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LA RAGAZZA SUL
BALCONE
Capelli neri, lunghi fino
alle spalle, la vedevo ogni giorno fra le 13 e le 14. Non distinguevo bene i
lineamenti, ma brutta non era; e posso assicurare che le gambe avrebbero compensato
qualunque difetto. Per chi sa quale gioco urbanistico, per quale studiato
incastro di volumi, il mio palazzo fronteggiava il suo. Io mi trovavo al primo
piano, lei al quarto e trascorrevamo quell’ora del dopopranzo a scambiarci
occhiate da balcone a balcone, o meglio, io la guardavo… e mi sembrava che lo
facesse anche lei.
Ero un fuorisede, un leccese
trapiantato nella magniloquente caotica Roma; il mio universo si riduceva a un
pendolo oscillante tra la Facoltà di Architettura alla Sapienza e uno studio di
progettazione dalle parti di Piramide. A giorni alterni frequentavo i corsi
inseguendo la laurea, negli altri mi seppellivo nello studio, dove svolgevo
calcoli di stabilità per ingegneri che avevano molta fretta e poca pazienza.
Ormai la mia esistenza era un diagramma di forze, un computo di tensioni e
compressioni, e, in tutto questo rincorrere, tempo per lo svago e le ragazze ne
rimaneva ben poco… anzi, a essere onesti, direi niente. Lo studio si trovava a
una sola fermata di metropolitana dal monolocale in affitto, così potevo
sfuggire al triste rito del panino al bar assieme ai colleghi. Dalla facoltà riuscivo
a rientrare più o meno nello stesso tempo. Mi scaldavo un boccone di pasta
avanzata e uscivo sul balcone.
Era maggio. Le giornate a quell’ora avevano
il tepore della natura al risveglio; il prato tra il mio palazzo e quello della
ragazza bruna profumava di erba fresca e di margherite appena sbocciate; il
rumore del traffico, in quella periferia di città, era solo un mormorio distante.
Mi sedevo sulla mia sdraio con in mano un libro che non avrei letto e guardavo
in su, con cautela, senza farmene accorgere. Lei era sempre lì, sul suo
balcone. A volte usava una bottiglia per annaffiare i vasi, altre riordinava
qualcosa, si spostava, si affacciava, si ritirava; l’incarnato rosa delle sue
gambe mi ammiccava dall’ombra della gonna, mentre si voltava. Io speravo di
sorprendere il colore delle mutandine, che immagino nere, oppure color carne, e
mi ritrovavo a fantasticare che forse non le indossava affatto. Altre volte,
anche lei sulla sdraio, leggeva un libro o una rivista, forse si appisolava,
per qualche minuto. Sedeva sempre con le gambe rivolte verso di me, facendomi
sognare.
Per tutto il periodo antecedente al
fatto che sto per raccontarvi, non le avevo mai fatto un cenno. Oh, non per
timidezza, ma perché non ero mai sicuro che mi stesse veramente guardando. Io
stesso, per non farle immaginare che sbirciavo, usavo una tecnica furtiva: a
testa bassa fingevo di leggere o di mangiare un frutto e alzavo soltanto gli
occhi. Eppure sentivo che si era creato un feeling fra noi, un legame sottile,
teso attraverso il vuoto che ci separava, invisibile eppure persistente, una
relazione costruita su traiettorie di sguardi, su coincidenze di orari, sulla
condivisione della medesima porzione di vita.
Non ci eravamo mai incontrati per il
quartiere, forse per via degli orari, o semplicemente perché l’ingresso del suo
palazzo affacciava sulla strada alle sue spalle (ad est) e quello del mio sulla
via dietro di me (ad ovest). Ma presentivo che prima o poi sarebbe successo.
L’occasione è stata un ritardo.
L’ingegnere mi aveva trattenuto per una questione urgente: una verifica
strutturale dell’ultimo momento, col cliente che aspettava in anticamera.
Tastiera, computer, formule statiche, algoritmi. Percussione di tasti, sequenze
di formule, calcoli ultraveloci. Erano passate le tre, quando ho ritirato i tabulati
dalla stampante.
«Dovrei andare in pausa pranzo,» ho
detto sottovoce all’ingegnere, mentre glieli passavo.
La sua priorità era il cliente in
attesa. «Vai pure,» ha risposto distratto.
Metropolitana. La mia fermata.
Affiorando dalle scalette nel sole del
pomeriggio ho visto la ragazza bruna. Non era una sagoma umana a venti metri di
distanza, una figura femminile distorta dalla prospettiva, ma lei, meravigliosamente
donna. Veniva diritta verso di me e finalmente distinguevo i dettagli. Occhi scuri,
fissi, decisi; naso diritto, bocca che non sente il bisogno del rossetto. Aveva
la giacca ripiegata sul braccio, i capelli oscillano, la minigonna svolazzava a
ogni passo delle gambe nervose e perfette. Fermo sull’ultimo gradino aspettavo
che si avvicinasse. Era il momento di trasformare ogni fantasia in una realtà
concreta e meravigliosa.
Le ho sorriso.
Ciao, sono io, ci vediamo ogni giorno
dal balcone… stavo per dirle.
Sono stato sul punto di afferrarla per
il braccio.
Lei mi è passata accanto col naso che
puntava le scale della metropolitana. È sparita in quell’antro buio.
Non mi ha visto, volevo
giustificarla.
Invece ero sicuro che mi aveva notato,
riconosciuto e ignorato.
Il seguito? Appena lo pubblico vi informo tramite social, intanto leggete qualcos'altro, non manca da leggere, qui.
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