, 90134 Palermo”.

Padre Salvatore aveva conosciuto sui banchi delle scuole medie, a Roma, un Antonio Debresci. Ma era stato una ventina d’anni prima, e da allora si erano persi di vista. Davvero non sapeva spiegarsi come Antonio, oggi, volesse mettersi in contatto con un ex compagno di classe, dopo così tanto tempo.

La lettera, inoltre, scritta a mano, con parole sparse in maiuscolo, era a dir poco demenziale. 

Palermo, 13 marzo.

Caro Salvatore, amico mio, ultima spes, cerca di capirmi, ricordi i pomeriggi a studiare il latino e le lingue morte e sconosciute? Ora sto impazzendo. QUESTA MIA vita È un REBUS. Devo confessarti che sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO.  NON POSSO CHIEDERE PERDONO A DIO PER QUESTO DELITTO. Non ho più altri cui potermi rivolgere… ed ho pensato a te. Vorrei poterti dire di più, se il destino mi aiuterà ti fornirò un altro messaggio. Ma non so se avrò la forza di scriverlo. Ti prego non dimenticarmi.

Il tuo amico… (seguiva una firma illeggibile).

“P.S.1: SIMPATICI ricordi. Morse e fuggi era il nostro motto, ricordi?

“P.S.2: Oggi è il 13… il 13 che si ripete. Codice 13, come dimenticarlo. 

L’indirizzo comunque non lasciava dubbi: era proprio per lui, inviata presso l’abitazione dei suoi genitori a Roma; che evidentemente l’amico Antonio Debresci non aveva dimenticato.

  

Padre Salvatore non sapeva risolversi se gettarla nella spazzatura e non pensarci più oppure… già, oppure che?

Chiese il parere del parroco.

Don Pasquino si rigirò lettera e busta per le mani. Lesse e rilesse.

«So io come fare» disse infine, e richiamò dalla rubrica del cellulare il numero del professor Anselmo Urbani, suo carissimo amico. Gli spiegò il fatto. 

«Vediamo…!» Disse il professore.

Siccome abitava a due passi, fece la strada a piedi fino alla canonica.

«Mi sembra la lettera di un mentecatto… o di un mitomane. Io non ci darei peso più di tanto, ma, a scanso di qualsiasi scrupolo di coscienza voglio sentire l’opinione di Sirio.»

  

«Chiarissima!» Affermò Sirio.

Sei occhi lo fissavano quasi fosse stato un prestigiatore che annunciava di voler estrarre una tigre dal cilindro. 

«Caro Salvatore amico mio non ha bisogno di commenti mi pare; eravate amici o no?»

«Be’, sì, studiavamo insieme, il pomeriggio, quasi sempre a casa dei miei. Facevamo le scuole medie, lui aveva la passione dei linguaggi più inusuali. Ricordo che aveva studiato i sistemi di crittografia dei codici in uso presso i vari eserciti durante il corso dell’ultima guerra. Aveva una curiosità incredibile… se non comprendeva qualcosa ci si intestardiva fino a venirne a capo. Intelligente, sì, molto intelligente.»

«Bene. Quindi se si rivolge a lei in quanto ultima spes, ultima speranza, possiamo credergli; e prendere sul serio l’invocazione cerca di capirmi! Bene, capirlo, ma come? Ce lo spiega: le lingue morte e… soprattutto, sconosciute! Le parole, ora sto impazzendo, non necessitano di commenti. Ma perché impazzisce? Ce lo dice subito, però prima ci fornisce la “chiave” di lettura per accedere al messaggio: le prime parole scritte in maiuscolo. Proviamo a leggerle a se stanti: Questa mia è un rebus. La lettera, quindi, deve essere interpretata come un arcano il cui vero significato è nascosto. Andiamo avanti: Sono in prigione per aver ucciso un uomo, NO. Perché la virgola dopo uomo, quando la sua posizione naturale sarebbe prima della parola NON che segue?»

Si fermò e rivolse lo sguardo dall’uno all’altro dei tre.

«A questo punto devo raccontarvi una storia, che forse già conoscete ma è utile evocare.»


Il seguito potrai leggerlo sulla raccolta :

"Indagini sulla morte di Betty"

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