Il racconto completo è nella raccolta FRAMMENTI DI ADESSO pubblicato con lo pseudonimo Marcello Melis. E' disponibile in pre-ordine su Amazon a questo Link:
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Trastevere è ancora avvolta nel silenzio del mattino, le strade sono vuote e il cielo ha quella sfumatura di azzurro pallido che promette una giornata luminosa. Io abito i vicoli antichi, dove arrivando per la prima volta come è capitato a me, ti aspetteresti di incontrare un carretto attaccato a un mulo, con a cassetta un artigiano di allora, con i baffoni arricciolati e il cappello con le falde flosce. Dipende forse dalle strade lastricate di sampietrini (come chiamano qui i cubi di selce che usano), o forse dalle palazzine basse, accostate l’una all’altra, o dai tetti di tegole scure, oppure dai balconcini minuti con le ringhiere ricoperte di gerani pendenti. Ma Roma non è così da per tutto, anzi, tutt’altro. Anche per questo il mio monolocale mansardato mi è piaciuto e ci sono rimasto, malgrado mi ci voglia più di un’ora per arrivare in facoltà e poi un’altra per ritornare. Comunque per me non è un problema, io mi sveglio presto; sarà per l’abitudine della campagna siciliana, dove sono nato e cresciuto fino a tre anni fa. Faccio colazione in casa, per risparmiare, con una tazza di latte e qualche fetta di pane. La strada, quando scendo, ha l’aspetto straniante di una piazza dopo un concerto rock, oppure dello stadio deserto. Non è una via di transito. A quest’ora del mattino incontri solo i residenti che rincasano dal turno di notte e quelli che vanno al lavoro. Poi, nel corso della mattinata le cose cambiano, si alzano le serrande dei negozi, arrivano i furgoncini dello scarico merci e i primi turisti curiosi. Più tardi i due ristoranti sul marciapiede di fronte allestiscono i tavoli, apparecchiano per il pranzo; e ancora dopo, col crepuscolo, comincia l’afflusso della movida, il ricambio delle generazioni. Arrivano i ragazzi e le ragazze con i jeans calati e le magliette sbrindellate e i tatuaggi e i piercing, si aggirano con in mano la birra tenuta per il collo e vanno a occupare i tavoli lasciati dagli stranieri, si siedono ai gradini davanti alle porte, formano gruppi, vanno avanti e indietro, e così fanno notte.
Quando esco io tutto questo è passato, le pedane dei due ristoranti sono quiete, i tavoli lasciati nudi dai camerieri sembrano abbandonati, le sedie aspettano il nuovo turno impilate da un lato. Io cammino veloce, l’aria è ancora frizzante, conserva il profumo della rugiada. Camminare veloce mi aiuta a riscaldarmi. Con la coda dell’occhio colgo una stonatura, di qualcosa fuori posto. Devo tornare indietro qualche passo, per controllare. La donna è seduta – no, meglio, riversa – sulla soglia del ristorante, nascosta dai tavoli. Indossa un vestito rosso, abbastanza lungo. I capelli che le ricadono dalla testa reclinata nascondono il viso. Non è raro il caso di senzatetto che trovi a dormire nei cantoni più incredibili, o di ubriachi e tossici rimasti accasciati dove sia, in attesa di riprendersi e ritrovare la via di casa. Io di solito tiro dritto, tanto la cosa, nella sua normalità – o anormalità – si risolve da sé. Questa volta è diverso. Mi avvicino, ma non la tocco. Non le vedo bene il petto, in quella sua posizione, con la spalla in avanti e il braccio che le ricade fino a terra. Non so stabilire se respira.
«Scusi,» dico.
Mi rendo conto di aver usato un tono troppo basso, indeciso.
Mi faccio coraggio e le scuoto piano il braccio, ma non reagisce.
Devo chiamare il 112, penso.
Mentre cerco il telefonino, lei solleva la testa; mi fissa strizzando gli occhi per mettermi a fuoco; con la fronte contratta cerca di raccapezzarsi, di ricostruire fatti.
«Dove sono?» dice.
«Come si sente?» chiedo io, invece di rispondere.
«Che è successo?»
Se sono i postumi di una sbornia, l’ha presa brutta, penso.
«Non ricorda niente? Vuole che chiami l’ambulanza?»
«No, no…» si porta la mano alla fronte, «sto bene.»
In effetti sembra solo confusa.
«Mi dia la mano, l’aiuto ad alzarsi, se la sente?»
Fa di sì con la testa, si tira su a fatica. Barcolla leggermente, si appoggia al muro, si regge alla mia mano.
Devo dire che è bella, davvero molto bella. Potrà avere una ventina d’anni più di me, intorno ai quaranta, quindi. È vestita da sera, ma senza gioielli.
«La mia borsetta?» si guarda attorno.
Guardo anch’io: non ci sono borsette.
«Com’è finita qui? Vuole che chiami suo marito, qualcuno?» agito appena il telefonino.
Ma lei: «No, no. Mi faccia sedere, un momento».
Libero la sedia in cima alla pila e l’aiuto a sedersi.
Ha la mano aperta davanti alla fronte, come per ripararsi dal sole.
«A teatro,» dice.
In effetti c’è un teatro, a poche traverse da lì.
«Era a teatro? Da sola? E poi, che è successo?»
Scuote la testa: «Non ricordo».
Non vedo lividi sulla fronte o altri segni che facciano pensare a una caduta o che abbia battuto la testa. Davvero non so che pensare.
«Dunque era a teatro, ma non ricorda cos’è successo prima e dopo. Ma se è sposata e come si chiama, questo deve saperlo.»
Mi rendo conto di aver usato un tono impaziente.
Lei fa di no con la testa: «Non sono sposata. Vivo sola. Mi chiamo Tiziana, avevo prenotato con internet, doveva venire anche una mia amica che si chiama Luisa, poi non si sentiva bene e sono venuta da sola. C’era un tipo, nella poltrona accanto, uno spigliato, sorridente, ha attaccato discorso, si è presentato, si chiama Mario, faceva commenti spiritosi sulle battute degli attori, sottovoce, accostandosi al mio orecchio. Durante la pausa mi ha offerto da bere. Poi… non ricordo più niente...
Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social, intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.
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